A differenza della maggior parte dei colleghi imprenditori, la giovane Virginia Sciré di Castelfranco Veneto, 43 anni, nella sua azienda assume principalmente donne, giovani, possibilmente mamme. A nessuna viene chiesto di rinunciare alla propria vita familiare, né soprattutto alla propria maternità, pur di poter lavorare. Anzi essere mamme rappresenta un valore aggiunto per tutti, sia per le dipendenti che per la datrice di lavoro. “Wear me”, questo il nome dell’azienda di Virginia che produce fasce e abbigliamento destinati alle madri che scelgono di “indossare” i propri neonati, utilizza orari flessivi, smart working e alle quattro del pomeriggio chiude – in anticipo di due ore rispetto alla norma –, come fanno le aziende in Germania, “E le mie dipendenti sono responsabili, affidabili e non mancano mai una scadenza”. Virginia Scirè è la risposta vivente alle recenti affermazioni di Elisabetta Franchi che, al contrario, 'scansa' le donne papabili di maternità come la peste. Nel corso dell’intervista a Luce!, seppur nel rispetto della grande professionalità della collega imprenditrice, condanna le sue affermazioni, ma sottolinea allo stesso tempo l’importante denuncia sociale che grazie al “Caso Franchi” sta finalmente balzando agli occhi dell’opinione pubblica: l’assenza efficace di sostegno e di incentivi agli imprenditori da parte dello Stato, che porta inevitabilmente la maggior parte di loro a dover dire “è più conveniente assumere un uomo che una donna, o usare un contratto full time piuttosto che part-time”. Virginia è andata contro corrente, completamente, e nonostante i mille ostacoli e muri di gomma contro cui ha dovuto sbattere, oggi la sua scelta si è dimostrata vincente e in breve tempo la start up “Wear me” sta raggiungendo il milione di fatturato l’anno.
Virginia, qual è il segreto del suo successo? “La mia azienda si focalizza sull’obiettivo da raggiungere, non sul numero di ore che i dipendenti devono passare seduti dietro alla scrivania dell’ufficio. Prendendo spunto dall’esperienza tedesca, ho capito che chiudendo alle 16 le attività lavorative, i dipendenti sono più sereni e ottimizzano il lavoro fino all’ultimo minuto. Tirarlo avanti fino alle 18, quando l’attenzione e le forze sono in calo, non garantisce un aumento significativo della produzione e, anzi, comporta ansia e scontento nei dipendenti. Quando escono da lavoro i professionisti della mia azienda sono ancora freschi, molto spesso scelgono loro stessi di portarsi a casa del lavoro per poterlo completare nei ritagli di tempo, ma in generale sono molto soddisfatti per il fatto di uscire da lavoro e avere ancora del tempo da dedicare alla propria famiglia. Per una donna che è anche madre, questo è importantissimo e, a differenza di quanto comunemente si creda, le giovani mamme sono altamente performanti e molto produttive. Spesso sono io a dover dire loro 'ricordatevi di andare in bagno ogni tanto', perché avendo un orario di lavoro ridotto cercano di lavorare intensamente per poi andare a casa e dedicarsi ai loro bambini, ma non prima di essere sicure di aver ottenuto i risultati richiesti dall’azienda. Sono motivate, ricambiano la mia fiducia attraverso un sistema di do ut des molto efficace”. Non solo turni di lavoro ridotti, ma anche orari flessibili, possibilità di smartworking e, addirittura, c’è chi si porta in ufficio i bambini per l’allattamento...
