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Home » Scienze e culture » Il calvario di Martina, ex modella che rischia la vita per l’Rcu: “Ma pensano che vada a ritoccarmi il trucco”

Il calvario di Martina, ex modella che rischia la vita per l’Rcu: “Ma pensano che vada a ritoccarmi il trucco”

La 30enne è una delle pazienti affetta da Rettocolite ulcerosa più grave d'Italia. A Luce! Santagiuliana racconta cosa significa per una donna affrontare una patologia altamente invalidante in un Paese che non la riconosce

Caterina Ceccuti
26 Luglio 2022
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Le patologie infiammatorie croniche intestinali sono un fenomeno in costante, drammatico aumento nella popolazione mondiale. Dal morbo di Crohn alla colite ulcerosa alla così detta Rcu, la Rettocolite ulcerosa. I sintomi non sempre si limitano al bisogno di correre spesso in bagno ma, a seconda della gravità, possono abbinarsi a forti spasmi addominali, dolori articolari, senso di ottundimento, stanchezza, problemi alla vista e alla memoria. Proprio per colpa della variabilità dei sintomi, a volte passano anni prima che una di queste patologie venga diagnosticata. Invece l’identificazione andrebbe fatta il prima possibile, perché tra le complicanze più gravi che si possono verificare nel tempo c’è l’ispessimento della parete intestinale e lo sviluppo di tumori. Non volendo andare a pensare a conseguenze tanto tragiche, c’è comunque da considerare il difficile risvolto psicologico e sociale nella vita di un paziente. A raccontare a Luce! cosa significhi soffrire di complicazioni di questo tipo è l’ex modella Martina Santagiuliana di Recoaro Terme (VI), una giovane donna che sin da bambina combatte contro la Rcu, ed è stata dichiarata uno dei casi più gravi d’Italia.

Martina Santagiuliana, ex modella trentenne, è tra le pazienti più gravi in Italia con Rcu, la Rottocolite ulcerosa, una patologia invalidante 

Innumerevoli ospedali, interminabili visite, esami strumentali, interventi chirurgici anche una volta l’anno. Dolore, paura, senso di solitudine ed incomprensione da parte di una società che male accetta persone apparentemente normali, ma che invece sono portatrici di una malattia invalidante, hanno portato Martina (30 anni) ad attraversare periodi di scoramento, durante i quali chiudersi in casa e gettare la chiave sembrava essere l’unica soluzione possibile. Invece lei non si è mai arresa, non importa quanti interventi abbia dovuto affrontare, non importa quante volte ha sentito dire dai medici “le speranze di vita sono scarse“. Martina ha combattuto, a gennaio scorso è arrivata fino in Belgio per tentare un’operazione complicata che, le auguriamo, potrebbe essere risolutiva. Intanto oggi dal suo profilo Instagram manda messaggi di conforto alle persone che soffrono come lei. Non lo fa postando solo foto sorridenti di una vita patinata e invidiabile, come la maggior parte della gente. Il suo è un profilo umano, nel quale la si vede sorridere quanto piangere, affrontare momenti in ospedale, combattere per il diritto ad una vita normale che, fino ad ora, Martina non ha potuto avere.

Martina, quando ha scoperto di avere la Rcu?
“Avevo appena 4 anni. In quel periodo in Italia iniziavano ad esserci i primi casi ma non si sapeva quasi niente della patologia. Persi molto tempo in giro per ospedali prima di capire cosa avessi. Mesi e mesi, e purtroppo il tempo perso è stato fatale. Grazie alla determinazione dei miei genitori alla fine approdai a Verona, dal dottor Cinquetti, un medico che ormai è un amico e che sento per telefono tutt’oggi. Qui ricevetti un nome per la malattia che mi affliggeva, ma ci vollero 2 mesi di ricovero perché i miei parametri tornassero nella norma”.

Come ha vissuto quell’esperienza una bambina così piccola?
“Dimenticando il mondo dei bambini e iniziando a vivere solo quello degli ospedali. I miei amici non erano i compagni dell’asilo ma gli infermieri e i medici dei reparti. Iniziai a far finta di curare le mie bambole”.

A Martina Santagiuliana (30 anni) è stata diagnosticata la Rcu quando aveva quattro anni e ha rischiato più volte la vita

Cosa successe dopo?
“Dopo che venni stabilizzata mi rimandarono a casa, ma continuavo a stare male, con forti dolori all’addome. Una sera, mentre sedevo sul divano e i miei genitori erano in cucina, improvvisamente sentii il corpo abbandonarmi. Dissi solo ‘Ciao mamma, ciao papà’, poi persi i sensi. Riaprii gli occhi una prima volta e mi ritrovai in macchina, poi in ospedale. Fortunatamente il medico che mi aveva in cura nel frattempo era stato a un convegno e aveva conosciuto uno specialista che eseguiva interventi complessi all’intestino. Quella volta fui ripresa per i capelli, il mio intestino era collassato e non funzionava più”.

