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Home » Lifestyle » Caregiver familiari: “I disabili non siamo noi. Formazione su temi che sappiamo meglio di chiunque altro”

Caregiver familiari: “I disabili non siamo noi. Formazione su temi che sappiamo meglio di chiunque altro”

Protesta del collettivo spontaneo Comma 255 rispetto all'impiego delle risorse a loro destinate dalla Regione Lazio: "Non vengono rispettati i nostri diritti"

Caterina Ceccuti
22 Ottobre 2022
Caregiver familiari, protesta del collettivo spontaneo Comma 255

Caregiver familiari, protesta del collettivo spontaneo Comma 255

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Dal momento in cui si alza la mattina fino a quello in cui va a dormire la sera, il caregiver familiare costruisce a adatta la propria esistenza intorno alle esigenze della persona con disabilità grave di cui si prende cura. Una persona che, a causa di una problematica non necessariamente fisica o sensoriale ma, soprattutto, intellettivo comportamentale non è in grado di compiere da sola atti quotidiani come, appunto, alzarsi dal letto, andare in bagno, mangiare, bere, gestire una vita sociale. La disabilità comporta che 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, sia qualcun altro ad occuparsi di tutto questo e di molto altro ancora. Dall’accudimento personale al disbrigo delle pratiche burocratiche – numerose e farraginose -, fino alla gestione del personale socio sanitario che nel corso della settimana occupa la routine quotidiana del paziente (fisioterapia, logopedia e quant’altro) invadendo, seppur a fin di bene, gli spazi condivisi di un ambiente familiare in cui la persona con disabilità non è l’unica ad abitare. Il caregiver familiare può essere un genitore, un fratello, un figlio o un parente prossimo. Qualunque sia il grado di parentela, stiamo parlando di una persona che risiede con il disabile e che dedica l’intera propria esistenza ai bisogni del proprio congiunto. Una persona che, per amore ma anche perché non ci sono alternative, è costretta a rinunciare al proprio lavoro, alla propria socialità, alle proprie ambizioni e ai propri sogni. In Italia, purtroppo, questa figura è data troppo per scontata: i suoi diritti sono difficilmente riconosciuti e riconoscibili, e il caregiver familiare si trova relegato in una sorta di limbo in cui la propria identità galleggia tra il non essere ufficialmente un disabile in prima persona (pur conducendo a tutti gli effetti un’esistenza segnata dalle medesime limitazioni) ma neanche più un cittadino “normale”.

Se ne sente parlare un po’ più spesso negli ultimi anni, grazie all’impegno instancabile di molte associazioni e caregiver familiari sull’intero territorio nazionale, e all’approvazione della Legge 205/2017 (articolo 1, Comma 255) che ne riconosce la figura. Ma la strada è ancora lunga.

A parlarci di questo e di molte altre cose è Sofia Donato, romana di 54 anni, portavoce del collettivo indipendente Comma 255 (il cui nome deriva appunto dalla Legge del 2017), un gruppo di caregiver familiari residenti in tutta la Penisola, che in tempo di Covid si sono spontaneamente riuniti, allor quando la maggior parte dei servizi assistenziali alle persone disabili erano stati interrotti e il peso del loro accudimento era ricaduto ancor più sulle già provate spalle dei caregiver familiari.

Sofia Donato, caregiver familiare, portavoce del collettivo 255 e mamma di una ragazza con disabilità intellettiva relazionale non auto sufficiente

“Sono madre di due figli, di cui una con disabilità intellettivo relazionale di 25 anni di età. Mia figlia è senza diagnosi, ed è completamente non auto sufficiente, ciò significa che è incapace di vivere in autonomia. Sono io a svolgere per lei e insieme a lei le attività della vita quotidiana. Da un punto di vista gestionale, la disabilità intellettiva relazionale è persino peggiore di quella fisica o sensoriale, perché la persona non è capace di dire se sta provando un dolore, né di identificare e indicare il punto del proprio corpo dove questo dolore si manifesta. Neppure sa individuare e distinguere le proprie emozioni e sensazioni. Se mia figlia sta male sono solo io a capirlo, io che passo con lei 24 ore su 24 e che ho imparato a leggere i segni della sofferenza o del fastidio sul suo viso. Ciò che faccio, ciò che un caregiver familiare fa ogni giorno, viene compiuto con grande amore e senso di responsabilità, ma bisogna capire una volta per tutte che non si tratta di una scelta.

