Mattia Bidoli porta felicità dove c’è guerra: “Il sorriso dei bambini risuona tra le bombe”

Prestigiatore col nome d’arte Flip, fotografo e operatore umanitario, passa gran parte dell’anno in zone devastate dai conflitti, come l’Ucraina. Per la Giornata mondiale della felicità è ospite di Happiness on tour a Milano, perché “Davide può davvero battere Golia”

di MARIANNA GRAZI -
20 marzo 2024

“Il sorriso dei bambini fa meno rumore delle bombe. Ma senza quel sorriso che senso ha la loro vita?”.

È tornato solo per qualche giorno dall’Ucraina per partecipare il 20 marzo a “Happiness on Tour”, il più grande evento motivazionale gratuito sulla felicità organizzato da Fondazione della felicità di Walter Rolfo. Prestigiatore, fotografo, operatore umanitario: Mattia Bidoli, nome d’arte Flip, quel sorriso prova a strapparlo anche a coloro che nella vita non hanno visto che l’orrore delle armi, della guerra, della morte.

Mattia Bidoli, in arte Flip
Mattia Bidoli, in arte Flip

Una missione per il friulano, che dall’Ucraina a Gaza, dal Libano all’Afghanistan, dove c’è bisogno prova a essere un esempio positivo, portando “ancora un po’ di luce, di speranza e di magia”. Lo abbiamo raggiunto al telefono qualche giorni fa, per farci raccontare quale sia la sua speciale idea di felicità e cosa fa a trasmetterla anche dove c’è solo il buio della violenza e dell’orrore intorno.

Perché le sue parole possono rappresentare una luce potente di speranza in occasione della Giornata internazionale della felicità (che cade oggi, 20 marzo,, equinozio di primavera).

Cosa fa, in concreto, Mattia quando indossa i panni di Flip, del prestigiatore?

“Attraverso la magia, ma anche al modo in cui mi pongo, cerco di rendere migliore la vita degli altri. Mi viene in mente quando eravamo a Cherson, questa città sul fiume Dnepr dove da una parte ci sono gli ucraini e dall’altra i russi. Io non faccio solo il mago in queste zone qua, dovevamo portare aiuti umanitari in ospedale, eravamo nel seminterrato perché fuori stavano bombardando, e ho detto al primario che visto che dovevamo stare lì potevo fare qualcosa per i bambini, dei giochi. Quando sei di fronte a tanto orrore, a tanta sofferenza e morte, ti chiedi veramente se quello che stai facendo ha un peso su questa bilancia, perché un bambino che ride fa molto meno rumore di una bomba che cade. Alla fine mi ricordo una cosa che ha detto il medico e che mi aveva colpito molto: ‘Grazie perché senza la tua magia la mia medicina è inutile. Perché se non portiamo la magia, la gioia, la speranza nel loro mondo che senso ha far battere il cuore a queste persone?’”.

Come descriverebbe la popolazione ucraina?

“Una cosa che mi piace molto del popolo ucraino – e che a noi manca – è questo spirito di appartenenza, questa solidarietà, questa riconoscenza che hanno. Una mattina siamo entrati in un posto e prima ancora di chiederci cosa facessimo lì ci hanno dato subito da mangiare perché hanno pensato che dovessimo essere per forza andati ad aiutare. Voglio usare una parola che da noi è abusata, resilienza: lì ho visto le signorine anziane preparare le reti mimetiche cucite a mano, le persone comuni preparare le molotov e mi ha fatto capire che veramente se ci uniamo tutti quanti assieme Davide può davvero fare la differenza contro Golia.

Quando c’era il Covid dovevo partire per la Siria ma sono rimasto bloccato a Roma e mi dicevo: finalmente ci possiamo rendere conto che siamo davvero sulla stessa barca, che possiamo davvero fare questa esperienza essendo tutti quanti allo stesso livello. E invece ci picchiavamo per il lievito…”.

Bidoli con un bimbo ucraino
Bidoli con un bimbo ucraino

Perché ha deciso di lavorare con i bambini?

“Intanto per prendermi cura del bambino interiore che tutti noi abbiamo. La mia motivazione, quando ho iniziato era quella. Adesso che vado nelle zone di conflitto ti direi perché non riesco a immaginare nessuno più impotente e in pericolo di un bambino. Loro non c’entrano assolutamente niente. Io faccio anche il fotografo e quelli che vedo non mi sembrano nemmeno bambini: perché hanno 8 anni e indossano un giubbotto antiproiettile e giocano coi kalashnikov finti? Non stanno ‘giocando’ alla guerra, la vivono. Sai si dice che i bambini sono come il cemento, tutto quello che li tocca lascia un’impronta.

Sempre a Cherson, una mattina vedo andare in giro per la città bimbi con tute militari grandi, da adulto, e mi hanno chiesto di che livello fosse il mio giubbotto antiproiettile: sapevano già cose molto tecniche che una persona della loro età non dovrebbe sapere. Mi hanno anche chiesto se avevo una patch da dare loro e invece gliel’ho fatta apparire tramite gioco di magia. In tutto questo caos c’è bisogno di essere un esempio positivo, di dare ancora un po’ di luce. Altrimenti non ne vale la pena”.

Qual è il senso di “Happiness on tour”, il titolo dell’evento per la Giornata internazionale della felicità?

