Autismo, l’intelligenza artificiale per la diagnosi precoce? Gli esperti: “Attenti ai sensazionalismi”

Secondo Bertelli e Vagni “Parlare di svolta riducendo questa sindrome ad una ‘condizione essenziale’ legata a pochi marcatori genetici ignora la molteplicità dei fattori che possono determinarlo e nuoce alle persone autistiche”

di CATERINA CECCUTI
3 settembre 2024
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Autismo: l'uso dell'IA è una svolta per la diagnosi precoce?

Da ieri leggiamo su buona parte dei siti di informazione online la “buona notizia” che, secondo uno studio pubblicato su Science Advances svolto presso la Virginia University, è stato sviluppato un metodo basato sull'intelligenza artificiale che in un futuro prossimo potrebbe contribuire alla diagnosi precoce dell'autismo, basata sull'osservazione diretta del cervello mediante risonanza magnetica.

La diagnosi di autismo che sfrutta l’IA

Il metodo tiene conto della morfologia del cervello e di come questa sia influenzata da differenze genetiche già note per aumentare il rischio di autismo. È importante sempre ricordare che la sindrome dello spettro autistico non è una malattia, ma un disturbo complesso e sfaccettato che dipende da più fattori, tra cui alcuni anche genetici.

Ed è proprio qui che il nuovo metodo diagnostico potrebbe rivelarsi utile: tra i fattori genetici noti con un possibile ruolo nell'autismo ci sono le cosiddette 'delezioni' o 'duplicazioni' di alcune sequenze genetiche ripetute. Chi vive con autismo presenta con maggiore probabilità una diminuzione o un aumento del numero di copie di queste sequenze genetiche, ripetute rispetto al numero con cui esse si presentano nel Dna dei soggetti senza il disturbo. In questo studio, per la prima volta, gli scienziati sono riusciti ad associare le delezioni o duplicazioni del Dna sul cromosoma 16 di pazienti autistici con particolarità strutturali e funzionali del cervello, ad esempio con alterazioni del volume della corteccia cerebrale. Il nuovo metodo inizia con la mappatura standard del cervello tramite risonanza magnetica, per poi rianalizzare le immagini tramite intelligenza artificiale.

Ecco perché non è una vera svolta

A frenare l’entusiasmo collettivo, però, potrebbe essere il parere proprio degli esperti che ogni giorno si occupano del disturbo dell’autismo e tra i quali la notizia ha avviato un vero e proprio dibattito: “Il mio parere è che questo studio di per sé non abbia prodotto avanzamenti fondamentali delle conoscenze – è il commento di Marco Bertelli, componente del Comitato scientifico della Fondazione Italiana Autismo –, anche perché la parte studiata del braccio corto del cromosoma 16 è da molto ritenuta coinvolta nella genesi non solo dell'autismo, ma di tutti i disturbi del neurosviluppo e di molti disturbi psichiatrici, inclusa la schizofrenia.

Quello che invece è davvero promettente è la capacità dell’AI di gestire perfettamente il confronto statistico di dettagli all'interno di una massa dati enorme, come quella che si associa a numerose immagini tridimensionali del sistema nervoso centrale e ai loro correlati genetici e comportamentali. I risultati di questo studio – conclude Bertelli –indicano che, se usata con saggezza e cautela, la capacità statistica dell’AI può aiutarci in tempi rapidi a fare ordine nell'attuale eterogeneità delle condizioni raggruppate sotto la denominazione di disturbo dello spettro autistico e a permettere di conseguenza diagnosi e interventi di precisione”. 

La realtà è più complessa

Anche David Vagni – del CNR nell’Istituto per la Ricerca e l’Innovazione Biomedica di Messina – ha criticato l’utilizzo da parte dei media della parola “svolta” nella diagnosi precoce dell’autismo: “La notizia sembra promettere mari e monti, suggerendo che presto potremmo essere in grado di diagnosticare l’autismo con una precisione straordinaria, grazie a un’innovativa intelligenza artificiale. Ma c’è un problema: la realtà è molto più complessa – dichiara il ricercatore –. Il focus dello studio in questione non è sul codice genetico dell'autismo ma è sulla capacità di identificare specifiche mutazioni genetiche, come la delezione o duplicazione in 16p11.2, utilizzando una tecnica di imaging cerebrale avanzata chiamata morfometria".