Quello che, come collettivo, intendiamo denunciare è il fatto che troppo spesso non vengono rispettati i nostri diritti – di esseri umani e di cittadini – da parte di tutti i livelli dell’amministrazione pubblica che, attraverso leggi, riforme e approvazioni di bilancio, riconosce la figura del caregiver familiare ma non la tutela. Ufficialmente vengono destinati fondi ai caregiver familiari che, invece, a conti fatti sono erogati esclusivamente a favore del terzo settore, il quale logicamente si preoccuperà di fornire servizi a mia figlia (che è portatrice di disabilità) ma non a me che me ne prendo cura. Però, se i fondi sono destinati ai caregiver familiari, perché non possono essere direttamente loro a utilizzarli?”.

La protesta del collettivo spontaneo Comma 255 rispetto all'impiego delle risorse destinate ai caregiver familiari da parte dell'amministrazione regionale del Lazio
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255 rispetto all’impiego delle risorse destinate ai
caregiver familiari da parte dell’amministrazione regionale del Lazio

Può fare qualche esempio?

“Eccome. È di pochi giorni fa la notizia che la Regione Lazio, dove io e mia figlia risediamo, ha istituito dei corsi di formazione per caregiver familiari. Dopo la decurtazione dell’assegno di cura ai gravi e il questionario imposto ai caregiver familiari dall’amministrazione regionale, adesso arriva anche questa nuova forma di mortificazione nei nostri riguardi. Dopo 25 anni di assistenza a mia figlia, qualcuno veramente pensa che io o altri caregiver familiari come me abbiamo bisogno di una qualche formazione? E quale professionista potrebbe spiegarci più di quanto già non abbiamo appreso sul campo?. Siamo gli unici a vivere con i nostri congiunti h24 per 365 giorni all’anno. Impariamo a rispondere ai comportamenti dei nostri cari con disabilità modellandoci sulle loro richieste ed esigenze, rinunciamo a noi stessi ed alle nostre aspirazioni per sostenere e condurre la condizione di disabilità di coloro di cui ci prendiamo cura, e tutto quello che l’amministrazione regionale sa proporci sono corsi di formazione e sostegno psicologico? La formazione sulla disabilità dei nostri congiunti è insita nelle loro sindromi”.

Un percorso di formazione potrebbe però essere utile in concomitanza con la fase diagnostica…

“Appunto, non certo dopo decenni dalla diagnosi, quando ormai si è imparato tutto quello che c’è da sapere. Quando si fa un percorso diagnostico e terapeutico, di qualsiasi tipo, il professionista di riferimento deve essere in grado di dare tutte le informazioni necessarie per seguire e sostenere quel percorso. Come genitori siamo già costantemente soggetti ai ‘parent training’, e poi siamo noi a formare il personale che entra nelle nostre case per le peculiari esigenze richieste dalla condizione di nostro figlio”.

Di cosa, invece, avrebbe realmente bisogno la figura del caregiver familiare nel nostro Paese?

