“Non esiste una somma di denaro che possa giustificare l’aver venduto la tua anima di bambino al mondo”. Essere filmata in ogni momento, quelli felici, ma soprattutto quelli di vulnerabilità. Perché è normale che i drammi, i problemi, attraggano più pubblico. Non avere diritto alla propria privacy, perché troppo piccola per esercitare una qualche forma di autodeterminazione. Pensare magari che quei soldi, che quelle vacanze, siano meritati, che le telecamere costantemente pronte a cogliere ogni attimo della tua vita siano una sorta di benedizione, di privilegio.
La madre influencer condannata per abusi
Shari Franke è figlia di Ruby, nota influencer e vlogger che dal 2015 ha aperto il canale YouTube “8 Passengers”, prima di essere arrestata lo scorso anno e condannata per aver abusato dei suoi figli di 12 anni e 10 anni. Milioni di spettatori ogni giorno sul canale non vedevano quanto i bambini fossero malnutriti, costantemente umiliati, costretti a sottostare ai capricci della madre. Ora la ha raccontato cosa ha significato per lei crescere in un ambiente in cui ogni momento della sua vita veniva filmato. Parole potenti e drammatiche, per invitare i legislatori dello Utah a mettere un freno alla pratica dello sharenting, ovvero alla condivisione da parte dei genitori delle immagini di minori sui social e sul web a fini economici.
La denuncia della vittima di family vlogging
“Oggi non parlo come vittima di un criminale né come vittima di una madre estremamente abusiva. Sono qui oggi in quanto vittima di family vlogging”, ha detto la giovane chiamata a testimoniare al Senato dello Stato, che come altri negli Usa sta regolamentando la materia. “Il mio obiettivo è portare alla luce le questioni etiche ed economiche che derivano dall’essere una bambina influencer”.
Shari spiega infatti che non si tratta solo di riprendere la vita in famiglia per pubblicarla online, ma di un “lavoro a tempo pieno, con dipendenti carte di credito aziendali, manager e strategie di marketing. La differenza tra il family vlogging e una normale attività è che tutti i dipendenti sono bambini”. Lei stessa, in un passaggio successivo del suo lungo sfogo, spiega di essere stata consapevole già da piccola di essere stata una dipendente: “Il business andava bene quando ero felice o condividevo le mie difficoltà con il mondo. Alcuni dei nostri video più popolari sono di quando mi è stato accidentalmente strappato un sopracciglio con la cera e il mondo ha visto un’adolescente che voleva solo piangere in privato – racconta –. O quando ero molto malata e sono diventata protagonista di un nuovo video del giorno”. Il prezzo da pagare allora? L’isolamento dagli amici, che invece non volevano essere ripresi.
Un business milionario basato sullo sfruttamento
Perché per fortuna non tutti vivono fin dalla nascita davanti a una telecamera pronta a riprenderli, non tutti i minori prima ancora di nascere fino al giorno in cui compiono 18 anni diventano “le star di business familiari su YouTube, Instagram e molte altre piattaforme social”. Ma quando accade a rimetterci sono sempre e solo i bambini.
Infatti “NON c’è mai, mai una buona ragione per pubblicare online i tuoi figli per soldi o fama – afferma con forza Franke –. Non esiste un vlogger familiare morale o etico. Per la mia famiglia è diventato la principale fonte di reddito come spesso accade per chi lo fa a tempo pieno”.
Shari spiega poi che tante (inconsapevoli) baby star sono pagate per il loro lavoro, e “anche io lo ero e il denaro mi ha aiutato nella vita adulta – precisa –. Tuttavia quel pagamento era solitamente una sorta di ‘ricompensa’. Ad esempio ci venivano dati 100$ o una sessione di shopping se filmavano in momento particolarmente imbarazzante o un evento emozionante delle nostre vite. Altre volte, semplicemente, andare in vacanza era considerato un pagamento sufficiente. Poco importa che fosse proprio il lavoro del bambino a pagare quella vacanza”.
“Qual è prezzo giusto per rinunciare all’infanzia?”
