I riconoscimenti dei figli delle coppie gay e le famiglie arcobaleno sono al centro del dibattito. A spiegare come stanno le cose, almeno da un punto di vista antropologico, è una fonte autorevole: la Siac, ovvero la Società italiana di antropologia culturale. Gli studiosi, infatti, si sono sentiti chiamati in causa dalla Ministra delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, quando la stessa, in merito al riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali, ha affermato, ospite a "Mezz’ora in più" su Raitre, che il “problema è il modello antropologico e giuridico della filiazione”. A tal proposito due esponenti della società italiana di antropologia culturale, la professoressa Simonetta Grilli e il professor Berardino Palumbo, hanno accettato di fare due chiacchiere con Luce!. Come mai avete sentito l’esigenza di intervenire? Grilli: “La Siac ha deciso di intervenire sulla questione dei diritti negati ai figli delle famiglie omogenitoriali per varie ragioni. In primo luogo, il nostro sapere è stato direttamente chiamato in causa, almeno a livello lessicale, dalle parole della ministra Roccella. Non è certo la prima volta che nella scena mediatica, quando si parla di ‘famiglia’, ‘matrimonio’, ‘procreazione’, ‘filiazione’, sessualità, identità di genere e corpo, soprattutto femminile, sentiamo evocare ‘l’antropologia’. Inoltre, in questo, come in altri casi, l’evocazione di una dimensione ‘antropologica’ da parte di politici e media fa riferimento a un piano 'naturale' che fungerebbe da ancoramento universale e immutabile a determinati comportamenti e schemi culturali umani. Da antropologi riteniamo questo modo di intendere la dimensione ‘antropologica’ dei fatti sociali umani errato e, soprattutto, ideologicamente viziato”.
Come antropologi che prospettiva di conoscenza potete offrire alla politica e alla società civile su questo argomento? Palumbo: “Le numerose ricerche empiriche dedicate, anche in Italia, alle ‘nuove’ forme di famiglia (di fatto, adottive, monogenitoriali, ricomposte), incluse quelle omogenitoriali e alle tecnologie riproduttive, hanno certamente contribuito ad avvicinare la complessità dei processi e dei legami sociali, culturali e affettivi implicati nel fare famiglia, di certo non riducibili alle prese di posizione ideologica che dominano il dibattito pubblico. Oltre a riflettere sui molteplici condizionamenti (religiosi, politici giuridici) sulla vita familiare e relazionale, è emerso come la cifra distintiva delle famiglie attuali sia la dimensione del desiderio, della scelta personale radicata nell’affetto e nell’assunzione di responsabilità e di cura”. In qualità di antropologi avete conosciuto qualche famiglia omogenitoriale? “Da diversi anni, ormai, l’omogenitorialità è, anche in Italia, una declinazione del familiare oggetto di interesse degli antropologi. Alcuni di noi hanno avuto modo di osservare da vicino il vissuto di queste famiglie, di seguirle nel quotidiano, e di apprezzare l’impegno con cui cercano di legittimare la propria condizione di padri e madri. La conoscenza che abbiamo acquisito tramite vicinanza ad esperienze diretta prova che da parte della società civile vi è un riconoscimento avanzato e consolidato antitetico alla negazione ideologica che proviene dalla politica conservatrice”.
Secondo il vostro osservatorio dov’ è l’inghippo? Da cosa ci si deve liberare per portare avanti un discorso sulla famiglia nella nostra società? Grilli: “In una prospettiva antropologica, ragionare in termini empirici e comparativi su istituzioni come la ‘famiglia’, il ‘matrimonio’, la ‘parentela’, la ‘riproduzione’ ha sempre significato ragionare su alcuni dei fondamenti di qualsiasi organizzazione sociale umana. Proprio per la loro centralità per ogni organizzazione sociale, le molteplici forme di reciproca compartecipazione tra esseri viventi sono costruzioni simboliche dalla forte portata emotiva e affettiva. Quello che lei definisce l’inghippo sta nel nesso società/natura/potere, questo sì specifico della tradizione Occidentale, nel quale le istituzioni di cui parliamo sono 'intrappolate'. In quanto costruzioni storico-politiche, dalle forti valenze simbolico-affettive, esse sono adoperate per naturalizzare altre forme di aggregazione collettiva. I nazionalismi europei associano nazione, riproduzione, sangue, famiglia, attraverso il controllo e la manipolazione simbolica del corpo femminile: corpo riproduttivo di figli legittimi per la famiglia e per la patria; corpo violabile, che riproduce il nemico all’interno del corpo della nazione; corpo migrante, che produce figli razzializati, non cittadini; o infine corpo-incubatore a pagamento, come brutalmente sentenzia l’espressione utero in affitto. ‘Fratelli d’Italia’ e ‘Figli della patria’, ammoniscono invece i nostri inni nazionali, quelli che chiamano i cittadini a versare il proprio sangue per la Madrepatria. Simili processi si fondano sull’attribuire carattere naturale a modi di pensare, di dire e di agire la cui variabilità storica, insieme alla specifica connotazione ideologica, non può non rivelare uno sguardo antropologico e comparativo”.
