La sua voce è calma mentre sceglie con cura le parole da usare per descrivere quello che definisce “suo figlio”, ovvero il primo lungometraggio nella carriera di Samantha Casella. Ad appena quarantuno anni, la regista faentina ha già ricevuto centinaia di riconoscimenti nei festival di cinema di tutto il mondo, tra cui i premi come miglior regia femminile al Cinemagic Film Festival, al Vegas Movie Awards e al Accolade Global Film Competition.
Luce!-, tanto da ottenere oltre 230 premi in 36 paesi differenti”. Pare dunque fisiologica la scelta di passare di livello e misurarsi con qualcosa di più complicato -ma anche di completo- come un vero e proprio film. “Mi sentivo pronta. Purtroppo però il tutto si è svolto nel periodo più difficile possibile, ossia mentre ci trovavamo in piena pandemia da Covid-19. Girare “Santa Guerra” è stata una vera avventura, ho dovuto ridurre al minimo il personale tecnico, per cui mi sono occupata da sola delle scenografie, della fotografia, della regia, ero sempre io anche dietro la telecamera. Essendo in piena zona rossa, le attrici andavano dalla truccatrice solo una volta, prima delle riprese, poi sul set dovevano aggiustarsi il trucco da sole. Lo hanno fatto tutte, senza mai lamentarsi, persino Maria Grazia Cucinotta, che è una professionista abituata ad avere un seguito di decine di persone. Ogni volta, durante le riprese eravamo solo in due: io e l’attrice, e se nella scena fosse servita un’ombra di passaggio, allora sarebbe stata la mia per forza, perché non c’era nessun altro”. Eppure, nonostante le difficoltà, Santa guerra” - che verrà proiettato al pubblico per la prima volta giovedì 3 novembre alle 21,30, nello Spazio Alfieri Cinema di Firenze - è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia in una cornice di rilievo come quella dello spazio Ente Fondazione dello Spettacolo, ed ha già ricevuto il Premio Cinema Italiano e il Premio Tangoo per il Cinema. Formatasi alla Scuola di Cinema Immagina di Firenze, diretta da Giuseppe Ferlito, Samantha Casella viene definita dai critici cinematografici “Un’autrice di notevole spessore artistico, il cui cinema viene concepito come arte totale”. Santa Guerra non è però un film per tutti, nel senso commerciale del termine, è la stessa regista a sottolinearlo. In bilico tra l’onirico e il surreale, ambientato in un non luogo e su tre diverse dimensioni (forse i differenti piani di una stessa coscienza) nel quale si trovano a vagare le protagoniste interpretate da Eugenia Costantini (figlia di Laura Morante) ed Emma Quartullo (figlia di Elena Sofia Ricci) ed Ekaterina Buscemi, con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Cucinotta. Un film tutto al femminile, dunque. Perché questa scelta? “In generale, mi interessa molto esplorare l’universo femminile. Ma nel caso di Santa Guerra è stata una scelta tecnica e pratica: volevo sottolineare il fatto che tutte le donne sono la stessa donna. All’inizio del film, una prima protagonista senza nome si sveglia in una stanza completamente bianca, abbagliata da una luce accecante. Potrebbe trattarsi di un obitorio, un ospedale psichiatrico o altro. Poi, lei diventa tante altre donne, sdoppiando se stessa in dimensioni differenti e venendo persino interpretata da attrici diverse. Eppure, in un certo modo, lei resta sempre se stessa. Questa mia predisposizione a voler sviscerare l’universo femminile è stata appoggiata da una necessità della trama. Volevo che il mio primo film fosse come uno scrigno, capace di racchiudere tutte le cose che avevo fatto prima, lungo il mio percorso professionale e umano. Il tema alla base del film è la femminilità, indubbiamente, ma una femminilità vissuta attraverso un grande trauma, insuperabile, che schiaccia la protagonista e la spinge verso un viaggio nel subconscio.”