“L’obiettivo è davvero portare in giro la gioia. Ho un sacco di esempi di cosa significhi. Mi ricordo in Siria un papà che, dopo che avevo fatto giochi di magia per le figlie, mi dice: ‘Grazie perché le medicine arrivano sempre ma le mie bambine era da 4 anni che non le sentivo ridere’. Oppure Mohamed, un ragazzino che ho conosciuto in un carcere in Libano: lui siriano, finito in galera perché aveva rubato il cibo per la famiglia, essendo l’unico sopravvissuto maschio, si è interessato ai giochi di magia e io sono riuscito a farlo entrare in un programma dell’Unhcr per imparare l’inglese. L’insegnante un giorno l’ha chiamato a fare uno spettacolo di magia in uno sheraton vicino al campo profughi e il proprietario è rimasto colpito così tanto da lui che adesso il giovane fa il mago di professione.

Questo per dire che veramente si può avere un impatto positivo sulla vita delle persone. E c’è una cosa in cui credo profondamente: l’Happiness on tour ci può essere anche quando vado dal macellaio e sono semplicemente gentile con gli altri”.

C’è un episodio che le è rimasto particolarmente impresso legato alla sua attività?

“C’è una ragazzina di 16 anni, il suo villaggio è in una regione bruttissima tra Izjum e il Donbass. Sono stati sotto occupazione per 8 mesi, suo padre era nell’esercito nel 2014, quando sono arrivati i russi hanno raso al suolo tutto. Quando l’ho incontrata, ad aprile 2023, aveva questi occhi che sembravano quelli di una donna di 40 anni con una vita alle spalle tremenda, non di una ragazzina. Abbiamo fatto amicizia, io faccio 6 o 7 missioni all’anno in Ucraina e quando vai tante volte negli stessi posti hai la possibilità di conoscere e farti conoscere dalle persone, e queste si aprono con te.

Insomma la fotografo ogni volta nello stesso luogo e vedo il suo sguardo cambiare. Una cosa che mi ha detto un giorno mi ha colpito molto: quando ci siamo conosciuti lei era in profonda depressione e voleva entrare nell’esercito; mi ha detto che il fatto che io abbia portato nella sua vita qualcosa di opposto all’odio l’ha fatta ‘guarire’ , perché ha visto che c’era un altro modo di reagire all’orrore nel mondo”.

Mattia Bidoli durante un gioco di magia
Mattia Bidoli durante un gioco di magia

Quando riparte? E per dove?

“Il giorno dopo l’evento a Milano (domani, ndr). Devo andare in Turchia per il terremoto terribile dello scorso anno. Da lì volerò in Polonia per rientrare in Ucraina, starò là fino al 6 maggio e l’8 parto per Gaza, da cui conto di tornare intorno a fine mese. Alla fine non importa tanto la differenza tra guerre, perché si parla di vite devastate e distrutte per sempre. Queste persone qua non avranno mai una vita normale”.

Per lei dov’è la magia?

“Adesso ti rispondo in un modo, tra un mese in un altro. È quello che ti dicevo prima, quando vedi la felicità, la gioia in un posto orrendo; quando vai in luogo e con i giochi di magia riesci a far dimenticare alle persone che sono lì quello che succede intorno. A ottobre ho fatto uno spettacolo per i soldati nel Donbass e una combact doctor ha detto una cosa sulla mia magia: ‘Nell’ultima ora, dopo tanti anni, non mi sono sentita in guerra’. Ed era vero, per me quella era magia perché in quel momento nemmeno io stavo pensando alla guerra”.

Nelle sue foto le protagoniste assolute sono le persone, non i luoghi o i fatti. Perché?

“Ho studiato per fare il fotografo di guerra ma ho preferito, come dico sempre, fare il fotografo ‘d’amore’. Non mi è mai interessato fare foto ai soldati che sparano. Le cose che mi interessano sono le persone e penso che quando una persona lascia che tu le faccia una foto vuol dire che davvero ti sta regalando una parte della sua storia.

Ho lavorato tanto coi migranti; ho visto coi miei occhi che ti possono rubare tutto, ma nessuno può rubarti la tua storia, sei tu che decidi a chi e se donarla. 

Una macchina fotografica piccolina, poi, mi piace darla alle persone: ho insegnato fotografia alle donne afghane per 3 anni, perché volevo che fossero loro a raccontare la loro storia, non ne potevo più di appropriarmene io. Nella fotografia sei abituato a prendere, nella magia a dare, quindi ho cercato di mescolare i mondi insieme”.

C’è un luogo a cui è più affezionato o in cui vorrebbe tornare?

“In cui vorrei tornare no, perché significherebbe che serve ancora il nostro aiuto. Ci sono posti in cui vorrei tornare da turista, per me sarebbe bellissimo andare in Ucraina in visita. Adesso come adesso ti direi questo Paese, perché sono emotivamente coinvolto: lì con la mia ong diamo lavoro alla gente del luogo e quindi per me è come una famiglia. Il mio posto del cuore adesso è l’Ucraina, per le persone che ci sono”.

Ha detto che i suoi nipoti sono ‘cartine di tornasole’ del suo lavoro: cosa pensano dello zio?

“Il grande ha 17 anni e lui sa cosa faccio, ha parlato di me nel tema che ti fanno fare a scuola per raccontare il tuo eroe. In generale cerco di dare meno informazioni possibili perché per loro non voglio essere né il mago né quello che fa missioni, ma solo lo zio. Sanno che porto gli aiuti, che vado a far ridere i bambini, ma non parlo loro della morte, del fatto che hanno provato a rapirmi due volte, che ci hanno sparato contro, dei campi minati… è giusto che queste cose non le sappiano, secondo me, sennò quando vai via l’unica cosa che possono pensare è quella”.