Peccato che nello Stato dello Utah o altrove non esista alcuna legge che garantisca agli influencer bambini di ricevere denaro per il loro lavoro. Perché si tratterebbe a tutti gli effetti di lavoro minorile. E poi come si fa stabilire quanto dovrebbe guadagnare per apparire nei contenuti familiari? “Qual è il prezzo giusto per rinunciare alla propria infanzia?” si chiede Shari Franke. “Se potessi tornare indietro preferirei avere un conto in banca vuoto piuttosto che avere la mia infanzia condivisa ovunque su internet. Nessuna somma di denaro ricevuta ha reso l’esperienza che ho vissuto degna di essere vissuta”.
Quale somma potrebbe mai giustificare gli anni trascorsi a fare da comparsa, nel migliore dei casi da protagonista, nei video di famiglia dati in pasto al mondo intero a scapito di una festa con gli amici, di un’ora di sport o di musica, di una corsa al parco o di una semplice merenda in casa ma in modalità offline? Provate a farvi questa domanda la prossima volta che scrollando i social vi capiteranno le immagini di bimbi sparati in primo piano mentre magari si rovesciano addosso il piatto o disegnano coi pennarelli sul muro… “A prescindere da qualsiasi pagamento monetario che i bambini potrebbero ricevere, non lasciate che questo giustifichi il lavoro 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a cui questi sono sottoposti”, dice ancora la ragazza ai senatori.
Le conseguenze dello sharenting
“La videocamera non si spegne mai e non esiste una pausa dalle riprese”, continua la giovane americana. Ma in fondo, sono sicura che sotto sotto molti di voi lo stiano pensando: quale bambino direbbe no a una vacanza o alla cospicua paghetta, o ancora a poter comprare tutto quello che vuole nei negozi, in cambio di essere ripreso in un momento imbarazzante? E magari senza nemmeno capire cosa sta accadendo davvero.
“Come bambini noi non capiamo le conseguenze di filmare le nostre vite e pubblicarle per il mondo intero – afferma Shari –. Non possiamo dare il consenso ai nostri genitori di pubblicare le nostre vite. Non mi rendevo conto dell’impatto che il filmare me da bambina avrebbe avuto sulla me di oggi. Il mio profilo sui social media è stato invaso da voci di relazioni sessuali con mio fratello, sono stata chiamata ‘macchina per fare figli’ all’età di 13 anni. Queste cose sono rimaste con me e vivrò… Vivrò per sempre tra i 13 e i 17 anni nella mente di molti utenti”.
Proteggere i minori dovrebbe essere la priorità
Quindi mette in guardia anche sui rischi della pedofilia, di cui però gli adulti, i loro stessi genitori, fanno finta di non accorgersi, dediti esclusivamente a monetizzare: “Vi assicuro che i genitori sono coscienti di questi predatori e scelgono comunque di postare i loro figli”.
E sebbene il problema non sia facilmente risolvibile, non esistano soluzioni immediate per limitare il fenomeno della condivisione online dei minori da parte dei loro familiari, “quando si tratta di proteggere i bambini dovrebbe essere una questione bipartisan".
Anche se potrebbe non sembrare un problema ora, “man mano che gli influencer bambini dello Utah cresceranno prevedo che ci saranno crisi legali con questi, che realizzeranno che il vlogging ha causato loro gravi disagi emotivi o di non avere una somma adeguata di denaro per il loro lavoro. Del resto come fa un bambino a sapere quanto avrebbe dovuto guadagnare rispetto a ciò che potrebbe o non potrebbe aver ricevuto dai suoi genitori? Affrontiamo questo problema ora, prima che diventi una crisi più grande di quanto già sia”, conclude Shari.
Ascoltare la sua voce, il suo racconto, il suo dolore, le violenze – perché di quello si tratta quando si mercifica la vita di una persona – subite da bambina ‘dipendente’ e poi da adolescente, deve spingerci a chiedere che effetto possa avere anche un semplice like o un cuore a un contenuto con al centro un minore. Per noi un gesto quasi spontaneo, a cui non facciamo nemmeno caso. Peccato che anche quella piccola e apparentemente innocente azione contribuisca ad alimentare un business fatto sulla pelle di bambini e bambine. La scelta sta anche a noi, non solo a chi fa le leggi.