La legge Basaglia 46 anni fa chiudeva i manicomi. Cosa resta di quella rivoluzione? "Si è tornati a imbottire di medicine”

La legge entra in vigore il 13 maggio 1978, ma l’ultimo manicomio verrà chiuso qualche anno dopo. Franco Basaglia, di cui si celebrano i cento anni dalla nascita, voleva una cura della salute mentale basata sul rispetto della dignità umana. Era una voce fuori dal coro e continua ancora ad esserlo

di RICCARDO JANNELLO
13 maggio 2024
46 anni fa la Legge Basaglia chiudeva i manicomi (foto di repertorio)

46 anni fa la Legge Basaglia chiudeva i manicomi (foto di repertorio)

Cento anni fa, l’11 maggio 1924, nasceva a Venezia Franco Basaglia; 46 anni fa, il 13 maggio 1978, vedeva la luce quella che per tutti è la “legge Basaglia” (poi pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 16 maggio), in realtà la legge 13 maggio 1978, n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” - questo il titolo esatto – che nei suoi articoli decideva in pratica la chiusura dei manicomi – cosa poi avvenuta effettivamente qualche anno dopo – e faceva nascere la psichiatria territoriale o di comunità, dove la degenza mutava in un sistema nel quale i malati vivevano non più costretti nei ricoveri, ponendo termini stretti per la attuazione dei trattamenti, ma in mezzo alla gente, in famiglia e nelle comunità terapeutiche.

BASAGLIA
BASAGLIA

Franco Basaglia aveva disegnato questa legge – in realtà scritta dallo psichiatra e politico dc Bruno Orsini e firmata dal presidente della Repubblica Giovanni Leone, dal primo ministro Giulio Andreotti, dal Guardasigilli Francesco Paolo Bonifacio e dalla ministra della Sanità Tina Aselmi – sulle sue esperienze prima a Gorizia poi a Trieste dove aveva testato la sua psichiatria fenomenalogica che contrastava decisamente con quella tradizionale.

Cosa resta della rivoluzione Basaglia

Basaglia – la cui influenza è considerata fra le maggiori del Ventesimo secolo e che ha avuto un seguito elevatissimo all’estero, soprattutto nei paesi del Nord Europa - non ha potuto godere del successo ottenuto a quel tempo: due anni dopo, il 29 agosto 1980, questo innovatore nel campo della salute mentale moriva colpito da un veloce e drammatico tumore al cervello. Però la sua lezione aveva aperto un percorso che sarebbe stato sicuramente rivoluzionario e primo nel mondo. Ma, come spesso accade per le menti che guardano oltre, nel corso degli anni la legge 180 non ha avuto quella completa attuazione che doveva avere e i reparti di degenza ospedaliera di psichiatria – che hanno sostituito quelli che chiamavamo manicomi – continuano a essere per molti l’unico approdo: la malattia continua a essere considerata tale a tutti gli effetti e al paziente non viene concesso che la sua permanenza nella società possa redimerlo.

Marco Rovelli, intervista Rai
Marco Rovelli, intervista Rai

Molto critico sulla situazione attuale è Marco Rovelli, docente di filosofia, scrittore e musicista molto attivo sui temi sociali e che sull’argomento ha scritto il saggio “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui” (Minimun Fax, 2023).

“Basaglia – spiega Rovelli - intendeva la psichiatria come relazione con un soggetto dotato di diritti e di una sua soggettività, prendendosene cura con una rete di relazioni comunitarie sul territorio. Lui era in minoranza già allora e più che mai adesso: la psichiatria odierna ha passato sottotraccia la sua lezione e ha imposto una controrivoluzione, si è rinchiusa nel proprio fortino biomedico e ha dimenticato gli aspetti relazionali e territoriali”.

Rovelli sostiene che il problema non è “la sofferenza della mente ma l’emergenza di un sistema di relazioni”, eppure invece di curare questo si è deciso “di tornare a ricoverare negli ospedali e a dare farmaci”. Le esperienze che resistono e che avrebbero dovuto essere implementate, come quella di Trieste, sono “sotto attacco politico – denuncia il saggista – perché si vuole smantellare quel sistema che va avanti grazie alla buona volontà di qualcuno”. Meno farmaci, dunque, più contatti sociali, anche se la formazione dei nuovi psichiatri sarebbe indirizzata verso il primo metodo.

46 anni fa la legge che chiudeva i manicomi
46 anni fa la legge che chiudeva i manicomi

Di occasione mancata parla anche la presidente della Associazione per la Rifoma dell’Assistenza Psichiatrica Arap-Odv, Maria Antonietta Buonagurio. “La situazione – dice - sta addirittura peggiorando, le risorse sono insufficienti, mancano gli operatori e la presa in carico non avviene per la maggior parte delle persone. Ci sono anche buone pratiche nate con la legge Basaglia, tutta la normativa successiva e il piano di salute mentale nazionale, ma i bisogni della popolazione aumentano soprattutto per quanto riguarda i minori e gli adolescenti. Spesso i servizi sono accorpati, magari i Centri di salute mentale rimanessero aperti 24 ore al giorno, ma non è così, manca il personale e faticano a stare aperti anche dalle 8 alle 20. Qualcosa funziona nelle grandi città ma l’Italia è piena di paesini dove al massimo c’è un solo ambulatorio e l’operatore deve spostarsi continuamente”.

Seondo la presidente dell’Arap, sorta nel 1981 per aiutare le famiglie di persone alle prese con la salute mentale, “si pensa solo a dare medicine, mentre la parte riabilitativa lascia molto a desiderare. Non ci sono le risorse per la formazione degli operatori che è molto importante per la presa in carico della tutela prevista nel piano per la salute nazionale che si deve basare su prevenzione, cura, riabilitazione ed inserimento sociale e che andrebbe rispettato. Invece le famiglie sono lasciate sole un po’ come accadeva nel 1981 quando i servizi territoriali erano lontani da venire”.

L’Associazione offre un centro di ascolto 24 ore al giorno, una psicoterapeuta fornisce risposte e “dà informazioni su dove rivolgersi per la salute mentale che rimane uno stigma, mentre dobbiamo ridare dignità alla persona. Sappiamo – dice la Buonagurio – che in alcune strutture viene di nuovo praticato l’elettrochoc: viene consigliato quando i farmaci hanno controindicazioni per i pazienti. Ma facendo così la reintroduzione sociale del paziente rimane una chimera”.