
“Sono una specie in mutazione, con il cambiamento epocale scritto nel nome” – Marino Niola, antropologo, parlando dei millennial
Avete presente quando una canzone che avete ascoltato mille volte, all’improvviso, vi dice qualcosa di nuovo? Ero in macchina intorno a mezzanotte e ascoltavo “Di che cosa parla veramente una canzone?” dei Tre allegri ragazzi morti, quando attacca la seconda strofa: “C’è un’aria strana quando vado al bar / sembra un raduno di supereroi / supereroi andati in pensione / pieni di ricordi a vent’anni”. Nella mia testa ho scambiato “vent’anni” con “trent’anni” e – per dirla come Baricco – FRAN: è venuto giù il quadro. Eccola qua, ho pensato, la mia generazione descritta perfettamente.
Il giorno successivo, su Wikipedia, ho scoperto che i due scrittori che hanno coniato il termine “Millennial”, William Strauss e Neil Howe, credevano che questa generazione (i nati tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta) somigliasse molto alla Greatest Generation, cioè quella che crebbe durante il disastro della Grande Depressione e che poi fu arruolata nella Seconda Guerra Mondiale. E di nuovo, FRAN.
Ora mi spiego.
Ma prima una brevissima premessa. Le etichette generazionali hanno dei limiti, sono arbitrarie e tendono ad uniformare esperienze individuali profondamente diverse. Tuttavia, il concetto di “generazioni” acquista valore quando si osserva l’impatto di eventi storici collettivamente vissuti. Quando un gruppo di persone attraversa simultaneamente esperienze formative – come guerre, rivoluzioni tecnologiche o crisi economiche – si creano impronte psicologiche che plasmano valori, aspettative e comportamenti. Questi “momenti spartiacque” generano memorie collettive e un senso di appartenenza che trascende anche le differenze sociali. Fine della premessa.
Sono nato nel 1992. L’Unione Sovietica si era da poco dissolta, l’Occidente capitalista aveva vinto e nel decennio successivo si sarebbe respirata un’aria di quieto ottimismo – quello da Fine della Storia di Fukuyama – che quasi tutti i genitori della nostra generazione hanno comprensibilmente tradotto nel presentare ai loro figli un orizzonte di infinite possibilità all’interno di quella che sembrava una società tutto sommato stabile.

Poi è arrivato il nuovo millennio. Da quel momento – momento in cui peraltro una persona nata all’inizio degli anni Novanta inizia a prendere consapevolezza dell’esistenza di un mondo “politico” – la cronaca ci ha regalato: l’attentato alle Torri Gemelle, il G8 di Genova, la nascita dell’Euro, le guerre in Medio Oriente, la crisi economica del 2008, la Grande Recessione, l’austerità, le Primavere Arabe, l’invasione russa della Crimea, la guerra in Siria, l’ascesa dell’ISIS, la stagione del terrorismo, la Brexit, la pandemia di Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra tra Israele e Palestina, Donald Trump (e altre cose che ho tralasciato).
Più in generale, abbiamo assistito: al riaccendersi dello scontro tra civiltà, al risorgere delle istanze religiose, al ritorno del nazionalismo, all’ascesa della Cina come nuova potenza globale, alla crisi delle democrazie e dell’ordine internazionale liberale, a un eccezionale aumento delle migrazioni, al sorgere dei populismi, al maggiore processo di interconnessione che l’umanità abbia mai visto, alla comparsa dell’intelligenza artificiale, all’impennata della disuguaglianze sociali ed economiche, al più rapido aumento mai visto del riscaldamento globale e degli eventi climatici estremi. Di tutte le esperienze collettive possibili, ci manca forse solo la guerra mondiale.
Avete presente il meme qua sotto? Ecco.

