
Il concetto di woke, che per molti rappresentava la presa di coscienza sulle ingiustizie sociali, è oggi a rischio
In questo 8 marzo, tra le questioni cruciali su cui riflettere ci sono il potere del linguaggio e il ruolo che le parole giocano nel plasmare e rafforzare stereotipi di genere. Nell'ultimo periodo, il dibattito si è pericolosamente avvitato attorno a un’idea controversa: il concetto di woke, che per molti rappresentava la presa di coscienza sulle ingiustizie sociali, sembra oggi essere a rischio, addirittura, secondo alcuni, “morto”. Ma se il movimento che lo ha ispirato sta vacillando, come possiamo, invece, salvare il linguaggio?
Il potere del linguaggio
Partiamo da un presupposto: il linguaggio non è semplicemente un mezzo per trasmettere informazioni. Piuttosto, è un riflesso profondo della nostra cultura, capace di influenzare il modo in cui percepiamo il mondo e i ruoli che ciascuno di noi è chiamato a interpretare.
Nei nostri discorsi quotidiani, nelle pubblicità e persino nelle comunicazioni istituzionali, le parole scelgono, consapevolmente o meno, di conferire un’immagine predefinita del femminile e del maschile. Per esempio, l’uso reiterato del maschile come genere “neutro” tende a invisibilizzare la presenza femminile, rafforzando implicitamente un modello sociale in cui l’uomo è la norma e la donna l’eccezione.
Le parole, quindi, diventano il terreno su cui si costruiscono e si perpetuano tali ruoli. Il woke ha rappresentato una svolta sul fronte delle discriminazioni – sessiste, razziali e non solo. Tuttavia, il concetto ha subito un processo di sovraesposizione e, in alcuni ambienti, è stato usato in modo dispregiativo, fino a essere accusato di essere estremo e, dunque, non utile alla causa.
Un dibattito, questo, che ci costringe a interrogarci sul significato stesso del woke: se, da un lato, l’attivismo viene criticato per la sua presunta rigidità, dall’altro, non possiamo ignorare la necessità di una presa di coscienza che sappia smantellare i vecchi stereotipi.
“Il woke è morto”
A rafforzare questa deriva è stata la strumentalizzazione politica del termine, fino a renderlo un bersaglio privilegiato di chi vuole contrastare ogni forma di progresso sociale. "Ho messo fine alla tirannia del politicamente corretto. Il nostro Paese non sarà più woke". Così ha esordito Donald Trump nel suo primo discorso al Congresso Usa dopo la rielezione, ribadendo uno dei leitmotiv della sua campagna di comunicazione: la battaglia contro la cultura woke. Un attacco che va ben oltre le parole e che si traduce in un vero e proprio tentativo di ridefinire il linguaggio per restringere diritti e identità.
Il rischio, quindi, non è tanto quello di cadere in un’iper-sensibilità che limiti la libertà di espressione, quanto piuttosto di permettere che l’uso superficiale e banale di certi termini alimenti una cultura dell’offesa e dell’indifferenza, anziché quella di una vera e propria trasformazione. Basta osservare alcune campagne pubblicitarie per notare come il sessismo si insinui anche nei dettagli più minuti. Immagini che rappresentano la donna esclusivamente come oggetto del desiderio o come figura relegata a ruoli di cura e supporto, sono esempi lampanti di come il linguaggio visivo e verbale possa rinforzare stereotipi antiquati.
Anche nelle comunicazioni istituzionali si riscontra una tendenza a utilizzare il maschile come default, relegando il femminile a una posizione marginale. Tutte scelte che non nascono da un intento discriminatorio esplicito, ma da una cultura che ha normalizzato certe espressioni, rendendole quasi invisibili al nostro sguardo critico.
Il paradosso dei social
A dimostrazione di come il linguaggio possa essere utilizzato per escludere, basti pensare alla recente decisione di Meta di oscurare gli hashtag legati alla comunità LGBTQ+. Espressioni come #lesbian, #gay, #bisexualpride o #transwomen, secondo la rivista User Mag, sono state bloccate per mesi su Instagram in nome di una politica sui contenuti sensibili.
Il problema è che tali parole non hanno nulla di “sessualmente allusivo”, come sostenuto dalla piattaforma: si tratta semplicemente di termini che identificano l’identità e l’orientamento di una persona.
Il paradosso è evidente: mentre le ideologie più estreme e discriminatorie trovano sempre più spazio, l’uso di parole che promuovono visibilità e riconoscimento viene ostacolato da scelte arbitrarie e paradossali.
Non è questione di censura
Il momento per riflettere su come il nostro modo di comunicare possa essere strumento di cambiamento è adesso. Salvare il linguaggio significa ripensare le nostre parole, adottando un lessico che non solo rifletta la realtà, ma che contribuisca attivamente a trasformarla. Questo percorso non comporta l’imposizione di regole rigide o una censura asfissiante, bensì un invito a una maggiore consapevolezza e a una riflessione critica.
In ambito educativo, mediatico e istituzionale occorre promuovere l’uso di termini che esaltino la diversità e che possano rappresentare in modo autentico le molteplici identità che compongono la nostra società.
La crisi del woke intesa non come un fallimento dell’attivismo, ma come un invito a rinnovare il nostro impegno, ci sprona a riflettere su come le nostre scelte linguistiche possano essere la chiave per una società più equa e inclusiva. Salvare il linguaggio è un atto di responsabilità collettiva: un impegno che parte dalle parole quotidiane e si estende a ogni ambito della vita pubblica, dalla pubblicità alle istituzioni. Perché, in fin dei conti, ogni parola conta e, usata con consapevolezza, può diventare lo strumento di una trasformazione profonda e duratura.