La operarono?
“Sì, era il 1994. Prendemmo l’aereo per andare a Roma. L’ospedale era buio, il medico disse che sarei morta da lì a qualche giorno. Però tentò comunque l’intervento, senza garantire nulla. Dopo 12 ore di sala operatoria, 8 di terapia intensiva e non so quante sacche di sangue sono sopravvissuta. Sono stata all’Ospedale Bambin Gesù per quasi un anno, i medici procedevano per tentativi perché non sapevano nulla riguardo agli esiti di questo tipo di intervento. Inutile dire che è stata durissima. Rimanevo allettata, le gambe non mi rispondevano più, ero depressa. Un giorno, dei medici che mi seguivano mi presero e mi misero in fondo al corridoio del reparto: ‘Finché non ti alzi da sola, nessuno ti verrà a prendere’. Per quanto brutale, la loro tecnica mi spronò a reagire. Giorno dopo giorno, nonostante gli urli e i pianti ce l’ho fatta, ho scelto di rimettere in moto il corpo e la mente”.

Dopo un anno è riuscita a tornare a casa…
“Già, e ad attendermi ho trovato una festa pazzesca perché quando mi avevano visto partire i parenti e gli amici erano convinti non sarei più tornata. La gestione della terapia e dell’alimentazione era però assai difficile a casa; a quel tempo non esistevano molti cibi senza glutine, senza questo e senza quello, mia madre era costretta a preparare tutto in casa. Piano piano sono cresciuta, sgomitando, soffrendo, piangendo. Però non volevo vedere nessuno, a periodi ho vissuto con le tapparelle abbassate e fatto fuori 3 televisioni a furia di guardarle. Rifiutavo il cibo perché il cibo significava stare male. Durante l’adolescenza le cose sono ulteriormente peggiorate. Socializzare con gli altri, in un’età già difficile di suo e con questo bagaglio alle spalle, era un’impresa. I professori a scuola non capivano e non accettavano le mie condizioni. Si rifiutavano di mandarmi in bagno quando dovevo – potete immaginare le conseguenze -, siccome vedevano che non mi mancava una gamba, ufficialmente stavo bene e dovevo smetterla di cercare continue scuse per allontanarmi dall’aula. Nonostante gli incartamenti e i referti ospedalieri non mi credevano”.

Martina Santagiuliana
Santagiuliana (30 anni) ha subito due grosse operazioni, la prima nel 1994 e l’ultima lo scorso anno in Belgio

Da grande è riuscita a costruirsi delle amicizie?
“Sì, e fortunatamente le conservo ancora. Ebbi un periodo in cui la patologia dette parzialmente tregua, è stato allora che ho intrapreso la mia carriera di modella. La verità è che non volevo accettare di arrendermi alla malattia, non volevo permetterle di allettarmi per sempre. Per cui non mi fermavo anche se avevo dei dolori. Prendevo le pastiglie e andavo alle sfilate e agli shooting. Ma a vent’anni ebbi una grossa ricaduta. Ero sempre più magra, non avevo forze per uscire di casa. Andai a Padova dove mi dissero che la mia Rcu si era estesa anche al tratto vaginale, cosa che invece non dovrebbe accadere. Persi 5 o 6 anni girando tra gli ospedali e provandole tutte – compreso un intervento all’anno -, finché due medici dal cuore d’oro (i dottori Ugolini e Montroni) nel 2019 mi dissero che dovevo cominciare a pensare di subire un nuovo intervento di grossa portata, come era stato quello del 1994. Allora mi cadde il mondo addosso”.

Cosa decise di fare?
“Mi dissero che un intervento simile, su di me, in Italia nessuno se la sarebbe sentita di eseguirlo, dopo la mia lunga e dolorosa storia clinica. La scelta era tra il Nord Europa e gli Stati Uniti, dove gli studi erano all’avanguardia. Non sapevo cosa fare, fino a che ad aprile dell’anno scorso sono stata ricoverata di urgenza al pronto soccorso e ho capito che era arrivato il momento di decidermi. Sono partita per il Nord Europa, mentre venivo dichiarata il caso di Rcu più grave d’Italia. Il 10 gennaio scorso, in Belgio, sono stata operata. Ovviamente i medici non mi dettero molte garanzie, però alla fine l’intervento è riuscito. D’altronde sia il mio fisico che il mio carattere sono sempre stati molto combattivi. Devo però tornare sotto i ferri per togliere la stomia che ancora mi porto addosso”.