Crede che le donne abbiano più difficoltà a superare certi traumi? “Io penso che quando il trauma diventa un problema di coscienza, noi donne siamo più propense a trasformarlo in un tarlo che continua a macinare, forse sarà per la sensibilità più riflessiva che possediamo, per il fatto che il nostro modo di sentire e ragionare è più contorto di quello di un uomo. Nel film la protagonista ha perso qualcosa di importante, ha subito un lutto. Anche se in realtà nei 78 minuti di pellicola niente viene esplicitato, soprattutto non vengono date risposte certe, si intuisce che si tratta di un lutto legato alla figlia. Dunque la mia protagonista è una madre, ma come sua figlia sia venuta a mancare non è dato sapere. Allo spettatore vengono presentati solo indizi che possono far pensare ad un aborto, ad una mancanza di cure verso la bambina, forse addirittura all’uccisione della figlia. Non mi interessava fornire risposte, perché, alla fine, il problema che ho voluto affrontare riguarda la coscienza di questa donna, non l’atto in sé, ma l’elaborazione del fatto da parte della sua coscienza. Alla fine, forse, neanche lei ricorda più cosa sia realmente successo. Ecco perché, come dicevo prima, la scelta di una protagonista femminile è stata una necessità. Nel mio percorso professionale ho voluto quasi sempre di raccontare storie di donne, e anche in questo caso, dato che il trauma parte da uno stato di coscienza, le donne sono più adatte ad essere personaggi ideali”. Le sue protagoniste sono due attrici figlie d’arte. Un caso o una scelta premeditata? “Un caso, assolutamente. Mi sono trovata a girare con due figlie d’arte senza saperlo, scelte esclusivamente in base all’espressività del loro volto, attraverso alcune semplici foto di agenzia. L’incontro con Eugenia Costantini -figlia di Laura Morante- è stato surreale: l’ho conosciuta, le ho presentato la sceneggiatura, lei mi ha detto 'Non ci ho capito nulla, ma mi sono piaciuti i tuoi lavori precedenti, verrò a Faenza a girare'. Eugenia è così perfetta per il suo ruolo che nessuno, neanche a livello internazionale, avrebbe potuto sostituirla, neppure la mia attrice preferita in assoluto che è Nicole Kidman. Eugenia è così perfetta per me che, dopo l’inizio delle riprese, ad un certo punto le ho detto che avevo cambiato tutta la sceneggiatura in corso d’opera, e che anche il suo ruolo nel contesto della narrazione sarebbe cambiato. Allora lei mi ha risposto 'Va bene, mi fido di te'. Ho avuto questa fortuna incredibile: la fiducia incondizionata da parte delle attrici. Inizialmente la mia sceneggiatura prevedeva che fosse Ekaterina Busceni la protagonista. Poi, in corso d’opera, ho deciso che sarebbe stata la Costantini. Quando l’ho comunicato ad Ekaterina, lei mi ha detto semplicemente 'Non importa se non sono più protagonista, l’importante è che il film venga bene'. Ecco, di solito non succedono cose come questa. Ho avuto la fortuna incredibile di avere tutte persone complici intorno a me, a partire da chi ha rivestito piccoli ruoli fino alla protagonista. L’altra figlia d’arte scelta esclusivamente per il volto che possiede è la figlia di Elena Sofia Ricci, Emma Quartullo, una donna bellissima”.
E Maria Grazia Cucinotta? “Ha accettato di girare a titolo gratuito, a volte mi chiedo come sia stato possibile. Le ho proposto un ruolo tanto diverso dal suo solito che forse deve aver pensato mi fossi confusa. Incarna una figura mitologica, completamente coperta dalla testa ai piedi. Eppure ha accettato subito, 'Sì, vengo', mi disse quando glielo chiesi, anche perché le avevo fatto vedere il girato e lei non poteva credere che avesse fatto tutto una persona sola”.
Avrà fatto tutto da sola, ma deve averlo fatto molto bene perché Santa Guerra ha già ottenuto alcuni premi... “Esatto. Siamo andati al Festival di Venezia come evento speciale e ci siamo aggiudicati due premi: uno al Festival del Cinema Italiano e poi il Premio Tangoo per il Cinema, ossia un premio speciale che consiste in un’opera d’arte dal valore stratosferico. A livello internazionale abbiamo ottenuto il premio per il miglior film e la miglior attrice al First Women Film Festival iraniano, e siamo stati giudicati 'miglior film sulle donne', con tanto di menzione d’onore come film sperimentale, al Knight Off the Reel Awards, in India. Tutti i giorni riceviamo richieste di iscrizioni a festival di tutto il mondo, già in cinquanta ci hanno invitato. Sicuramente non riusciremo a presenziarli tutti, ma sicuramente andremo in Francia e negli Stati Uniti”.
Ci racconta qualche curiosità avvenuta durante le riprese? “A parte, come dicevo, il fatto che ho dovuto girare in piena zona rossa, potrei raccontarvi che ad un certo punto ho fatto richiesta di un pavimento a lisca di pesce, come quello che si vede in Twin Peaks, per intendersi. Mio padre ha messo a disposizione un vecchio garage sgombero e la produzione (ossia The Shadow Factory) me lo hanno realizzato. Dopo di che ho predisposto tutte le luci per conto mio e con l’attrice siamo andati a girarlo. Il periodo era assurdo perché fortemente rischioso: sarebbe bastato un solo positivo per fermate tutto. Se non avessi avuto la fiducia della produzione e delle attrici non sarei riuscita a completa l’opera. So di essere all’inizio, ma queste persone mi hanno dato la forza di fare un film difficile, non narrativo, sicuramente non destinato al grande pubblico. Lo considero mio figlio, anche se gli spettatori non devono aspettarsi di trovarci dentro niente di autobiografico. Quando io scrivo, non racconto mai un vissuto fisico, piuttosto legato alla psicologia, al lato interiore. Sicuramente però alla base della narrazione c’è un fatto, un’esperienza che abbiamo faticato a superare, che si tratti di un lutto o di un fallimento di qualsiasi tipo. Ecco perché la mia speranza è che, pur essendo un film difficile, la percezione da parte di ognuno sia quella di identificarsi”.
“I miei ultimi due cortometraggi sono stati molto apprezzati -ammette nel corso dell’intervista a