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Home » Scienze e culture » Epilessia, il grido di Walter: “La malattia mi ha rovinato la vita da quando ero bambino”

Epilessia, il grido di Walter: “La malattia mi ha rovinato la vita da quando ero bambino”

La denuncia del sessantenne romano, che si fa portavoce dei circa 600mila epilettici che vivono in Italia: "Abbandonati dalle istituzioni. Trovare lavoro è quasi impossibile e non abbiamo diritto alla pensione di invalidità"

Caterina Ceccuti
1 Marzo 2023
Walter denuncia la condizione di migliaia di epilettici come lui, abbandonati dallo Stato

Walter denuncia la condizione di migliaia di epilettici come lui, abbandonati dallo Stato

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Quando arriva una delle sue crisi epilettiche serie, Walter cade a terra in stato di incoscienza. Può darsi che sbatta la testa, si spacchi i denti, si ferisca ad una gamba. Non importa dove si trovi, non importa quello che stia facendo né tanto meno quali farmaci per tenere a bada “il suo mostro” stia assumendo in quel periodo: “L’epilessia ritorna sempre, prima o poi. E lo fa senza preavviso. La mia paura più grande, fin da quando ho iniziato a soffrirne da bambino, è sempre stata quella di farmi male seriamente, perché perdendo conoscenza non posso neanche parare la caduta”.
Dicono che l’epilessia non sia poi una malattia così grave. Dicono che con i farmaci tutto sommato la si possa tenere a bada e che, alla fin fine, chi ne soffre possa condurre una vita quasi normale. Invece Walter, tecnico informatico originario di Roma, la pensa in modo completamente diverso, e insieme a lui molti epilettici gravi che si confrontano ogni giorno nelle community appositamente create sui social network. “Avevo nove anni quando nel 1970 ho avuto la mia prima crisi epilettica. Mia madre pensò che stessi morendo: non aveva mai visto un epilettico, non aveva mai sentito parlare di questa malattia. Quando mi ripresi ero tra le sue braccia e la sentivo gridare aiuto disperata. A quel tempo – stiamo parlando di 50 anni fa – non c’erano farmaci adeguati, perciò i medici andavano per tentativi, sperimentando su di me medicine di cui non si conoscevano gli effetti. Ho passato gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in uno stato di semi rimbambimento perenne, entrando e uscendo dai reparti di Neuropsichiatria infantile tra i 9 e i 15 anni”.

Walter, lei ha anche subito esami strumentali molto invasivi, vero?
“Purtroppo, sì. Un giorno d’estate, dopo un anno dall’esordio della patologia, mi trovavo in ospedale per accertamenti. Un neurologo del reparto, senza consultare prima i miei genitori, decise di testa propria di sottopormi alla pneumoencefalografia, un esame terribilmente invasivo dai postumi dolorosissimi. Mi legarono caviglie e polsi alla barella e mi portarono in sala operatoria. Strillavo, mi dimenavo, supplicavo che non mi facessero del male, perché avevo capito che ad attendermi non ci sarebbe stato niente di bello. Ma un bambino di dieci anni, da solo, come poteva difendersi?
I medici mi fecero la puntura lombare per addormentarmi e mentre ero sotto anestesia totale usarono un compressore per mandarmi aria nella scatola cranica e, successivamente, farmi una lastra. Il dolore che provai al momento del risveglio è indescrivibile. Non potevo muovermi, vomitavo continuamente e la testa mi scoppiava. La mia vita insieme al mostro è iniziata così”.

Quando Walter era piccolo non si conosceva l’epilessia e non veniva perciò curato con i farmaci giusti