Si sa che il modello di famiglia cambia in base alla società e la cultura: noi occidentali una strada l’abbiamo già presa o no? Palumbo: “Non si tratta solo di riconoscere, relativisticamente e a partire da una grande quantità di studi etnografici e storiografici svolti, in società altre come anche in società occidentali, l’estrema variabilità e diversità dei modi attraverso i quali le società hanno istituzionalizzato e regolato ai meccanismi riproduttivi, alle forme di organizzazione della sfera domestica, ai rapporti di discendenza e parentela, così come agli scambi matrimoniali. All’estrema variabilità, e alle forme per noi esotiche fatte emergere dagli antropologi, si è opposta spesso l’idea che noi, però, l’Occidente, non solo abbiamo preso una strada diversa, ma che questa strada abbia seguito, per così dire, le linee guida della natura, producendo categorie e ruoli che ricalcano esattamente quelli definiti dai vincoli riproduttivi biologici e naturali. Gli altri, insomma, sarebbero presi da logiche simboliche e classificatorie, mentre i nostri termini e le nostre istituzioni si limiterebbero a descrivere legami, percorsi e processi naturali. In realtà le ricerche di antropologi e storici hanno mostrato il carattere storico e culturalmente costruito di ogni mappatura/modello dei processi sociali a fondamento di istituti come la famiglia, la consanguineità e la parentela. L’idea occidentale di famiglia (l’unione monogamica di un uomo e una donna, che risiedono insieme, riproducendo figli legittimi e trasmettendo, per via ereditaria o dotale, un determinato patrimonio) è certamente una costruzione storica (fortemente legata alla tradizione cristiana e ai suoi interpreti) che ha un inizio (tra XII e XIV secolo) e avrà probabilmente una fine, della quale già da tempo intravediamo le linee di rottura”. Spesso si sente parlare di legame di filiazione legato al legame biologico e a quello di sangue: che differenza c’è? Grilli: “A lungo, nella nostra tradizione culturale, il sangue ha rappresentato il simbolo di relazione per eccellenza indicante la natura e la forza dei vincoli parentali. Oggi la concezione della condivisione del sangue è stata sostituita, se non addirittura soppiantata, dalla condivisione biogenetica rappresentata come sostanza comune. Anche se ciò che intendono i biologi molecolari quando parlano di condivisione biogenetica è qualcosa di molto diverso da ciò che è, o sembra essere, implicato nella nozione popolare di consanguineità (condividere geni significa condividere un’informazione), la cosa certa è che le nostre concezioni circa il modo in cui siamo connessi sono tributarie delle conoscenze scientifiche”.
E quanto impatta la conoscenza scientifica sul nostro quotidiano? Palumbo: “Senza dubbio le conoscenze scientifiche hanno prodotto un nuovo quadro di percezione e di rappresentazione della realtà, in cui la natura non costituisce più un dominio separato, né un paradigma cui riferire la rappresentazione delle relazioni sociali e del modo in cui la società è immaginata. Le tecniche mediche (la genetica, le tecnologie della riproduzione assistita) hanno modificato in profondità il quadro di riferimento entro cui è pensata la relazione fra natura e cultura. Hanno contribuito a delineare un diverso modo di intendere il corpo, il genere, la sessualità, e di concettualizzare la procreazione che inevitabilmente si è riverberata sui legami di parentela e sulla stessa concezione di persona umana. Non possiamo non vedere come la scienza consenta di accertare la vera natura della relazione parentale e al contempo anche di intervenire su di essa, scomponendo le sostanze (gameti) dai corpi e ricomponendole secondo inattese configurazioni. Inseminazioni artificiali, fecondazioni in vitro, gestazioni per altri, hanno imposto di ripensare le nostre idee di relazione e di consustanzialità, anche se in fondo proprio le tecniche hanno finito per riportare al centro della scena la centralità del corpo, soprattutto femminile”. Quindi, i figli sono di chi li partorisce o di chi li cresce? Grilli: “Da una prospettiva antropologica appare chiaro che il vincolo di filiazione deriva dal riconoscimento legale e sociale del/della bambino/a appartenente a un determinato gruppo sociale, quali che siano i genitori biologici. Basti pensare all’adozione, ma anche ai bambini/e nate/e con il ricorso alla donazione di gameti, figli di genitori etero come omosessuali. In questi, come in altri casi, sia il padre che la madre sono coloro che desiderano esserlo, non solo garantendo al figlio una collocazione e uno status legittimi ma anche impegnandosi a crescerlo in una relazione, quella di genitorialità, divenuta via via sempre più rarefatta, ma caricata di un forte, forse eccessivo, senso di responsabilità”.