Un vero calvario. Eppure non solo ha saputo reagire, ma sulla sua pagina Instagram si è fatta promotrice di una vera campagna di sensibilizzazione per fare uscire dall’ombra le persone affette da Rcu
“In realtà ho iniziato per caso. Stavo guardando alcuni profili social in in cui si enfatizzava la perfezione della quotidianità. Ho pensato che si trattasse solo di una copertina artefatta. Io invece volevo raccontare la verità della mia vita. Ho iniziato a parlarne e nel giro di pochi mesi la pagina ha preso il volo. Le persone si sono affezionate a me, ed io a loro come se fossero la mia seconda famiglia. Mi prendono un po’ come punto di riferimento ed io ne sono felice. Ogni giorno ricevo tanti di quei messaggi che quasi non riesco a leggerli tutti. La gente ha paura di non essere capita a livello sociale, non sa come approcciarsi agli altri. Vedere e ascoltare qualcuno che nel suo piccolo ti racconta il proprio vissuto e ti dà consigli su come affrontare situazioni dure, aiuta a non sentirsi soli. Sono felice che le persone possano tentare di trovare una soluzione o un appoggio rivolgendosi ai medici che per me hanno fatto la differenza. Tutto questo ha fatto sì che la mia diventasse una vera e propria mission di sensibilizzazione”.

Martina Santagiuliana
Martina con il marito. Oggi collabora con un’agenzia di marketing ma ha avuto per molto tempo problemi in ambito lavorativo per via della sua patologia

Martina, com’è oggi la sua routine?
“Sono una donna sposata, neanche a dirlo mio marito l’ho conosciuto in farmacia. Un vita normale però per me non è possibile, la patologia è troppo ingombrante. Con i farmaci si riesce al massimo a tenere un po’ sotto controllo il tutto. In questo momento sto iniziando una collaborazione con un’agenzia di marketing che mi permette di lavorare da casa. Fino ad oggi ho provato a lavorare in aziende o in uffici, ma non ci sono riuscita perché pare che le persone non capiscano le necessità particolari di un malato di Rcu. Mi prendono per una che va in bagno 5 o 6 volte per ripassarsi il trucco. E poi c’è la questione dei dolori che non danno tregua. Una routine così non permette di lavorare fuori. Forse – è quel che spero – con l’intervento la mia vita potrà cambiare. Comunque credo che le istituzioni avrebbero dovuto aiutare persone con problemi di salute gravi come i miei, invece sono sempre stata lasciata sola”.

La Rcu è una patologia rara?
“Non direi, se si considera che siamo 7 o 8 milioni nel mondo, circa 300mila in Italia, e soprattutto se si considera che questi sono sicuramente dati sotto stimati, come dice il mio medico. Molte persone impiegano tanto tempo per farsela diagnosticare. Ancora oggi vengono etichettate come pazze, si sentono dire dai medici del pronto soccorso ‘Cosa ci fai qui? Hai solo un morbo di Crohn!’. Intanto l’infiammazione va alle stelle. Cerco nel mio piccolo di sensibilizzare, di essere di aiuto anche grazie all’esperienza che mio malgrado ho messo da parte. Per esempio indirizzo le persone al Centro di Faenza che mi sta seguendo, perché spero così di non far perdere loro tempo prezioso. Fornisco nomi ed indirizzi mail cui fare riferimento. Un mese fa i medici che mi seguono mi hanno detto che di notte, invece di andare a dormire, rispondono alle mail dei pazienti, e che la maggior parte riporta in calce che sono stata io a consigliare il contatto. Temevo che questo potesse in qualche modo infastidirli, invece mi hanno rassicurata che questa è la loro missione e che sono lì per aiutare la gente”.

C’è qualche buona notizia in vista per i malati di Rcu?
“In effetti sì. L’intervento che mi hanno fatto in Belgio lo stanno portando anche in Italia, attraverso la formazione di alcuni specialisti. Sarebbe un grande passo per il nostro Paese. In ogni modo il mio auspicio è che la ricerca sulla Rcu riparta in Italia, perché per ora è tutto fermo, e non tutti possono permettersi di andare all’estero per ottenere una speranza di vita”.

