Il blocco della serie “Avetrana – Qui non è Hollywood” ci obbliga a una riflessione cruciale sulla nostra società, sempre più ossessionata dalla narrazione del crimine. La serie, prodotta da Groenlandia e Disney, era pronta a raccontare la tragica vicenda del 2010 che ha visto la quindicenne Sarah Scazzi assassinata in circostanze che hanno sconvolto l’Italia. Tuttavia, il Tribunale di Taranto, su richiesta del Comune di Avetrana, ha deciso di sospendere la messa in onda, originariamente prevista per il 25 ottobre su Disney Plus, sollevando un dibattito tra chi difende il diritto di raccontare la realtà e chi invoca il rispetto per il dolore delle comunità coinvolte.
Il crimine diventa spettacolo
Questo blocco si inserisce in un fenomeno più ampio: la trasformazione della sofferenza e del crimine reale in intrattenimento di massa. La tragedia umana diventa una merce, una narrazione ripetuta e consumata, spesso spogliata della sua carica emotiva originaria. Programmi come ‘Quarto Grado’ o ‘Chi l’ha visto?’ sono esempi emblematici di questo approccio mediatico, dove il crimine non viene solo raccontato per informare, ma per intrattenere. Lo spettatore viene catturato da un’ossessiva ricerca di dettagli morbosi, mentre il dolore reale si trasforma in uno spettacolo di facile fruizione.
Il caso di Avetrana non è solo una questione di censura. Dietro l’apparente difesa della libertà di espressione – invocata dalle associazioni audiovisive come Anica e Apa – si cela un interrogativo più profondo: fino a che punto il crimine può essere spettacolarizzato senza svuotare di senso la tragedia? Gli autori della serie difendono la loro scelta, sostenendo che la narrazione si basa su fatti oggettivi, emersi dai processi. Ma ciò che viene narrato, nella sua confezione televisiva, rischia di disumanizzare il crimine stesso, facendolo diventare un semplice tassello dell’infinito ciclo mediatico.
La desensibilizzazione collettiva
E qui si solleva una questione che coinvolge la sensibilità collettiva. La narrazione del dolore e della sofferenza umana è giustificata dall’esigenza di far riflettere, di esplorare la realtà, o sta diventando una droga emotiva, capace di alimentare la nostra insaziabile curiosità morbosa? La linea di confine è sottile e in un mondo in cui l’orrore diventa intrattenimento, stiamo assistendo a una desensibilizzazione collettiva. Il crimine diventa un episodio da divorare, svuotato della sua portata umana e morale.
Il blocco della serie su Avetrana potrebbe apparire come un tentativo di arginare questa deriva. Tuttavia, la reazione delle case di produzione, che parlano di censura e di lesione della libertà d’espressione, apre una discussione su quanto sia lecito interferire con il diritto di raccontare. Chi difende la serie sottolinea come il crimine sia parte della realtà e come narrare fatti di cronaca aiuti lo spettatore a sviluppare un senso critico. Eppure, in una cultura dove il crimine è diventato un prodotto, rischiamo di smarrire la nostra capacità di provare empatia verso la sofferenza reale.