Portare il lavoro là dove il lavoro non c’è, portare la formazione, dove anche chi è marginalizzato può finalmente trovare la propria dignità. Soprattutto in quei paesi classificati come Sud del Mondo, ma che hanno anche molto da insegnarci. Da queste premesse nasce EFI, la Ethical Fashion Initiative, un programma dell’International Trade Center e un’agenzia congiunta tra Onu e Organizzazione Mondiale del Commercio.
A fondarla è stato Simone Cipriani, pistoiese, classe 1964. Studia all’università di Firenze, poi entra nell’industria e inizia a lavorare con l’estero e all’estero. È qui che comincia la cooperazione con l’Onu, ed è da questo momento che decide di fondare l’EFI, che ora ha permesso a tante persone di raggiungere un salario dignitoso. Ma anche di creare un tessuto sociale e investimenti nella infrastrutture e in formazione che fino a poco fa sembrava impossibile.
Cipriani, com’è nata EFI?
“Lavoravo nel mondo dell’industria e dell’export. Sono stato dirigente di un’azienda che faceva calzature e che aveva alcune realtà in Asia, sono stato per anni a Delhi, in Indonesia e in Cina. Quest’azienda faceva tanta formazione e aveva molta manodopera, per cui ho iniziato anche a collaborare con la Cooperazione italiana, che mi ha permesso di creare un primo centro di formazione nella manifattura calzaturiera e nel lavoro della pelle, e più in generale della moda. Da lì smisi di lavorare per l’azienda e mi chiamarono a dirigere una Ong. Dopo qualche anno sono entrato nell’Organizzazione dell’Onu per lo sviluppo industriale e ad Addis Abeba ho diretto un centro di manifattura calzaturiera. Mi sono così trasferito in Etiopia nel 2004. Ma nel 2002 avevo conosciuto un missionario laico, Gino Filippini, che viveva nella baraccopoli di Korogocho in Kenya, vicino Nairobi e che creava cooperative e lavoro. Io da Addis Abeba mi spostavo tutti i fine settimana e andavo da lui, guardavo come lavorava. Dormivo nel garage di un convento, perché le suore non mi permettevano di dormire all’interno della struttura. E iniziai a lavorare con lui a una cooperativa per un calzaturificio”.
Ed è qui che nasce davvero EFI
“Esatto. L’International Trade Center mi chiese di lavorare con loro. Ed io avevo questo progetto sulla moda etica. Al tempo a dirigerla c’era una donna giamaicana, Patricia Francis, che aveva studiato in America, aveva una cultura economica moderna. Mi disse di fargli un business plan, che doveva sopravvivere due anni e funzionare. Ed ha funzionato, se siamo qui è grazie a questo”.
In quali Paesi ha operato?
“Uganda, Ghana, Benin, Costa d’avorio, Etiopia, Eritrea, Congo e per un breve periodo anche in Afghanistan, poi con il ritiro degli Stati Uniti e il ritorno dei talebani ce ne siamo dovuti andare. Davamo lavoro a oltre 3.400 donne. Oggi lavoriamo sempre in Kenya, dove abbiamo iniziato, Burkina Faso, Benin e Costa d’Avorio”.
E come funziona l’Ethical Fashion Initiative?
“È una struttura che cerca di creare lavoro dignitoso e rendere dignità a chi non ce l’ha per motivi non dipendenti da loro. E lo fa seguendo i precetti dell’Onu, seguendo il faro dei diritti umani, che è una componente fondamentale dell’ordine internazionale, perché mostra la differenza tra la civiltà e la barbarie. Grazie all’ordine internazionale creato dalle Nazioni Unite, infatti, la prosperità può essere condivisa e si crea dialogo grazie a un ordinamento che ci siamo creati insieme. Senza le Nazioni Unite, infatti, si va avanti tramite la legge del più forte”.
Avete avuto molto sostegno da parte dei grandi marchi della moda
“Sì, abbiamo lavorato con Vivienne Westwood, con Armani, con Stella McCartney, con Chloé, ma direi un po’ con tutti. Ma la prima a credere in noi è stata Westwood. Mi ricordo che andammo con un grande scatolone nero nella sede della società, uno scatolone che sembrava una bara. Ci dissero: ‘Chi siete?’. E noi: ‘Siamo l’Onu, per lavorare in Africa’. E lì incontrammo Vivienne, che venne anche in Kenya a vedere cosa facevamo, che fece fare una campagna fotografica a Yurgen Teller. E accanto a lei, un’altra donna che ci ha dato una grande mano. È stata Susy Menkes, che ci ha sempre sostenuti con i suoi articoli sul New York Times. Anche lei venne a Nairobi e ci lanciò con una serie di servizi sulle nostre produzioni”.
Avete iniziato in Kenya. E ancora oggi il Kenya è importante
“Il Kenya è casa. Qui abbiamo iniziato nel 2008-2009 grazie a tanti gruppi di aiuto, chiamati ‘Self Help Group’, che è un tipo di cooperativa semplice. Poi questi gruppi si aggregano in aziende di capitale. In Kenya sono tre, sono una specie di Srl. E sopra a queste c’è un soggetto collettivo, che è l’impresa sociale e che è l’interfaccia commerciale delle tre aziende di capitale. Questa è la Tujikuze, che in swahili significa ‘impegniamoci, prendiamoci cura di noi stesse’. Un’impresa che oggi conta oltre 1.900 artigiane e che è governata da donne. Un’impresa di donne per le donne, quindi. E che oggi è pronta anche a confrontarsi con i grandi ordini internazionali, ad accrescere la forza lavoro e a creare nuovi centri di formazione”.
Qualcosa è cambiato nell’ultimo anno. Conad ha fatto un ordine molto grande e le artigiane di Tujikuze sono riuscite a portarlo a termine nei tempi previsti. Ci racconta un po’ di più?
“Tutto è iniziato con l’incontro casuale con Maurizio Barsacchi, direttore del marketing di Conad Nord Ovest. Loro cercavano una realtà particolare a cui affidare un progetto per il 25 novembre, noi cercavamo una grande realtà per ampliare il nostro mercato. Da questo scambio è nata l’intenzione di creare il portachiavi solidale. E Tujikuze non aveva mai visto un ordine così grande. Ma le artigiane si sono messe d’impegno e hanno portato a termine il lavoro. Questo grande lavoro ha permesso a tante donne di ottenere un salario che permettesse loro l’indipendenza, di vivere anche quando i mariti che fanno i pastori sono fuori, anche per mesi. E non solo permette di mangiare, vivere e non morire di stenti, ma anche di creare infrastrutture sociali. Grazie a questi guadagni si stanno creando pozzi, scuole, strade. Ma anche nuove fabbriche. Loro si preparano a grandi ordini adesso”.
E lavorate solo con le aziende o anche direttamente con i consumatori?
“Finora il nostro è un
business ‘b2b ’, ovvero produciamo prodotti per alcune aziende. Ma vorremmo cercare di vendere direttamente al consumatore, grazie al commercio online, già dalla collezione estate del 2025. Stiamo portando avanti nuove linee di sviluppo, che non hanno sfogo solo nel commercio internazionale, ma anche nell’economia locale”.