Lei non si sente rivoluzionaria ma tenace, e aspira ad incarnare il modello delle tre donne che canta, che a loro modo lo sono state. Lavinia Mancusi, cantante e polistrumentista che lavora con artisti del calibro di Mannarino e Francesco Guccini, nel suo libro ¡Revolucionaria! che presenta oggi al Teatro Nuovo di Pisa e con un concerto omaggio domani nella stessa location, racconta Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas, tre interpreti straordinarie, tre donne rivoluzionarie che, con il loro canto, hanno riscritto i confini del Sud America.
La romana, classe ‘84, raccoglie la loro eredità e torna a dar voce a queste icone della musica popolare, che pur partendo dalle lotte nei loro Paesi, sono riuscite ad abbracciare il mondo, intonando i temi universali dell’amore e della lotta, della libertà e del desiderio, della giustizia negata e del cambiamento necessario.
Come nasce ¡Revolucionaria!
“Ci sono molteplici nascite, anche col tempo ripensandoci non ce n’è solo una, proprio come accade agli esseri umani, che nascono e muoiono un sacco di volte nella loro vita. La prima è stata perché sono stata scelta per interpretare, nel 2018, Chavela Vargas nello spettacolo di Gigi di Luca con Pamela Villoresi che interpretava Frida Kahlo; quella cosa ha raccolto una passione che già avevo e lì è esplosa. La seconda nascita è stata una crisi: durante il covid, impossibilitata a suonare, mi sono accorta che in realtà non mi mancava tanto l’azione in sé quanto cantare per qualcuno che ascoltava. Da lì è scattato il caos dentro di me: ‘cosa sto facendo?’’, Oddio’, ‘Perché lo faccio?’. Una crisi importante che però ha generato un fiore: mi ha spinto a concentrarmi sul rapporto, quello sano con persone con cui condividevo ideali, un percorso. Cercavo storie che parlassero di questo, mi sono aggrappata allo studio di storie che mi riportassero a una dimensione collettiva che durante la pandemia ovviamente era andata sgretolandosi.
Là dentro ho scoperto poi questa terza nascita: il fatto che le storie di lotta sono collegate, è come se ognuna piantasse un albero per non vederlo fiorire un giorno ma sapendo che qualcun’altra lo vedrà fiorire e ne raccoglierà i frutti”.
Come mai ha scelto queste tre figure, Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas?
“Perché sono unite non solo da un punto di vista di continente ma anche di percorso, ci sono proprio coincidenze nelle loro vite che ne fanno quasi un corpo unico che è il corpo della rivoluzione sudamericana, del femminismo sudamericano, della ricerca etnografica musicologica sudamericana. Da lì si è generata questa ricerca, che parte da Violeta Parra, regina madre di questo movimento che vediamo ancora oggi nelle lotte femministe”.
Vite e lotte che si intrecciano: si parla quindi di femminismo intersezionale?
“Esatto, è quello che abbiamo sotto gli occhi ma viene da lontano. Le tre figure hanno questa bellissima abitudine a mischiarsi, a voler ascoltare l’altro, a mescolare altro e basso, a concentrarsi su quelle realtà che non hanno un megafono. Sono tutte e tre legate da un attivismo anche per le popolazioni indigene dei rispettivi Paesi, che poi in realtà sono lotte che si allargano a un concetto più ampio. In particolare Parra e Sosa sono state anche generatrici di movimenti culturali importantissimi (la Nueva cançion cilena e il Nuovo cançionero) che hanno dato il là a fenomeni mondiali. La War Music nasce da Violeta Parra, che sola con il figlio di 9 anni, si fa il Cile a piedi, andando a registrare ben prima dei nostri etnomusicologi. Lo chiama il viaggio infinito, perché è tutt’altro che finito”.
La musica non è un sottofondo ma protagonista delle loro vite e lotte, e anche del suo libro?
“A un certo punto il libro è stato costruito così: mi sono trovata a un bivio particolare, perché a raccontare in terza persona mi sembrava di fare la lezioncina e inoltre, siccome la quasi totalità del loro repertorio è in spagnolo (se non quando è in lingua quechua o appartenente alle minoranze linguistiche del territorio), sono testi così belli, sono piccole poesie, mi sono chiesta ‘come faccio a raccontare questo testo se non usando le stesse parole’? E così ho fatto, loro si raccontano attraverso i testi che hanno deciso di cantare. Questo mi ha permesso anche di fare un ragionamento su quello che è il canto folk, la figura della cantora o del cantor popolare che pur non scrivendo i brani che segue, perché questi appartengono a una memoria collettiva, nonostante tutto nella scelta di andare un determinato brano, quel cantor o quella cantora sta parlando anche di sé. Se l’autore è sconosciuto allora è di tutti”.
Lei si sente una rivoluzionaria?
“Io mi sento impicciatissima - ride -. È un’aspirazione, sicuramente sarebbe stupendo poter entrare dentro una cabina telefonica e uscirne con una tutina pazzesca, una lettera davanti, e sapere che hai il potere veramente di cambiare il destino del mondo. In realtà ti rispondo con le parole di una cantora popolare che ho intervistato ed è il mio idolo, Lucilla Galeazzi, che quando le ho chiesto cosa volesse dire oggi essere rivoluzionaria mi ha dato una risposta spiazzante. Io pensavo mi rispondesse ‘tocca spaccà tutto’, invece lei mi ha detto: ‘Oggi essere rivoluzionarie significa continuare, non perdere la bussola, mantenere la barra dritta quando c’è la tempesta. Apparteniamo a generazioni diverse ma queste sue parole mi hanno aiutato a capire che ognuna di loro stava facendo quello che mi ha detto lei, cioè continuare. Non lo so se sono rivoluzionaria, sono sicuramente tenace”.