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Il consigliere regionale dell'Emilia-Romagna di Fratelli d’Italia Priamo Bocchi
“L’uomo si è de-virilizzato, è troppo dipendente, nella relazione, dalla donna e laddove la donna lo respinge o lo allontana, va in tilt”. Questa è la giustificazione che il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Priamo Bocchi ha dato alla violenza di genere durante il Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna dedicato all’adesione alla campagna Safe Place for Women, che mira a rendere le città della regione luoghi sicuri per le donne che le attraversano.
“Questa mozione non fa altro che creare e alimentare quel solco di odio, diffidenza, sospetto e conflitto che riguarda oggi l’uomo e la donna”, afferma Bocchi davanti al consiglio. “Io credo che questo non serva e che se oggi andassimo ad analizzare il movente o dessimo una spiegazione sociologica, antropologica a tanti episodi di violenza, dentro e fuori le mura domestiche, questa sarebbe riconducibile al fatto che l’uomo ha perso virilità”, conclude il consigliere. E poi si scaglia contro il termine 'femminicidio': "Perché non fare una legge sugli ‘anzianicidi’? La legge deve avere un principio di universalità, che va salvaguardato”.
Per giustificare le sue parole e aumentare la loro autorevolezza, Priamo Bocchi cita la sociologia e l’antropologia, dichiarando che le sue affermazioni sono condivise “da molti sociologi”. Ma cosa dicono davvero queste discipline a riguardo?
La sociologia e la violenza di genere
La sociologia, che indaga i fenomeni sociali nelle loro cause e manifestazioni, si è occupata di questioni di genere a partire dagli anni ‘70, grazie all’apporto alla disciplina di prospettive intersezionali, che sono state in grado di ampliare lo sguardo sociale della disciplina a diverse categorie marginalizzate, compresa quella delle donne. Come spiega la sociologa Mariella Nocenzi nel saggio La violenza di genere in una prospettiva sociologica, la sociologia contribuisce da quel momento a inquadrare il tema, anche da un punto di vista legislativo.
È a questa disciplina che dobbiamo la definizione, ad esempio, di gender based violence, ovvero di ‘violenza basata sul genere’, che comprende “le dinamiche plurali di violenza agita” sulle identità di genere e sessuali diverse da quella di uomo eterosessuale. “In questo modo, la prospettiva sociologica ha potuto descrivere e interpretare cause ed effetti, specificità e anche relazioni della violenza di genere con altri fenomeni, integrandosi con le altre discipline – dalla storia al diritto, dall’antropologia all’economia e, perfino, alla medicina – per rappresentare un processo sociale che è di per sé caleidoscopico”, spiega Nocenzi nel saggio.
La sociologa aggiunge anche che il lavoro della disciplina è stato fondamentale non solo nell’indagare e definite fenomeni legati alla violenza di genere, ma anche nel farli emergere e renderli parte del discorso pubblico. Questione di fondamentale importanza per dinamiche spesso invisibili perché invisibili sono anche le vittime, “private delle loro voci da sistemi sociali e da relazioni subordinanti”, afferma il saggio.
La “de-virilizzazione” come causa della violenza
Per entrare nel merito di quanto detto da Bocchi, occorre dire che è vero che diversi studi sociologici, come quelli di Michael Kimmel o di Pierre Bourdieu, individuano nella perdita di virilità (o nella percezione di questa perdita) un fattore scatenante della violenza di genere, soprattutto nel contesto familiare e domestico. La crisi della mascolinità tradizionale (parte del sistema patriarcale che per Bocchi "non esiste), dovuta a cambiamenti economici, sociali e culturali, può generare frustrazione in alcuni uomini, spingendoli a riaffermare il proprio dominio attraverso comportamenti aggressivi. Michael Kimmel parla di aggrieved entitlement, ossia il senso di ingiustizia provato da chi vede minata la propria posizione di potere, mentre Pierre Bourdieu sottolinea che la virilità è una costruzione sociale che richiede continuo riconoscimento.
Tuttavia, è sempre la sociologia ad affermare che la soluzione a questa dinamica non può essere la “ri-virilizzazione”, cioè il ripristino di un modello di mascolinità dominante, bensì un cambiamento culturale basato sull'educazione e sulla sensibilizzazione.
Promuovere modelli di mascolinità alternativi, basati sull'uguaglianza e sul rispetto, permette di superare l'associazione tra identità maschile e potere coercitivo. L'educazione affettiva ed emotiva, insieme a politiche di prevenzione della violenza, può ridurre la necessità di riaffermare la virilità attraverso la sopraffazione.
Solo decostruendo gli stereotipi di genere e promuovendo relazioni paritarie si può interrompere il ciclo della violenza, trasformando la mascolinità in un concetto non più legato al dominio, ma alla cooperazione e alla responsabilità sociale. Per citare nuovamente Kimmel, in Healing from Hate: How Young Men Get Into—and Out of—Violent Extremism il sociologo dimostra anche che percorsi educativi e di consapevolezza possono offrire modelli identitari alternativi e non violenti. Ma anche la femminsta bell hooks ne La volontà di cambiare, argomenta che gli uomini possono liberarsi dalla violenza patriarcale solo attraverso una rieducazione emotiva che li aiuti a sviluppare empatia e connessioni sane con gli altri.
L’antropologia e la definizione di “femminicidio”
Insomma, la sociologia non è certo l’ambito di studi giusto da chiamare in causa quando si vuole negare la necessità di iniziative di contrasto alla violenza di genere. Ma nemmeno l’antropologia – sempre usata da Bocchi a giustificazione delle sue esternazioni – è da meno: il consigliere regionale emiliano-romagnolo ha contestato, nel suo intervento, l’uso del termine 'femminicidio' per una presunta lesione al principio giuridico di universalità. Eppure, la definizione di femminicidio è dovuta proprio a una sociologa, Diana Russel, e a un’antropologa, María Marcela Lagarde y de los Ríos.
Russel conia il termine ‘femicidio’ (femicide) negli anni ‘70, definendolo come l’uccisione di una donna in quanto donna, sottolineando la matrice misogina di questi crimini. Russell interpreta il femicidio come l'estremo atto di violenza di genere, radicato nel patriarcato e nella subordinazione femminile, ma lo concepisce principalmente come un fenomeno individuale, legato alla volontà dell'aggressore. Marcela Lagarde, invece, amplia il concetto e introduce il termine “femminicidio” (feminicidio), mettendo in evidenza non solo l’atto dell’uccisione, ma anche il ruolo delle istituzioni e della società nella sua perpetuazione. Secondo Lagarde, il femminicidio non è solo il prodotto della violenza maschile, ma il risultato di un sistema che permette, giustifica o ignora questi crimini attraverso l’impunità e la mancanza di tutela per le vittime.