Un tunnel di buio e oscurità spaventosi. E una sequenza di testimonianze visive che, però, mai si sono tradotte in racconto. Dentro c'è il “bestiale disumano”, quello strascico di bruttezza e violenza che una guerra o un'occupazione inevitabilmente portano con sé. “Gli storici lo sanno, qualche manuale lo ricorda. Ma la maggior parte delle persone ha nelle sue memorie dell’Africa solo piccoli segni. Un bracciale, un minuscolo cimelio. Ma di racconti, nessuno. Eppure ce ne sarebbero tanti, che spesso hanno che fare con le donne. Con Le invisibili”.
C'è un frammento prezioso di quella storia ne “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), ultimo libro di Elena Rausa che si inserisce nel dibattito di genere innescato dal festival pistoiese Pari e Dispari” che oggi prosegue alle 18 alla libreria Lo Spazio proprio con Rausa.
"Alla base de Le invisibili c'è una curiosità personale: una parte della mia famiglia emigrò in Etiopia negli anni Trenta, per restarvi. É nata in me la curiosità di indagare cosa i loro occhi avessero visto al tempo del colonialismo italiano ed è iniziato un lavoro di ricerca, un viaggio, una catabasi direi. Ne sono scaturiti una grande tenerezza per quella popolazione e una grande partecipazione per quello che molti di quella generazione videro compiere e non rivelarono mai. Segreti terribili che ancora condizionano il nostro rapporto con l'Africa”.
Anche nelle vicende più personali, ne è prova «Le invisibili», c'è un frammento di storia collettiva. Per questo il passato è un tema che ricorre nei suoi libri?
“Mi interessa molto la storia, anche nel suo aspetto investigativo. E per via di una parte della mia vita in cui mi sono occupata dello studio di manoscritti dal passato. La storia è uno spazio utile a capire noi stessi, a osservare le relazioni umane. Il primo libro, 'Marta nella corrente"', è ambientato in una valle che frequento da tempo, la Val d'Ayas. Lì fu arrestato Primo Levi insieme a due ragazze. Una di queste era una giovanissima dottoressa, poi deportata ad Auschwitz, e infine diventata una psicoanalista molto importante. Mi sono immaginata il suo passato in spazi che conoscevo bene. Il secondo romanzo, 'Ognuno riconosce i suoi', va a ripercorrere aspetti e luoghi della mia vita personale. Anni molti difficili ma molti ricchi, accantonati per via degli anni di piombo, del bianco e nero dei tg. Infine 'Le invisibili' che mi ha condotto in un viaggio dentro a un profondo buio sconosciuto anche a me. Mi sono detta che meritava andare a indagare quel patto tra vittima e carnefice, perché in fondo è la verità posta in origine da qualunque genealogia umana. Caino uccide il fratello: non possiamo illuderci di essere figli di Abele. Fortissima è stata la negazione di ciò che accadde per mano dei nostri connazionali negli anni della Campagna di Etiopia. Il romanzo va a toccare una vicenda ancor più terribile neppure giustificata dall'azione bellica: l'assedio in una grotta, il cosiddetto massacro di Gaia Zeret, ai danni di un migliaio di persone colpite da barili di iprite, con la lenta agonia che ne conseguì. Fatti confinati in buona parte nel mondo delle università nonostante lo splendido lavoro degli storici”.
Perché le donne faticano ogni volta ad ottenere un risarcimento dalla storia?
“Il primo risarcimento è che si possa parlare di loro. Quando il turbamento si lega alla compassione si realizza una forma di guarigione collettiva straordinaria. Chi perde sempre e chi subisce il conflitto e non lo vuole, sono le donne, che diventano bottino di guerra. È quella una forma di patriarcato. Succede anche oggi con gli episodi di stupro di guerra. Ma allora era tutto rafforzato: la donna straniera era la selvaggia, disinibita, il fantasma degli uomini che partivano. La storia di Etiopia inoltre nel romanzo viene collegata a un altro grande evento, entrambi accaduti il 3 ottobre, data d'inizio della guerra di Etiopia, nel 1935, e data, nel 2013, del naufragio di Lampedusa. 368 morti, tutti eritrei e etiopi, magari figli o nipoti di questa relazione malata degli anni Trenta. Una relazione che chiede una giustizia oggi negata”.
Cosa vuol dire oggi essere femminista? Lei si ritiene tale?
“Sono del 1971, mi sono ritrovata con diritti acquisiti. Il rischio corso è stato semmai giudicare scontati quei diritti. Da noi non esistono diritti delle donne violati come accade in Iran. Ma esiste una tematica legata all'ambito lavorativo, all'impossibilità per la donna di vivere una condizione di affermazione delle relazioni e della professione. Quel che più mi interessa è però la dimensione del cuore e dell'anima. Qui stiamo facendo passi indietro. Non solo parlando di femminicidi, ma di semplice rappresentazione della donna ancora troppo legata a stereotipi estetici. E allora, sono femminista? Sì, nel momento in cui il femminismo guarda allo specifico la storia delle donne”.
Da insegnante, quanta consapevolezza c'è da parte dei ragazzi su questi temi?
“Non è avvertito bisogno di riscatto. Dei ragazzi apprezzo molto la capacità d'inclusione di ciò che viene definito diverso. Ma vedo anche grande ansia. Da social, estetica. Legata al corpo delle donne. Ci sono quindicenni esperte di tecniche per assottigliare il naso con il trucco. Questa non è l'appropriazione del nostro corpo, è una maschera. E così diversa da un velo?”.
Mesi fa la sua provocazione, a proposito di scuola: perché non dedicare La Storia di Elsa Morante lo stesso tempo che si dedica ai Promessi Sposi? Un elogio alla Morante, una critica alla sovraesposizione del Manzoni, un invito a rivedere la didattica scolastica o ancora l'indicazione a valorizzare con più convinzione la scrittura al femminile?
“Come si fa a far crescere le ragazze nella consapevolezza di sé e del loro valore se i nostri maestri sono stati tutti maschi? Beatrice è il fantasma di Dante, ma cosa lei pensi davvero non lo sapremo mai. Non rinuncerei mai al Manzoni e non nego a quel romanzo la sua funzione coesiva, ma riguarda un tempo lontano e la sua lettura da parte di un uomo. Nel caso de 'La storia' parliamo di un romanzo le cui questioni sono ancora oggi in ballo. 'La storia' col suo sottotitolo 'Lo scandalo che dura da diecimila anni' è un romanzo che dice che è sempre la stessa storia, che vince sempre la forza, che gli ultimi pagano sempre. Penso al lavoro straordinario della giornalista Francesca Mannocchi. Come faremmo se nessuno ci raccontasse dei bambini di Gaza? Queste sono le storie che ci servono più di altre. E avere uno sguardo femminile è importante”.