“Tuttavia, le mutazioni rilevabili geneticamente rappresentano solo una piccola frazione dei casi di autismo (20% circa) e le mutazioni in 16p11.2 solo lo 0,5-1%. Per di più – aggiunge Vagni – tra le persone con la mutazione in questione, solo il 20-30% è effettivamente autistico. Parlare di ‘svolta’ nella diagnosi dell’autismo basandosi su questi numeri è, quindi, quantomeno fuorviante. Questo tipo di semplificazione mediatica non solo è impreciso, ma può essere dannoso. Trattare l’autismo come una condizione monolitica, riducendolo a una questione genetica risolvibile con un test, non rende giustizia alla complessità della condizione.

L’autismo è una condizione altamente eterogenea, che si manifesta in modi molto diversi da persona a persona. Considerare l’autismo come una ‘condizione essenziale’ legata a pochi marcatori genetici ignora questa diversità e, in ultima analisi, nuoce alle persone autistiche. È necessario fermare queste semplificazioni – conclude Vagni – e abbracciare una visione più completa e rispettosa dell’autismo, che riconosca la varietà di esperienze e bisogni delle persone autistiche”.

La ricerca avanza grazie all’IA

“Sono anch'io d'accordo con Vagni e con Bertelli – è l’opinione di Marina Marini, docente al Dipartimento di Medicina Specialistica Diagnostica e Sperimentale dell'Alma Mater di Bologna –, sul fatto che articoli trionfalistici come questo sono purtroppo negativi sotto molti aspetti, tra cui quello di far pensare all'opinione pubblica che il ‘problema autismo’ sia stato risolto. Penso tuttavia che l'AI possa essere di grande aiuto per supportarci nel decifrare dei fili conduttori in un complesso estremamente intricato di dati e in questo individuo un aspetto positivo nell'articolo”. “Sottolineo il grande avanzamento della ricerca con l’AI – sono le parole di Carlo Hanau, presidente dell’Associazione Cimadori per la Ricerca Italiana sulla Sindrome di Down, l’Autismo e il Danno Cerebrale –, che permette di valutare la morfologia del cervello e connetterla con le informazioni genetiche. Questa possibilità può essere estesa a tante altre patologie psichiatriche, finora definite soltanto sulla base dell'osservazione dei comportamenti dei pazienti, come la schizofrenia citata da Bertelli.

Queste ricerche sarebbero possibili anche a Bologna, dove c'è uno dei più performanti computer del mondo, in grado di elaborare masse enormi di dati. Al momento dell'inaugurazione del computer abbiamo sentito che sarebbe stato usato anche per la medicina. La conoscenza scientifica è in continua evoluzione: la ricerca genetica ha trovato oltre un centinaio di condizioni monogeniche, tutte rare e ultra rare, ognuna delle quali può essere la causa dei comportamenti autistici. Si spera che gli incentivi del Governo allo studio delle rarità stimoleranno la ricerca della migliore definizione delle cause e la ricerca farmacologica. Altre cause note sono ambientali, quelle agenti nel periodo perinatale come infezioni, alcool e altre droghe, inquinamento ambientale (leggi pesticidi, traffico stradale, alimenti inquinati ecc.), l’età del padre e della madre aumentano il rischio”. Infine anche l’ingegner Armando Mazzoni, rappresentante dei genitori di persone con autismo nell’ambito della Ricerca in ambito europeo, ha espresso parere concorde a quello degli specialisti: “Sappiamo quanto gli studi di genetica siano stati e siano tutt’ora divisivi nella cosiddetta e sempre più eterogenea comunità autistica; i progressi, seppur lentissimi, non faranno che aumentare le incomprensioni nelle questioni in discussione, che ne necessitano di profili di altissimo livello e autorevolezza per dirimere in modo condiviso i nodi di carattere scientifico ed etico”.