Quali conseguenze, anche relazionali, ha avuto la patologia nella sua vita?
“Da piccolo rimanevo escluso. I farmaci mi rimbambivano, per ciò le mamme degli altri bambini non facevano giocare i loro figli con me. Avevo sempre sonno, studiare era un incubo. Prendere la maturità è stata un’impresa ma, prima ancora, già alle scuole medie alcuni insegnanti mi trattavano male; non credevano che la mia patologia fosse realmente invalidante, soprattutto l’allora professoressa di Matematica. Una volta però mi prese una crisi proprio durante il suo esame e lei capì finalmente lo sbaglio che aveva commesso nei miei confronti per tre lunghi anni. Allora si mise a piangere. Nel corso dell’adolescenza i problemi sono aumentati, perché alcuni dei farmaci che sono stato costretto ad assumere servono anche per curare le turbe del carattere, per cui finirono per condizionare il mio modo di essere e di esprimermi. Capitava che mi ritrovassi a dire e fare cose strane, col risultato che gli altri ragazzini mi prendevano in giro e, da adolescente, mi escludevano.
Altri traguardi importanti sono riuscito a tagliarli solo con grande ritardo rispetto ai miei compagni, come nel caso della patente di guida, che ho ottenuto a 26 anni, in un periodo in cui gli episodi erano spariti… Purtroppo però poi si sono ripresentati. La beffa è proprio questa: ci sono momenti in cui riesci a tenere le crisi sotto controllo ed altri in cui si fanno sentire spesso, indipendentemente dal farmaco che assumi. Non esiste un controllo al 100% della patologia. Per questo la qualità della vita, quando si soffre come me di epilessia grave, è bassissima. La cosa che mi fa più soffrire è che la mia malattia non venga considerata invalidante dallo Stato, eppure ci sono molti ragazzi che per il solo fatto di soffrirne non riescono a lavorare, ma che allo stesso tempo non hanno diritto ad una pensione come quella che invece spetta a quanti sono affetti da altri tipi di patologie. Non lo ritengo giusto. A persone che hanno crisi gravi come le mie -e vi assicuro che sono tante- non può essere riconosciuto meno del 100% di invalidità, perché rischiamo la vita o comunque danni permanenti ogni volta che una crisi compare.
Molti epilettici, infatti, non possono lavorare, eppure non beneficiano di alcuna pensione, perché ad averne diritto è solo chi supera il 75% di invalidità, mentre epilettici anche gravi, solitamente non ottengono più del 45%… da quello che mi riferiscono altre persone con lo stesso problema. Alla maggior parte degli epilettici non viene dato il 75% perché la valutazione non si basa principalmente sulla gravità degli episodi critici, ma soprattutto sulla loro frequenza. Ciò è sbagliato perché è prima di tutto la gravità a mettere in pericolo la vita di un epilettico. Basta un solo episodio grave a farti affogare nella vasca da bagno, cadere da un balcone o mandarti a sbattere con l’automobile. Per avere il 100% di invalidità con l’epilessia, in teoria ci vorrebbero episodi critici settimanali non controllati da farmaco. Ma so di persone a cui non è stato riconosciuto. Le commissioni non giudicano tutte allo stesso modo”.

Mentre parla con me a Walter trema la voce e il racconto è lento e incostante. “Non dipende dal fatto che sono emozionato – tiene a sottolineare -, ma dagli effetti dei farmaci che mi impediscono di ragionare normalmente e di mettere in fila pensieri e parole con la giusta cognizione. Questo invece non avviene quando scrivo”.

Le persone con epilessia sono spesso vittime di discriminazione perché la malattia non viene riconosciuta come invalidante 

Lei beneficia di una pensione?
“Sì, prendo 313 euro al mese perché la mia invalidità corrisponde all’80%, ma mi è stata riconosciuta solo perché insieme all’epilessia soffro di Osas severa, una sindrome di tipo ostruttivo che provoca apnee notturne molto gravi, tanto che affronto la notte con un supporto pressorio (la Cpap) che garantisce il giusto afflusso di aria e ossigeno al mio cervello. All’inizio avevo 96 apnee l’ora e una saturazione dell’ossigeno che la notte scendeva a 80, come un malato di Covid, per intendersi”.

Perché ha deciso di contattare Luce! e raccontare la sua storia proprio adesso?
“Perché non è più tollerabile che la situazione delle persone epilettiche continui a passare sotto silenzio, che non vengano presi in considerazione neanche i casi più gravi. Siamo disabili a pieno diritto, invece veniamo discriminati sul lavoro e non solo. Io stesso ho subito discriminazione e non me ne sono accorto per lungo tempo. Nessuno mi chiamava per lavorare. Se è vero che per i datori di lavoro esistono agevolazioni per assumere un disabile, ciò non vale quando si parla di epilettici e diabetici, che rappresentano ambiti di disabilità non graditi a molte aziende”.