“Partiamo dal presupposto che i caregiver familiari sono una platea numerosa, soprattutto in Italia dove ancora manca una legge di riferimento che ci definisca e individui. Bisogna puntare l’attenzione sulla figura del caregiver familiare emancipandola, promuovendo una politica d inserimento o reinserimento lavorativo e di tutela previdenziale del suo stato di salute: perché stiamo parlando di persone sottoposte costantemente a un forte stress. Non stacchiamo mai la spina, rappresentiamo non solo il presente e il futuro, ma anche la memoria storica dei nostri congiunti. Se ci ammaliamo noi, anche psicologicamente, è la rovina anche per loro che neanche sanno esprimere i propri bisogni primari. Quello che ci aiuterebbe sarebbe un supporto economico proprio, di cui  disporre secondo le nostre necessità, non l’utilizzo dei fondi a noi destinati per la creazione di inutili corsi formativi che non aggiungono niente a nessuno. Bisogna impiegare i fondi che lo Stato ha destinato e destina ai caregiver familiari di modo da costruire per loro un percorso di emancipazione pari a quello che hanno affrontato le donne negli ultimi decenni”.

La protesta del collettivo spontaneo Comma 255
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255

Oltretutto sono proprio le donne i principali caregiver familiari, giusto?

“Esatto, sono spesso le mamme, le figlie, le sorelle a diventare caregiver a 360 gradi, a rinunciare alla vita lavorativa, sociale, eccetera”.

Con quali criteri dovrebbe essere erogato il supporto economico di cui parla?

“Sulla base di una valutazione personalizzata del caregiver familiare, tenendo conto della natura della disabilità dell’assistito, della casa del gruppo convivente, della condizione economica del caregiver familiare stesso ecc. Una volta riconosciuta la condizione familiare, si individua un solo caregiver (perché a tutti gli effetti è una sola la persona che si occupa in modo totalizzante di un congiunto disabile grave). Spesso si parla di genitori soli (perché uno dei due se ne è andato), senza lavoro, talvolta molto provati. Allora devono essere messe in atto politiche di supporto che rispettino le scelte del caregiver familiare stesso (lo psicologo, per esempio, se richiesto dal caregiver familiare, deve essere eletto in base alla fiducia piuttosto che imposto dall’alto e, se ce n’è necessità, in assenza di risorse si ricorre al servizio psicologico pubblico disponibile per qualsiasi cittadino), ma anche politiche di inserimento e reinserimento lavorativo, soprattutto nel drammatico caso in cui il figlio gravemente disabile muoia e il genitore si ritrovi improvvisamente senza uno scopo nella vita, con il dolore inconsolabile di una perdita così grande e senza più una vita sociale e lavorativa cui appigliarsi. Anni e anni da caregiver familiare insegnano il mestiere più importante e difficile del mondo: quello degli ‘organizzatori di vita’. Abbiamo competenze in grado di offrire supporto pratico in diversi ambiti professionali, dall’expertise nei servizi a quello nel terzo settore, ai disabili manager. In ogni caso dobbiamo poter scegliere, così come fanno tutti i cittadini normali. Dobbiamo poter decidere anche di tornare a lavorare almeno qualche ora al giorno, se lo si desidera, perché uscire di casa riabilita la propria condizione sociale. Insomma, le valutazioni devono essere fatte caso per caso, altrimenti i caregiver familiari saranno sempre più condannati ad una condizione di emarginazione. E poi, per buona norma, nella vita degli altri si dovrebbe entrare in punta di piedi, magari ascoltando e studiando… prima di regolamentare”.

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  • Messaggi osceni, allusioni, avances in ufficio e ricatti sessuali. La forma più classica del sopruso in azienda, unita ai nuovi strumenti tecnologici nelle mani dei molestatori. Il movimento Me Too, nel 2017, squarciò il velo di silenzio sulle molestie sessuali subite dalle donne nel mondo del cinema e poi negli altri luoghi di lavoro. Cinque anni dopo, con in mezzo la pandemia che ha terremotato il mondo del lavoro, le donne continuano a subire abusi, che nella maggior parte dei casi restano nell’ombra.

«Sono pochissime le donne che denunciano – spiega Roberta Vaia, della segreteria milanese della Cisl – e nei casi più gravi preferiscono lasciare il lavoro. Il molestatore andrebbe allontanato dalla vittima ma nei contratti collettivi dei vari settori non è ancora prevista una sanzione disciplinare per chi si rende responsabile di molestie o di mobbing».

