Una volta, quando il politically correct non esisteva, si chiamavano molto più semplicemente e comprensibilmente schiavi. Oggi si preferisce usare il termine vittime della tratta. Ma la sostanza è la medesima: uomini, ma soprattutto donne, soggetti a violenze fisiche e psicologiche, costrette a lavori usuranti, a vivere per strada prostituendosi o riducendosi all’accattonaggio e ad altre attività illecite. Le vittime della tratta, secondo le stime della ong milanese ACRA, che da oltre 50 anni lavora nel campo dei diritti umani, e che ha realizzato la Campagna RiTratta, mostrando le storie e i volti simbolici delle donne e degli uomini “cancellate”, sono almeno 24.000 in Europa.
La tratta: una violenza di genere
Ventiquattro mila persone vittime di un crimine internazionale che non è solo una violazione dei diritti umani, in quanto priva gli individui della loro libertà traendone vantaggi economici, ma è anche una vera e propria violenza di genere, considerato che l’80% delle vittime è rappresentato da donne e bambine. Generalmente si parte da una condizione già critica: in massima parte parliamo infatti di donne già vittime di violenza e di dinamiche di esclusione nei propri paesi di origine. Proprio la loro posizione di vulnerabilità sociale viene sfruttata da chi le recluta, in funzione di un mercato che è prevalentemente maschile.
Una volta cadute nella rete dei trafficanti il gioco è fatto: credendo di trovare libertà e condizioni di vita migliori una volta lasciato il proprio Paese, le vittime di tratta, arrivate in Europa sono private per anni di qualsiasi diritto e libertà. Solo in Italia, nel 2020 il sistema anti-tratta ha potuto identificare ben 2.040 vittime, prendendole in carico: di queste, l’81,8% erano donne e ragazze. Si tratta della punta dell'iceberg di un fenomeno purtroppo molto più diffuso, considerando una notevole quota di ‘sommerso’. Gli abusi e i traumi subìti durante il viaggio e la condizione di incertezza e debito verso i trafficanti vissuta dalle vittime una volta che sono giunte a destinazione, le portano infatti a non denunciare, temendo ripercussioni sulla propria incolumità, sulla famiglia o sulla comunità di origine.
“La tratta è una forma di violenza di genere che assume molteplici forme - dice Elena Muscarella, responsabile del progetto di ACRA - evolve nel tempo, si identifica a fatica. Ma quello che vogliamo testimoniare è che dalla tratta si può uscire ed esiste una rete di Associazioni che può sostenere le donne in questo processo”.
Il progetto Cope and Hope
Uscire dalle reti della tratta è molto difficile, ma non impossibile. Con interventi si può tentare e spesso riuscire. Per questo è nato il progetto Cope and Hope, cofinanziato dall’Unione Europea e promosso da ACRA e Passepartout in Italia e da ABD in Spagna, il cui obiettivo è promuovere l’integrazione sociale delle donne cittadine di Paesi Terzi vittime della tratta. Il progetto prevede assistenza e supporto psicologico per la rielaborazione e il superamento del trauma, e supporto socio-economico, in collaborazione con le istituzioni e le associazioni attive sui territori di riferimento, Milano e Barcellona.
Molto importante è l’inserimento lavorativo. Per questo uno degli obiettivi del progetto è quello di accompagnare le vittime attraverso la sperimentazione di laboratori che favoriscano autonomia e inclusione sociale. Ne sono un esempio quello tessile in Italia nato in collaborazione con Serpica Naro e quello fotografico organizzato da ABD in Spagna, che ha coinvolto circa 120 donne.
Grazie al lavoro le vittime di tratta riacquistano autostima, fiducia nelle relazioni e l’indipendenza economica che le rende di nuovo protagoniste del loro destino. Quel destino che l’emarginazione, la violenza, i soprusi, la discriminazione e le vere e proprie torture, avevano indirizzato verso l’inferno della tratta.