A quando risale la sua ultima crisi?
“A fine gennaio e sono arrivato ad essere cianotico. Ho perso i sensi per cinque minuti e quando li ho recuperati la pressione misurava 200 e le pulsazioni erano arrivate a 175. Come sempre mi hanno somministrato il Valium. Dall’episodio di crisi al momento in cui mi sono ripreso completamente sono passate diverse ore, perché ogni volta devo superare lo sforzo fisico che ciascuna crisi comporta per il mio corpo e per il mio cervello. Ancora adesso, a distanza di un mese, mi sento stranito. Comunque, l’ultima volta mi sono spaventato davvero perché ho capito che stavo per morire. Da tempo non avevo una crisi come questa. Al pronto soccorso dell’ospedale di San Donato di Arezzo mi hanno messo su una barella e lì sono rimasto per 18 ore. Mi sono stati fatti gli opportuni esami ma nessuno mi ha chiesto se dovessi bere, anche dopo diverse ore”.

Ma i farmaci anti epilettici non funzionano per niente?
“Gli anticonvulsivi non funzionano su tutte le persone alla stessa maniera, abbassano la frequenza delle crisi ma sicuramente non è vero che garantiscono a tutti noi una vita simil normale. Personalmente assumo anticonvulsivi da 53 anni e non ho mai avuto una vita paragonabile a quella degli altri. Basti dire che nei primi sei anni di malattia, ossia nell’età compresa tra i nove e i quindici, ho preso circa 30 farmaci diversi e inutili. Tutt’oggi finisco ciclicamente al pronto soccorso. Più di una volta sono caduto di faccia e mi sono ritrovato con un edema che sembrava la maschera di Zorro, mentre un’altra volta mi sono rotto i denti. Il problema grave è che non ti accorgi di quello che ti sta succedendo, è come un blackout improvviso nella testa. Hai la pressione a 200 e i battiti a 175-180, ti scoppiano i capillari sotto le palpebre e preghi Dio di cadere bene e non farti male. Mentre cadi, non allunghi le mani, non pari la caduta, ti spegni e basta, poi il buio totale e ‘boom’, l’impatto al suolo. I farmaci non controllano completamente la situazione, solo nel caso di epilessie leggere. Magari una persona grave come me può stare tre o quattro anni senza crisi, ma stai pur certo che improvvisamente ritorneranno. Ci sono inoltre persone con epilessie refrattarie ai farmaci”.

Il suo desiderio è lanciare attraverso Luce! un appello alle Istituzioni sanitarie…
“Sì, è per questo che mi sono rivolto alla vostra redazione. Voglio chiedere alle Istituzioni che l’epilessia a certi livelli di gravità venga riconosciuta come una patologia invalidante, avente diritto al dovuto accompagnamento. Anche ai datori di lavoro vorrei chiedere di non avere pregiudizi nei confronti delle persone con epilessia moderata, e di chiamarle a lavorare perché tutti hanno diritto alle stesse opportunità nella vita, basate su requisiti di merito e non su condizioni di salute che non pregiudicano il proprio impegno professionale”.

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  • "Ora dobbiamo fare di meno, per il futuro".