Un quadro sconfortante che emerge anche da una rilevazione realizzata dalla Cisl Lombardia, nel corso del 2022, su lavoratrici di diversi settori, attraverso un sondaggio distribuito in fabbriche, negozi e uffici della regione. Sono seimila le donne che hanno partecipato all’indagine, e il 44% ha dichiarato di aver subìto molestie o di «esserne stata testimone» nel corso della sua vita lavorativa.

A livello nazionale, secondo gli ultimi dati Istat, sono 1.404.000 le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro. Quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine: appena lo 0,7% delle vittime.

✍🏻di Andrea Gianni

#lucenews #istat #donne #molestie #lavoro #diritti
  • II problema è che sei sola. Arrivi lì persino convinta: è la cosa più naturale che tu, donna, sia mai stata chiamata a fare: partorire. 

Te lo hanno ripetuto per 9 mesi nei corsi preparto, e te l’hanno ripetuto ancora prima che tu venissi al mondo: non c’è niente che sia più naturale, per una donna, nei secoli dei secoli. E il bello è che aver ottenuto la possibilità di scegliere che il tuo parto non sia "medicalizzato", che il tuo neonato non ti sia strappato subito dalle braccia e che resti, subito dopo, al tuo fianco nella tua stanza, e non nella nursery, è il risultato di una lunga battaglia, intrapresa oltre 30 anni fa. 

Una battaglia vinta? No, se si è passati dal troppo medicalizzato all’abbandono. 

Il problema è che c’è un’altra verità – nei secoli dei secoli – ed è il paradosso: nell’esatto momento in cui vieni pervasa dalla furiosa coscienza che sei onnipotente perché sei come Dio e hai dato la vita, vieni pure annientata dalla furiosa consapevolezza che la sopravvivenza di quella vita dipende da te, dipende da te tutto, la sua felicità o la sua infelicità, e non sai se sarai in grado di accudirla, quella nuova vita, come devi, e hai paura, la paura più pura e cristallina e terribile che tu abbia mai provato, e altro che Dio, sei l’ultimo dei miserabili. 

È stata la cultura patriarcale ad aver tramandato la maternità come destino ineluttabile della femminilità: la paura della donna non è mai stata né contemplata, né tanto meno accettata. È stata condivisa tra le donne, quando vi era un tessuto sociale che lo permetteva. È stata omessa dalla contemporaneità anche dalle donne stesse perché ammetterla comporta arretrare dall’emancipazione, dalla rivendicazione della parità: partorisci naturalmente, allatti naturalmente, naturalmente performi due giorni dopo come nulla fosse. 

Ma non c’è nulla di naturale in questo. È un’altra storia di prevaricazione. E una nuova storia di solitudine. Tra le più feroci.

di Chiara Di Clemente✍🏻

#lucenews #editoriale #allattamento #maternita #ospedalepertini
  • Theodore (Teddy) Hobbs vive a Portishead, nella contea inglese del Somerset, insieme ai genitori, mamma Beth, 31 anni, e il padre Will Hobbs, 41 anni. Il piccolo, che ora ha quasi quattro anni, è entrato nel Mensa (l’associazione internazionale fondata nel 1947 per chi ha il Quoziente Intellettivo almeno 1,5 volte quello regolare, ndr) a tre anni dopo aver superato un test del QI e ottenendo un punteggio di 139 su 160 nel test di Stanford Binet, scioccando i suoi genitori, che non avevano idea di quanto fosse intelligente. 

Ma il bambino dei segnali li aveva già dati visto che ha imparato a leggere da autodidatta all’età di soli due anni e quattro mesi e ora è persino in grado di leggere i libri di Harry Potter, quando i genitori glielo permettono, ed è in grado di contare in sei lingue diverse, mandarino compreso. I suoi passatempi preferiti? Le ricerche su Google e recitare le tabelline.

