“Di autismo si parla tanto, ma vorrei che queste discussioni fossero canalizzate verso un gesto concreto che è il sostegno economico alla ricerca scientifica, perché altrimenti finita la giornata ci si dimentica di queste persone”. Deputato, papà di Sara, una 21enne con disturbo dello spettro autistico, Davide Faraone è anche presidente della Fondazione italiana autismo che, in occasione della Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, e in collaborazione con Rai, ha aperto un numero solidale (il 45585) attivo dal 1° al 14 aprile per raccogliere fondi – attraverso sms – che serviranno a realizzare tanti progetti messi in campo dalle associazioni che compongono la Fia stessa.
L’impegno in tema di autismo non si ferma alla singola giornata
“No esatto, perché c’è il giorno per giorno, di cui si occupano le associazioni, i centri specializzati e le famiglie”.
Com’è nata la Fondazione italiana autismo?
“Come idea nel 2015, quando ero sottosegretario all’Istruzione, quindi era molto legata alla ricerca scientifica ma anche alle attività di inclusione scolastica. C’era una parcellizzazione degli interventi: tante organizzazioni e associazioni che portavano avanti il lavoro con buona volontà ma poi tutto si disperdeva. Si sono voluti unire tutti questi soggetti in un’unica fondazione, e nel CdA oggi c’è la Presidenza del Consiglio, per darle un carattere più generale possibile, mentre all’inizio c’era il ministero dell’Istruzione. Sostanzialmente oggi è la ’madre’ di tutte le associazioni d’Italia che si occupano di autismo”.
Come opera?
“Ci occupiamo prevalentemente di finanziare progetti di ricerca scientifica, che può sembrare una cosa lontana, ma in realtà è quotidianità: sosteniamo la ricerca dei metodi che consentano ai nostri figli di acquisire autonomie, dal legarsi le scarpe da soli al riuscire a mangiare autonomamente, le attività di logopedia e psicomotricità e tanto altro. La selezione dei progetti, che finora hanno ricevuto circa un milione e 600mila euro, è affidata a un comitato scientifico composto dalle migliori personalità in ambito nazionale a internazionale sui temi dell’autismo”.
E dove non riuscite ad arrivare?
“Campagne come questa del numero solidale servono a raccogliere fondi indispensabili ma ci sono ambiti in cui è necessario l’intervento dello Stato: per l’abbattimento delle liste d’attesa nei centri dove si svolgono i progetti, per favorire l’inclusione lavorativa e lo sviluppo della legge sul ‘dopo di noi’, per fare qualche esempio. Devo dire che, al di là della forma, di ipocrisia, di attenzioni e tutto il resto noi viviamo ancora oggi una situazione difficile soprattutto per chi ha pochi soldi. Spesso ci si deve rivolgere al privato che ti consente di fare terapia Aba, Teach e quelle che sono le più utili, che non stanno dentro i Lea e quindi le famiglie se li devono pagare”.
Come si è sviluppata la collaborazione con Rai?
“Noi Rai la dobbiamo ringraziare con tutto il cuore perché la Fondazione, se esiste, è grazie a Rai. Il primo anno in cui è stata costituita, il 2015, ci hanno da subito affidato il numero sociale nei giorni vicino al 2 aprile e spazi in qualche trasmissione televisiva che sono stati per noi la startup indispensabile per finanziarci”.
Da dove arrivano i fondi?
“Dalle campagne come questa, dal 5x1000 o da soggetti privati che decidono di sostenere la Fondazione”.
Lei è presidente della Fia, ma è anche genitore di una ragazza con autismo.
“Io sono in primis il papà di Sara, una ragazza con autismo di 21 anni, e in quanto genitore presidente della Fia. Non potrebbe essere altrimenti”.
Che cosa ha comportato la diagnosi per sua figlia e per la sue famiglia?
“La diagnosi è arrivata 19 anni fa, quando Sara aveva 2 anni e tre mesi, quindi è stata anche precoce. Poteva esserlo ancora di più ma allora c’era una situazione devastante di mancanza di conoscenza sull’autismo: i bambini nello spettro non venivano indirizzati a specialisti ma imbottiti di farmaci e questo è accaduto anche a mia figlia. Il problema è che anche se la diagnosi arriva presto poi ti affidano a centri che hanno liste di attesa di 6 mesi, un anno, due anni, lontani dal luogo di residenza… Quindi tutto quello che hai recuperato lo perdi”.
Oggi cosa fa?
“O sta a casa o affidata a una terapista o in centri che si occupano, insieme ad altre persone, di autismo e disabilità di tipo psichica. Qui si cerca il più possibile di dare sempre più strumenti di autonomia e di tenerli impegnati con varie attività. Quindi sono luoghi in cui si fa un grandissimo lavoro ma che poi si corre il rischio che escludano queste persone dalla società”.
Sara, che lei sappia, ha mai subito discriminazione?
“Il dramma vero è che noi genitori non lo sappiamo, nel 99% dei casi. Se io ho percepito discriminazioni erano legate magari alla risata o al risolino che senti quando vai al ristorante o al cinema e la vedi saltellare, urlare, comportarsi in maniera diversa dall’ordinario e vedi la gente che ti guarda o con sdegno o ridendo. A questa siamo assuefatti. Fatti specifici come il bullismo ad esempio io non ne ho mai avuta percezione, ma il mio è un caso. E chissà quanti sono quelli che accadono senza che se ne sappia nulla”.
Cosa augura a Sara per il futuro?
“A mia figlia e ai suoi coetanei auguro un’inclusione lavorativa che è negata nella stragrande maggioranza dei casi. Molte aziende preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere e vedere se, nelle loro soggettive specificità, ci sono qualità che possono essere investite in un lavoro. Dopo che si finisce il ciclo di studi si diventa anonimi, la scuola finisce di essere quel luogo ovattato dove tutto sommato la società si accorge che questi ragazzi esistono. Poi diventano soltanto pacchi da affidare ai genitori.
L’altro augurio è legato al dopo di noi, che deve essere un ‘durante noi’. L’impostazione spesso è quella che dopo c’è l’ospedale, la struttura quasi manicomiale dove infilare queste persone dopo che i genitori sono morti. In realtà vorrei che il dopo di noi fosse il più possibile percepito dai ragazzi con disabilità come un luogo dove trovare una felicità vicina a quella che provavano quando erano in famiglia.
Ma tutto questo, l’autonomia e l’accompagnamento al futuro, lo costruisci quando i genitori sono in vita. E anche in questo siamo parecchio indietro”.