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Quando arriva una delle sue crisi epilettiche serie, Walter cade a terra in stato di incoscienza. Può darsi che sbatta la testa, si spacchi i denti, si ferisca ad una gamba. Non importa dove si trovi, non importa quello che stia facendo né tanto meno quali farmaci per tenere a bada “il suo mostro” stia assumendo in quel periodo: "L'epilessia ritorna sempre, prima o poi. E lo fa senza preavviso. La mia paura più grande, fin da quando ho iniziato a soffrirne da bambino, è sempre stata quella di farmi male seriamente, perché perdendo conoscenza non posso neanche parare la caduta”. Dicono che l'epilessia non sia poi una malattia così grave. Dicono che con i farmaci tutto sommato la si possa tenere a bada e che, alla fin fine, chi ne soffre possa condurre una vita quasi normale. Invece Walter, tecnico informatico originario di Roma, la pensa in modo completamente diverso, e insieme a lui molti epilettici gravi che si confrontano ogni giorno nelle community appositamente create sui social network. “Avevo nove anni quando nel 1970 ho avuto la mia prima crisi epilettica. Mia madre pensò che stessi morendo: non aveva mai visto un epilettico, non aveva mai sentito parlare di questa malattia. Quando mi ripresi ero tra le sue braccia e la sentivo gridare aiuto disperata. A quel tempo - stiamo parlando di 50 anni fa - non c'erano farmaci adeguati, perciò i medici andavano per tentativi, sperimentando su di me medicine di cui non si conoscevano gli effetti. Ho passato gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza in uno stato di semi rimbambimento perenne, entrando e uscendo dai reparti di Neuropsichiatria infantile tra i 9 e i 15 anni”. Walter, lei ha anche subito esami strumentali molto invasivi, vero? “Purtroppo, sì. Un giorno d'estate, dopo un anno dall'esordio della patologia, mi trovavo in ospedale per accertamenti. Un neurologo del reparto, senza consultare prima i miei genitori, decise di testa propria di sottopormi alla pneumoencefalografia, un esame terribilmente invasivo dai postumi dolorosissimi. Mi legarono caviglie e polsi alla barella e mi portarono in sala operatoria. Strillavo, mi dimenavo, supplicavo che non mi facessero del male, perché avevo capito che ad attendermi non ci sarebbe stato niente di bello. Ma un bambino di dieci anni, da solo, come poteva difendersi? I medici mi fecero la puntura lombare per addormentarmi e mentre ero sotto anestesia totale usarono un compressore per mandarmi aria nella scatola cranica e, successivamente, farmi una lastra. Il dolore che provai al momento del risveglio è indescrivibile. Non potevo muovermi, vomitavo continuamente e la testa mi scoppiava. La mia vita insieme al mostro è iniziata così”.
Quando Walter era piccolo non si conosceva l'epilessia e non veniva perciò curato con i farmaci giusti
Quali conseguenze, anche relazionali, ha avuto la patologia nella sua vita? “Da piccolo rimanevo escluso. I farmaci mi rimbambivano, per ciò le mamme degli altri bambini non facevano giocare i loro figli con me. Avevo sempre sonno, studiare era un incubo. Prendere la maturità è stata un'impresa ma, prima ancora, già alle scuole medie alcuni insegnanti mi trattavano male; non credevano che la mia patologia fosse realmente invalidante, soprattutto l'allora professoressa di Matematica. Una volta però mi prese una crisi proprio durante il suo esame e lei capì finalmente lo sbaglio che aveva commesso nei miei confronti per tre lunghi anni. Allora si mise a piangere. Nel corso dell'adolescenza i problemi sono aumentati, perché alcuni dei farmaci che sono stato costretto ad assumere servono anche per curare le turbe del carattere, per cui finirono per condizionare il mio modo di essere e di esprimermi. Capitava che mi ritrovassi a dire e fare cose strane, col risultato che gli altri ragazzini mi prendevano in giro e, da adolescente, mi escludevano. Altri traguardi importanti sono riuscito a tagliarli solo con grande ritardo rispetto ai miei compagni, come nel caso della patente di guida, che ho ottenuto a 26 anni, in un periodo in cui gli episodi erano spariti... Purtroppo però poi si sono ripresentati. La beffa è proprio questa: ci sono momenti in cui riesci a tenere le crisi sotto controllo ed altri in cui si fanno sentire spesso, indipendentemente dal farmaco che assumi. Non esiste un controllo al 100% della patologia. Per questo la qualità della vita, quando si soffre come me di epilessia grave, è bassissima. La cosa che mi fa più soffrire è che la mia malattia non venga considerata invalidante dallo Stato, eppure ci sono molti ragazzi che per il solo fatto di soffrirne non riescono a lavorare, ma che allo stesso tempo non hanno diritto ad una pensione come quella che invece spetta a quanti sono affetti da altri tipi di patologie. Non lo ritengo giusto. A persone che hanno crisi gravi come le mie -e vi assicuro che sono tante- non può essere riconosciuto meno del 100% di invalidità, perché rischiamo la vita o comunque danni permanenti ogni volta che una crisi compare. Molti epilettici, infatti, non possono lavorare, eppure non beneficiano di alcuna pensione, perché ad averne diritto è solo chi supera il 75% di invalidità, mentre epilettici anche gravi, solitamente non ottengono più del 45%... da