I genitori ammettono di non essersi mai aspettati che il figlio entrasse nel gruppo e non avevano nemmeno pianificato di fare domanda per l’adesione. “Ci è stato detto che non era mai entrato un membro dell’età di tre anni. A essere onesti, è davvero un colpo di fortuna che sia entrato” sono le parole di mamma Beth che spiega: “Non avevamo intenzione di farlo entrare nella società. Volevamo solo fargli fare un test prima di mandarlo a scuola per capire quale scegliere”. Ad ogni modo, continua la madre, “prima del test gli abbiamo detto che avrebbe dovuto risolvere qualche puzzle con una signora che lo guardava per un’oretta, e lui ne è rimasto felicissimo”.

I genitori del bimbo, che si sono sottoposti alla fecondazione in vitro per concepire il figlio e la sorella minore di Teddy, scherzano persino sul fatto che potrebbe esserci stato un pasticcio alla clinica della fertilità. “Non sappiamo come ha fatto a venire fuori così. Si sta rendendo conto di essere più dotato degli altri bambini. Io e mio marito scherziamo sempre dicendo che al dottore dev’essere sfuggita un’iniezione di qualche tipo. Da grande vuole fare il dottore perché gioca sempre a guarire i suoi giocattoli con il suo amico all’asilo”.

#lucenews #mensa #piccoligeni
  • “La lotta per garantire il diritto fondamentale delle donne all’assistenza sanitaria riproduttiva è tutt’altro che conclusa“.

In occasione del 50° anniversario della Roe v. Wade, lo scorso 22 gennaio, la storica sentenza della Corte Suprema che ha sancito il diritto costituzionale all’aborto, annullata la scorsa estate, la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris è stata in Florida per tenere un discorso di commemorazione.