“Esatto. La mia intenzione è quella di andare incontro alle esigenze delle mamme, che poi sono il target di riferimento dei miei prodotti. Timbrare il cartellino è un incubo, soprattutto per chi non ha nonni a disposizione e deve lasciare il proprio bambino tutto il giorno all’asilo o alle baby sitter, rischiando di consumare così l’intero stipendio. Vi faccio un esempio pratico raccontando l’esperienza di Tania, la mia prima collaboratrice. Ad un certo punto è andata in maternità, ma quando è rientrata a lavoro allattava ancora. Allora ci siamo venute incontro: lei in quel periodo è venuta in ufficio solo 3 o 4 ore al giorno, gestendo e spezzando il proprio tempo secondo le esigenze della sua bambina, andando a casa per allattarla e tornando dopo, entrando più tardi ecc. Nonostante questo ha sempre lavorato in maniera molto efficiente. A volte si è portata la bambina in ufficio e Tania per me è esempio del fatto che si possono conciliare i ritmi di mamma con gli impegni lavorativi. Non è mai stata in ritardo con le consegne”. Ci racconta come ha fatto la sua azienda a prendere questo indirizzo? “È una decisione che nasce dalla mia esperienza personale. Mi laureo in economia, dopo di che faccio molti lavoretti fino a che non trovo un posto in una società finanziaria. Rimango incinta di Matteo, il mio primo figlio, che nasce con un grave problema di salute. Capisco subito che non potrò tornare a lavorare tanto presto, perché al tempo occupavo un ruolo di responsabile e il mio turno di lavoro era di 8-9 ore al giorno. Non avrei mai potuto lasciare mio figlio così a lungo perché aveva bisogno di me. Oltretutto nel frattempo l’azienda per cui lavoravo chiude l’ufficio di Castelfranco Veneto e si trasferisce a Verona, a 110 km di distanza, che avrebbe significato ancora più ore lontano da Matteo. Allo stesso tempo però sento di voler in qualche modo continuare il mio percorso professionale, perché comunque fa parte di me e mi ha sempre garantito la gratificazione. Decido allora di lavorare da casa, perché mio figlio non poteva neanche uscire. Apro un negozio di abbigliamento per bambini su Ebay, investendo 500 euro. Dopo 15 giorni vendo tutto, il lavoro prende il via e vado avanti per un anno e mezzo. Matteo intanto sta meglio e può cominciare l’asilo. Nel 2010 apro il mio primo ufficio e-commerce per bambini. Assumo Tania, che era appena diplomata e tutt’ora, come vi ho detto, lavora con me. L’attività cresce, poi nel 2013 nasce Emma ma le cose non vanno come me le aspettavo”. In che senso?
“Avevo immaginato che sarei presto rientrata a lavorare, magari portandomi appresso mia figlia che avrebbe mangiato e dormito in carrozzina. Emma invece stava sempre e solo in braccio, non dormiva neanche cinque minuti. Oltre a due figli ho una casa e un lavoro da gestire... tutte complessità che noi mamme condividiamo. Vedendomi sempre più stanca, una mia amica mi suggerisce di usare una fascia, di modo da portare la bambina a contatto con il mio corpo e riuscire contemporaneamente a fare delle cose. Me ne regala una, io la uso e mi si apre un mondo. Emma sta tranquilla, anche se non dorme, ed io recupero spazio e autonomia. Con le mani libere posso portare mio figlio al parco, lavorare, preparare la cena. Tutto questo mi fa stare bene, allora subito inizio a documentarmi perché se una cosa mi interessa l'approfondisco. Mi approccio agli studi sui benefici del 'baby wearing' e comincio a vendere i primi prodotti, nella speranza di diffonderne l’utilizzo. Avendo ormai anche un negozio fisico organizzo incontri informativi nei quali invito le consulenti a raccontare come e quanto faccia bene indossare le fasce, tanto al bambino e quanto alla mamma. Poi, nel 2015, apro una mia community su Facebook dedicata al baby wearing. Subito mi seguono 2500 mamme e poi sempre di più. Vendo fasce che sono io stessa a creare, dal disegno fino alla scelta dei filati. Ogni prodotto ha una storia dietro ed io la racconto. Intanto continuo a crescere e affitto mezzo capannone in cui lavorare. Il mio staff arriva ad essere composto da 4 persone full time più 2 da remoto che si occupano di marketing”. Un quadro che somiglia ad una normale azienda in crescita... “Appunto. Più cresce l’attività più cresce in me la consapevolezza che la modalità lavorativa standard non faccia per me. Ogni giorno chiudo alle 18 ma finisco più tardi, sono costretta a lasciare spesso i miei figli a nonni e baysitter, mi perdo tutto il tempo con loro. Allora decido di cambiare e diventare sostenibile. Chiudo l’attività e mi dedico solo al portale”. Una scelta coraggiosa. “Sì, ma avevo deciso di lavorare solo su preordine, di modo da non dover gestire i magazzini. Dalla mia community Facebook un giorno arriva la richiesta di una giacca premaman, che però permetta di portare i bambini anche dopo il parto, con una sorta di marsupio incorporato, come quelle che esistono in nord Europa. Le mamme mi segnalano però che quelle disponibili sul mercato sono troppo pesanti e calde per il clima italiano, e mi chiedono di realizzarne una più leggera adatta a proteggere mamma e bambino dalla pioggia. La cerco ma non la trovo. Allora provo a disegnarla io, uno schizzo semplice, poi mi metto a cercare un’azienda che possa realizzare un prototipo, ma non la trovo”.