Beninteso, vi sono altre generazioni che in passato hanno assistito a un rapido susseguirsi di eventi epocali nell’arco di pochi anni. Ma non pochi studiosi sono concordi nell’affermare che la velocità ipertrofica con cui il mondo ha accelerato negli ultimi due decenni non ha precedenti. E forse anche il nostro spirito, rispetto a quello dei nostri genitori, è in qualche modo differente. I giovani degli anni Settanta, ad esempio, nel pieno degli Anni di Piombo e della Guerra Fredda avevano – a sentire storici e cronache dell’epoca – una visione ottimista del futuro. Magari anche loro poi hanno incontrato il disincanto, ma non lo hanno fatto a trent’anni. Ecco, provate domandare a noi del futuro.
Dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta la nostra generazione ha conosciuto molti privilegi, certo, ma sempre in un orizzonte precario. Che fosse temporale, viste le improvvise mutazioni delle condizioni sociali e contrattuali, o geografico, vista la necessità di spostarci (e spiantarci) per trovare un lavoro vagamente in linea con le aspettative che ci sono state inculcate fin da bambini (non per niente siamo araldi di nomadismo, coworking, freelancing e fuga di cervelli). Aspettative che secondo i nostri genitori hanno sempre e comunque a che fare con l’infallibile posto fisso. E poi ci si domanda perché, con queste premesse, viviamo in un eterno presente: dove altro ci possiamo rifugiare? Nel sopracitato passato? Nel futuro? La domanda che fanno ai colloqui di lavoro – “Dove ti vedi tra 10 anni?” – è per molti di noi una sorta di mostro esistenziale. Ma il punto non è neanche questo.
Il punto è che siamo stanchi.
Abbiamo perso quella spinta propulsiva che ci si aspetterebbe da una classe di trentenni: stiamo ripiegando nel privato della famiglia, degli interessi o dei piaceri (se mai abbiamo fatto diversamente). Non siamo coinvolti dalla politica, non manifestiamo, registriamo il più alto tasso di astensionismo al voto rispetto a ogni altra classe d’età: metà di noi non si presenta ai seggi. E c’è qualcosa di osceno in una generazione che invecchia prima del tempo, in questi spiriti già rassegnati quando invece dovrebbero ardere. Non solo: ci sentiamo anche in colpa a lamentarci di questa condizione, dato che siamo consapevolissimi che al mondo ve ne sono di gran lunga peggiori. Ed è per questo che di fronte all’ennesimo evento epocale ci ridiamo su. Memiamo sulle rovine del disastro.

Un disastro collettivo, ma vissuto intimamente. Il 35 per cento dei millennial prova ansia e stress la maggior parte del tempo (dati Deloitte), uno su dieci ha sperimentato sintomi depressione maggiore (National Institute of Mental Health). L’interconnessione costante ha prodotto – scrive l’economista Noreena Hertz riportando decine di dati – un peggioramento preoccupante della salute fisica e mentale. Siamo la generazione che più di ogni altra fa ricorso alla psicoterapia (e infatti siamo descritti anche come Therapy Generation), ma questo non è un male, anzi: almeno abbiamo normalizzato la ricerca della cura.
E la questione non è solo interiore, ma economica e politica. Siamo i primi ad avere meno risorse dei nostri genitori, sia in termini di reddito che di capitale. Il nostro ingresso nel mercato del lavoro è coinciso con la narrazione sulla “scarsità”; e la scarsità crea competizione, urgenza di essere performanti. Politicamente, siamo pochi e quindi irrilevanti: il Sessantotto è potuto esistere anche perché all’epoca i giovani rappresentavano una percentuale significativa della popolazione, mentre oggi per molti interlocutori politici non siamo che rumore di fondo e titoli di giornale.

Ci hanno detto che eravamo speciali, che bastava volerlo. Invece ci siamo trovati inchiodati a una realtà dove l’individuo è sovrano ma impotente, dove ogni legame è fragile, ogni certezza mobile, ogni futuro negoziabile. “I millennial sentono di poter perdere tutto in qualsiasi momento. E, sempre di più, questo gli può capitare davvero”, ha detto l’anno scorso Jacob Hacker, politologo di Yale e autore di The Great Risk Shift. Siamo una generazione che ha interiorizzato l’apocalisse come una notifica, la fine del mondo come una possibilità tra le altre, che convive con la catastrofe come con la pioggia: inevitabile, fastidiosa, ma in fondo quotidiana.
E la tragedia è che di fronte a questa condizione esistenziale, non s’intravede alcuna risposta comune. Per usare malamente termini marxisti, siamo una classe in sé (abbiamo problemi e interessi condivisi) ma non una classe per sé (non ne abbiamo preso consapevolezza attivandoci collettivamente in tal senso). Siamo figli di un neocapitalismo maturo che ci ha insegnato a temere più la precarietà individuale che l’ingiustizia collettiva. Abbiamo smarrito la grammatica della lotta. Non siamo combattenti, cerchiamo per lo più una vita tranquilla, quasi crepuscolare. L’unico augurio è che in questo ripiegamento ci sia un resistenza passiva, inconsapevole.
La nostra generazione non farà la rivoluzione – questo è certo. Non abbiamo né la forza né la fede necessaria. Ma in questi nostri affaticati trent’anni, c’è forse la più autentica testimonianza contro questo tempo e questa società. Questa stanchezza che ci pervade forse non è solo debolezza: è anche rifiuto. E in questo nostro inverno di disincanto senza ribellione, speriamo di essere almeno buoni testimoni. Magari per quei ventenni che, consapevoli almeno di dover affrontare insieme la crisi climatica, ardono ancora.