#lucenews #roevwade #usa #abortionrights
Dal momento in cui si alza la mattina fino a quello in cui va a dormire la sera, il caregiver familiare costruisce a adatta la propria esistenza intorno alle esigenze della persona con disabilità grave di cui si prende cura. Una persona che, a causa di una problematica non necessariamente fisica o sensoriale ma, soprattutto, intellettivo comportamentale non è in grado di compiere da sola atti quotidiani come, appunto, alzarsi dal letto, andare in bagno, mangiare, bere, gestire una vita sociale. La disabilità comporta che 24 ore su 24, 365 giorni all'anno, sia qualcun altro ad occuparsi di tutto questo e di molto altro ancora. Dall'accudimento personale al disbrigo delle pratiche burocratiche - numerose e farraginose -, fino alla gestione del personale socio sanitario che nel corso della settimana occupa la routine quotidiana del paziente (fisioterapia, logopedia e quant'altro) invadendo, seppur a fin di bene, gli spazi condivisi di un ambiente familiare in cui la persona con disabilità non è l'unica ad abitare. Il caregiver familiare può essere un genitore, un fratello, un figlio o un parente prossimo. Qualunque sia il grado di parentela, stiamo parlando di una persona che risiede con il disabile e che dedica l'intera propria esistenza ai bisogni del proprio congiunto. Una persona che, per amore ma anche perché non ci sono alternative, è costretta a rinunciare al proprio lavoro, alla propria socialità, alle proprie ambizioni e ai propri sogni. In Italia, purtroppo, questa figura è data troppo per scontata: i suoi diritti sono difficilmente riconosciuti e riconoscibili, e il caregiver familiare si trova relegato in una sorta di limbo in cui la propria identità galleggia tra il non essere ufficialmente un disabile in prima persona (pur conducendo a tutti gli effetti un'esistenza segnata dalle medesime limitazioni) ma neanche più un cittadino “normale”. Se ne sente parlare un po' più spesso negli ultimi anni, grazie all'impegno instancabile di molte associazioni e caregiver familiari sull'intero territorio nazionale, e all'approvazione della Legge 205/2017 (articolo 1, Comma 255) che ne riconosce la figura. Ma la strada è ancora lunga. A parlarci di questo e di molte altre cose è Sofia Donato, romana di 54 anni, portavoce del collettivo indipendente Comma 255 (il cui nome deriva appunto dalla Legge del 2017), un gruppo di caregiver familiari residenti in tutta la Penisola, che in tempo di Covid si sono spontaneamente riuniti, allor quando la maggior parte dei servizi assistenziali alle persone disabili erano stati interrotti e il peso del loro accudimento era ricaduto ancor più sulle già provate spalle dei caregiver familiari.
Sofia Donato, caregiver familiare, portavoce del collettivo 255 e mamma di una ragazza con disabilità intellettiva relazionale non auto sufficiente
“Sono madre di due figli, di cui una con disabilità intellettivo relazionale di 25 anni di età. Mia figlia è senza diagnosi, ed è completamente non auto sufficiente, ciò significa che è incapace di vivere in autonomia. Sono io a svolgere per lei e insieme a lei le attività della vita quotidiana. Da un punto di vista gestionale, la disabilità intellettiva relazionale è persino peggiore di quella fisica o sensoriale, perché la persona non è capace di dire se sta provando un dolore, né di identificare e indicare il punto del proprio corpo dove questo dolore si manifesta. Neppure sa individuare e distinguere le proprie emozioni e sensazioni. Se mia figlia sta male sono solo io a capirlo, io che passo con lei 24 ore su 24 e che ho imparato a leggere i segni della sofferenza o del fastidio sul suo viso. Ciò che faccio, ciò che un caregiver familiare fa ogni giorno, viene compiuto con grande amore e senso di responsabilità, ma bisogna capire una volta per tutte che non si tratta di una scelta. Quello che, come collettivo, intendiamo denunciare è il fatto che troppo spesso non vengono rispettati i nostri diritti - di esseri umani e di cittadini - da parte di tutti i livelli dell'amministrazione pubblica che, attraverso leggi, riforme e approvazioni di bilancio, riconosce la figura del caregiver familiare ma non la tutela. Ufficialmente vengono destinati fondi ai caregiver familiari che, invece, a conti fatti sono erogati esclusivamente a favore del terzo settore, il quale logicamente si preoccuperà di fornire servizi a mia figlia (che è portatrice di disabilità) ma non a me che me ne prendo cura. Però, se i fondi sono destinati ai caregiver familiari, perché non possono essere direttamente loro a utilizzarli?”.
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255 rispetto all'impiego delle risorse destinate ai caregiver familiari da parte dell'amministrazione regionale del Lazio
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255 rispetto all'impiego delle risorse destinate ai
caregiver familiari da parte dell'amministrazione regionale del Lazio