A nessuno è piaciuto il suo modello di giacca? “Peggio! Spesso neanche mi danno udienza, e nei rari casi in cui riesco ad ottenerla mi sento dire ‘Questo prodotto non ha mercato, un prototipo le costa 3 o 4000 euro. E comunque il suo progetto non ha futuro’. Ferma nella mia intenzione, chiamo una sarta, ci mettiamo a scucire delle giacche e realizziamo un prototipo. Trovo un’azienda che me lo produce ma che non si fida di me: sono costretta a chiedere un prestito alla banca per far decollare la produzione, ma la richiesta viene respinta. Allora decido di presentare la giacca nella mia community Facebook e subito raccolgo 100 ordini. Nel 2017 posso finalmente avviare la produzione e nel 2018 apro la start-up innovativa Wear me”. E le modalità lavorative di questa nuova start-up? “Cambiano completamente: chiudo alle 16, accetto lo smart working che permette di avere elasticità nella gestione del proprio tempo. Il primo anno faccio 190mila euro di fatturato. Poi arriva la pandemia, scatta il lockdown ed io che vendo giacche da esterni vengo fortemente penalizzata perché nessuno esce più di casa. Siamo tutte a casa, a lavorare in smart working, gestendo contemporaneamente i bambini e le DAD. Gli orari sono flessibili. Ma gli obiettivi devono essere comunque portati a termine entro una certa data. Un periodo difficilissimo ma ne siamo usciti forti e appena possibile abbiamo ripreso ad andare in ufficio. Ho assunto altre persone che curano il settore marketing e che lavorano a distanza, ma tutti nella mia azienda possono usare la flessibilità per lavorare, sia in ufficio che a casa. Si devono rispettare gli obiettivi, non gli orari”. Ormai la sua azienda si avvicina al milione di fatturato l’anno. “Sì, il secondo anno abbiamo fatturato 370mila euro e il terzo 610mila. Sto per assumere due nuovi dipendenti, lo staff che lavora da remoto è già composto da 5 persone, quasi tutte donne perché il nostro target sono le mamme, per cui servono una certa sensibilità ed una maggiore empatia. Il cliente che scrive deve essere accompagnato nello scegliere il supporto corretto. Ma seleziono principalmente donne e mamme perché per me l’azienda crea valore anche nel dare stipendi alle persone che ne hanno più bisogno, come appunto le giovani madri che durante la pandemia hanno perso il lavoro. Assumo soprattutto persone disoccupate, perché possano riabilitarsi”.