quello che mi riferiscono altre persone con lo stesso problema. Alla maggior parte degli epilettici non viene dato il 75% perché la valutazione non si basa principalmente sulla gravità degli episodi critici, ma soprattutto sulla loro frequenza. Ciò è sbagliato perché è prima di tutto la gravità a mettere in pericolo la vita di un epilettico. Basta un solo episodio grave a farti affogare nella vasca da bagno, cadere da un balcone o mandarti a sbattere con l’automobile. Per avere il 100% di invalidità con l’epilessia, in teoria ci vorrebbero episodi critici settimanali non controllati da farmaco. Ma so di persone a cui non è stato riconosciuto. Le commissioni non giudicano tutte allo stesso modo”. Mentre parla con me a Walter trema la voce e il racconto è lento e incostante. “Non dipende dal fatto che sono emozionato - tiene a sottolineare -, ma dagli effetti dei farmaci che mi impediscono di ragionare normalmente e di mettere in fila pensieri e parole con la giusta cognizione. Questo invece non avviene quando scrivo”.
Le persone con epilessia sono spesso vittime di discriminazione perché la malattia non viene riconosciuta come invalidante 
Lei beneficia di una pensione? “Sì, prendo 313 euro al mese perché la mia invalidità corrisponde all'80%, ma mi è stata riconosciuta solo perché insieme all'epilessia soffro di Osas severa, una sindrome di tipo ostruttivo che provoca apnee notturne molto gravi, tanto che affronto la notte con un supporto pressorio (la Cpap) che garantisce il giusto afflusso di aria e ossigeno al mio cervello. All’inizio avevo 96 apnee l’ora e una saturazione dell’ossigeno che la notte scendeva a 80, come un malato di Covid, per intendersi”. Perché ha deciso di contattare Luce! e raccontare la sua storia proprio adesso? “Perché non è più tollerabile che la situazione delle persone epilettiche continui a passare sotto silenzio, che non vengano presi in considerazione neanche i casi più gravi. Siamo disabili a pieno diritto, invece veniamo discriminati sul lavoro e non solo. Io stesso ho subito discriminazione e non me ne sono accorto per lungo tempo. Nessuno mi chiamava per lavorare. Se è vero che per i datori di lavoro esistono agevolazioni per assumere un disabile, ciò non vale quando si parla di epilettici e diabetici, che rappresentano ambiti di disabilità non graditi a molte aziende”. A quando risale la sua ultima crisi? “A fine gennaio e sono arrivato ad essere cianotico. Ho perso i sensi per cinque minuti e quando li ho recuperati la pressione misurava 200 e le pulsazioni erano arrivate a 175. Come sempre mi hanno somministrato il Valium. Dall'episodio di crisi al momento in cui mi sono ripreso completamente sono passate diverse ore, perché ogni volta devo superare lo sforzo fisico che ciascuna crisi comporta per il mio corpo e per il mio cervello. Ancora adesso, a distanza di un mese, mi sento stranito. Comunque, l'ultima volta mi sono spaventato davvero perché ho capito che stavo per morire. Da tempo non avevo una crisi come questa. Al pronto soccorso dell’ospedale di San Donato di Arezzo mi hanno messo su una barella e lì sono rimasto per 18 ore. Mi sono stati fatti gli opportuni esami ma nessuno mi ha chiesto se dovessi bere, anche dopo diverse ore”. Ma i farmaci anti epilettici non funzionano per niente? "Gli anticonvulsivi non funzionano su tutte le persone alla stessa maniera, abbassano la frequenza delle crisi ma sicuramente non è vero che garantiscono a tutti noi una vita simil normale. Personalmente assumo anticonvulsivi da 53 anni e non ho mai avuto una vita paragonabile a quella degli altri. Basti dire che nei primi sei anni di malattia, ossia nell'età compresa tra i nove e i quindici, ho preso circa 30 farmaci diversi e inutili. Tutt'oggi finisco ciclicamente al pronto soccorso. Più di una volta sono caduto di faccia e mi sono ritrovato con un edema che sembrava la maschera di Zorro, mentre un’altra volta mi sono rotto i denti. Il problema grave è che non ti accorgi di quello che ti sta succedendo, è come un blackout improvviso nella testa. Hai la pressione a 200 e i battiti a 175-180, ti scoppiano i capillari sotto le palpebre e preghi Dio di cadere bene e non farti male. Mentre cadi, non allunghi le mani, non pari la caduta, ti spegni e basta, poi il buio totale e 'boom', l'impatto al suolo. I farmaci non controllano completamente la situazione, solo nel caso di epilessie leggere. Magari una persona grave come me può stare tre o quattro anni senza crisi, ma stai pur certo che improvvisamente ritorneranno. Ci sono inoltre persone con epilessie refrattarie ai farmaci”. Il suo desiderio è lanciare attraverso Luce! un appello alle Istituzioni sanitarie... “Sì, è per questo che mi sono rivolto alla vostra redazione. Voglio chiedere alle Istituzioni che l'epilessia a certi livelli di gravità venga riconosciuta come una patologia invalidante, avente diritto al dovuto accompagnamento. Anche ai datori di lavoro vorrei chiedere di non avere pregiudizi nei confronti delle persone con epilessia moderata, e di chiamarle a lavorare perché tutti hanno diritto alle stesse opportunità nella vita, basate su requisiti di merito e non su condizioni di salute che non pregiudicano il proprio impegno professionale”.
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