Può fare qualche esempio? “Eccome. È di pochi giorni fa la notizia che la Regione Lazio, dove io e mia figlia risediamo, ha istituito dei corsi di formazione per caregiver familiari. Dopo la decurtazione dell'assegno di cura ai gravi e il questionario imposto ai caregiver familiari dall'amministrazione regionale, adesso arriva anche questa nuova forma di mortificazione nei nostri riguardi. Dopo 25 anni di assistenza a mia figlia, qualcuno veramente pensa che io o altri caregiver familiari come me abbiamo bisogno di una qualche formazione? E quale professionista potrebbe spiegarci più di quanto già non abbiamo appreso sul campo?. Siamo gli unici a vivere con i nostri congiunti h24 per 365 giorni all'anno. Impariamo a rispondere ai comportamenti dei nostri cari con disabilità modellandoci sulle loro richieste ed esigenze, rinunciamo a noi stessi ed alle nostre aspirazioni per sostenere e condurre la condizione di disabilità di coloro di cui ci prendiamo cura, e tutto quello che l'amministrazione regionale sa proporci sono corsi di formazione e sostegno psicologico? La formazione sulla disabilità dei nostri congiunti è insita nelle loro sindromi”. Un percorso di formazione potrebbe però essere utile in concomitanza con la fase diagnostica... “Appunto, non certo dopo decenni dalla diagnosi, quando ormai si è imparato tutto quello che c'è da sapere. Quando si fa un percorso diagnostico e terapeutico, di qualsiasi tipo, il professionista di riferimento deve essere in grado di dare tutte le informazioni necessarie per seguire e sostenere quel percorso. Come genitori siamo già costantemente soggetti ai 'parent training', e poi siamo noi a formare il personale che entra nelle nostre case per le peculiari esigenze richieste dalla condizione di nostro figlio”. Di cosa, invece, avrebbe realmente bisogno la figura del caregiver familiare nel nostro Paese? “Partiamo dal presupposto che i caregiver familiari sono una platea numerosa, soprattutto in Italia dove ancora manca una legge di riferimento che ci definisca e individui. Bisogna puntare l'attenzione sulla figura del caregiver familiare emancipandola, promuovendo una politica d inserimento o reinserimento lavorativo e di tutela previdenziale del suo stato di salute: perché stiamo parlando di persone sottoposte costantemente a un forte stress. Non stacchiamo mai la spina, rappresentiamo non solo il presente e il futuro, ma anche la memoria storica dei nostri congiunti. Se ci ammaliamo noi, anche psicologicamente, è la rovina anche per loro che neanche sanno esprimere i propri bisogni primari. Quello che ci aiuterebbe sarebbe un supporto economico proprio, di cui  disporre secondo le nostre necessità, non l'utilizzo dei fondi a noi destinati per la creazione di inutili corsi formativi che non aggiungono niente a nessuno. Bisogna impiegare i fondi che lo Stato ha destinato e destina ai caregiver familiari di modo da costruire per loro un percorso di emancipazione pari a quello che hanno affrontato le donne negli ultimi decenni”.
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255
La protesta del collettivo spontaneo Comma 255
Oltretutto sono proprio le donne i principali caregiver familiari, giusto? “Esatto, sono spesso le mamme, le figlie, le sorelle a diventare caregiver a 360 gradi, a rinunciare alla vita lavorativa, sociale, eccetera". Con quali criteri dovrebbe essere erogato il supporto economico di cui parla? “Sulla base di una valutazione personalizzata del caregiver familiare, tenendo conto della natura della disabilità dell'assistito, della casa del gruppo convivente, della condizione economica del caregiver familiare stesso ecc. Una volta riconosciuta la condizione familiare, si individua un solo caregiver (perché a tutti gli effetti è una sola la persona che si occupa in modo totalizzante di un congiunto disabile grave). Spesso si parla di genitori soli (perché uno dei due se ne è andato), senza lavoro, talvolta molto provati. Allora devono essere messe in atto politiche di supporto che rispettino le scelte del caregiver familiare stesso (lo psicologo, per esempio, se richiesto dal caregiver familiare, deve essere eletto in base alla fiducia piuttosto che imposto dall'alto e, se ce n'è necessità, in assenza di risorse si ricorre al servizio psicologico pubblico disponibile per qualsiasi cittadino), ma anche politiche di inserimento e reinserimento lavorativo, soprattutto nel drammatico caso in cui il figlio gravemente disabile muoia e il genitore si ritrovi improvvisamente senza uno scopo nella vita, con il dolore inconsolabile di una perdita così grande e senza più una vita sociale e lavorativa cui appigliarsi. Anni e anni da caregiver familiare insegnano il mestiere più importante e difficile del mondo: quello degli 'organizzatori di vita'. Abbiamo competenze in grado di offrire supporto pratico in diversi ambiti professionali, dall'expertise nei servizi a quello nel terzo settore, ai disabili manager. In ogni caso dobbiamo poter scegliere, così come fanno tutti i cittadini normali. Dobbiamo poter decidere anche di tornare a lavorare almeno qualche ora al giorno, se lo si desidera, perché uscire di casa riabilita la propria condizione sociale. Insomma, le valutazioni devono essere fatte caso per caso, altrimenti i caregiver familiari saranno sempre più condannati ad una condizione di emarginazione. E poi, per buona norma, nella vita degli altri si dovrebbe entrare in punta di piedi, magari ascoltando e studiando... prima di regolamentare”.
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