E gli uomini proprio non li contempla? “Certamente, non intendo discriminare nessuno. C’è anche un uomo che lavora con noi, ma le caratteristiche che mi premono solitamente sono più femminili. Il mio lavoro non è solo vendere, anche diffondere la pratica del baby wearing, coinvolgendo anche i papà, non solo perché aiutano le mamme, ma perché anche loro costruiscano una relazione con il proprio bambino piccolo”. Se la sente di commentare il “Caso Franchi”, di cui tanto si sente parlare in questi giorni? Lei rappresenta in un certo senso il suo opposto... “Non possiamo paragonare la mia realtà alla sua, che è molto più complessa. Io posso permettermi di assumere mamme e persino di far portare loro i bambini in ufficio perché ho pochi dipendenti. Lei che ne ha centinaia non può farlo. Stiamo parlando di una donna capacissima, che ha saputo costruire una grande azienda e che sicuramente ha messo amore nel proprio lavoro. Ma non sono d’accordo con quello che dice, si può essere contemporaneamente imprenditrici e mamme nel rispetto di sé. Elisabetta Franchi, così come tutti gli imprenditori, possono chiedersi se è davvero necessario per l’attività rimanere aperti fino alle 18 o se non sia piuttosto possibile fare come in Germania e chiudere alle 16, di modo da venire in contro alle esigenze di tutti. Esercizi come farmacie, supermercati ecc. non possono permetterselo, ma noi aziende penso di sì, anche perché a fine giornata la produttività delle persone cala. Devo però precisare che le parole della Franchi riflettono la realtà e il pensiero della maggior parte delle aziende”. La colpa dunque è solo delle aziende, secondo lei? “No, la colpa è soprattutto di uno Stato che non mette gli imprenditori nelle condizioni di scegliere liberamente i propri dipendenti. Una giovane madre si assenta di più, ha bisogno di orari flessibili, ma non ci sono incentivi che favoriscano l’utilizzo delle assunzioni part time. In proporzione, attualmente i part time costano di più dei full time, dunque è chiaro che un imprenditore tenda a scansarli. Per tante aziende prendere una donna che va in maternità, doverla sostituire, raddoppiare le spese e sostenere i costi di formazione è una scelta da evitare. Personalmente non la condivido, ma capisco che altri la facciano per questioni di convenienza, perché questo è attualmente lo stato delle cose nel mondo del lavoro. Ai colloqui chiedono alle donne giovani se sono sposate e se vogliono fare figli, di modo da poterle escludere dalle selezioni. Per quanto la Franchi abbia sicuramente usato parole sbagliate, alla fine ha portato alla luce una questione sociale che deve essere cambiata”.
Quale avrebbe potuto essere il messaggio giusto da trasmettere? “Essere esempio di una che fa le cose come un uomo non è un messaggio giusto. Secondo me avrebbe dovuto dire 'Come donna vorrei poter fare questo e quello ma non mi è possibile perché, per come vanno le cose in Italia, sono stata invece costretta a fare tutt’altro'. Aver letto per esempio che la Franchi appena tre giorni dopo il parto cesareo di suo figlio era già in ufficio, mi ha fatto dispiacere, perché ho pensato che, pur di mantenere i ritmi di lavoro, non ha potuto rispettare il suo corpo. Abbiamo un problema sociale, questa è la verità, un problema che non riguarda solo le mamme ma anche i papà. Il discorso è molto ampio, ma è certo che viviamo in un Paese che non sostiene le famiglie, né attraverso i contratti che prevede, né attraverso gli incentivi per l’assunzione dei disoccupati – se non dopo 24 mesi, che però sono davvero tanti. Non ci sono posti negli asili, le famiglie che non hanno nonni disponibili annaspano. E il Covid ha dato il colpo di grazia. Le istituzioni tendono a nascondere la testa sotto la sabbia, soprattutto durante la pandemia, quando ci siamo ritrovate a lavorare in condizioni disastrate pur di seguire i bambini in DAD ecc, e nessuno ci ha aiutato. Io non ho convenienza ad assumere con i contratti part time, perché costano di più. Così come le sostituzioni di maternità e gli incentivi insufficienti che nelle realtà molto piccole rappresentano davvero un problema. Per me è stata una scelta di vita, ma mi auguro che in futuro le cose possano cambiare per tutti”.