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  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
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L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
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#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia

Le patologie infiammatorie croniche intestinali sono un fenomeno in costante, drammatico aumento nella popolazione mondiale. Dal morbo di Crohn alla colite ulcerosa alla così detta Rcu, la Rettocolite ulcerosa. I sintomi non sempre si limitano al bisogno di correre spesso in bagno ma, a seconda della gravità, possono abbinarsi a forti spasmi addominali, dolori articolari, senso di ottundimento, stanchezza, problemi alla vista e alla memoria. Proprio per colpa della variabilità dei sintomi, a volte passano anni prima che una di queste patologie venga diagnosticata. Invece l'identificazione andrebbe fatta il prima possibile, perché tra le complicanze più gravi che si possono verificare nel tempo c'è l'ispessimento della parete intestinale e lo sviluppo di tumori. Non volendo andare a pensare a conseguenze tanto tragiche, c'è comunque da considerare il difficile risvolto psicologico e sociale nella vita di un paziente. A raccontare a Luce! cosa significhi soffrire di complicazioni di questo tipo è l'ex modella Martina Santagiuliana di Recoaro Terme (VI), una giovane donna che sin da bambina combatte contro la Rcu, ed è stata dichiarata uno dei casi più gravi d'Italia.

Martina Santagiuliana, ex modella trentenne, è tra le pazienti più gravi in Italia con Rcu, la Rottocolite ulcerosa, una patologia invalidante 

Innumerevoli ospedali, interminabili visite, esami strumentali, interventi chirurgici anche una volta l'anno. Dolore, paura, senso di solitudine ed incomprensione da parte di una società che male accetta persone apparentemente normali, ma che invece sono portatrici di una malattia invalidante, hanno portato Martina (30 anni) ad attraversare periodi di scoramento, durante i quali chiudersi in casa e gettare la chiave sembrava essere l'unica soluzione possibile. Invece lei non si è mai arresa, non importa quanti interventi abbia dovuto affrontare, non importa quante volte ha sentito dire dai medici "le speranze di vita sono scarse". Martina ha combattuto, a gennaio scorso è arrivata fino in Belgio per tentare un'operazione complicata che, le auguriamo, potrebbe essere risolutiva. Intanto oggi dal suo profilo Instagram manda messaggi di conforto alle persone che soffrono come lei. Non lo fa postando solo foto sorridenti di una vita patinata e invidiabile, come la maggior parte della gente. Il suo è un profilo umano, nel quale la si vede sorridere quanto piangere, affrontare momenti in ospedale, combattere per il diritto ad una vita normale che, fino ad ora, Martina non ha potuto avere.

Martina, quando ha scoperto di avere la Rcu? "Avevo appena 4 anni. In quel periodo in Italia iniziavano ad esserci i primi casi ma non si sapeva quasi niente della patologia. Persi molto tempo in giro per ospedali prima di capire cosa avessi. Mesi e mesi, e purtroppo il tempo perso è stato fatale. Grazie alla determinazione dei miei genitori alla fine approdai a Verona, dal dottor Cinquetti, un medico che ormai è un amico e che sento per telefono tutt'oggi. Qui ricevetti un nome per la malattia che mi affliggeva, ma ci vollero 2 mesi di ricovero perché i miei parametri tornassero nella norma".

Come ha vissuto quell'esperienza una bambina così piccola? "Dimenticando il mondo dei bambini e iniziando a vivere solo quello degli ospedali. I miei amici non erano i compagni dell'asilo ma gli infermieri e i medici dei reparti. Iniziai a far finta di curare le mie bambole".

A Martina Santagiuliana (30 anni) è stata diagnosticata la Rcu quando aveva quattro anni e ha rischiato più volte la vita

Cosa successe dopo? "Dopo che venni stabilizzata mi rimandarono a casa, ma continuavo a stare male, con forti dolori all'addome. Una sera, mentre sedevo sul divano e i miei genitori erano in cucina, improvvisamente sentii il corpo abbandonarmi. Dissi solo 'Ciao mamma, ciao papà', poi persi i sensi. Riaprii gli occhi una prima volta e mi ritrovai in macchina, poi in ospedale. Fortunatamente il medico che mi aveva in cura nel frattempo era stato a un convegno e aveva conosciuto uno specialista che eseguiva interventi complessi all'intestino. Quella volta fui ripresa per i capelli, il mio intestino era collassato e non funzionava più".

La operarono? "Sì, era il 1994. Prendemmo l'aereo per andare a Roma. L'ospedale era buio, il medico disse che sarei morta da lì a qualche giorno. Però tentò comunque l'intervento, senza garantire nulla. Dopo 12 ore di sala operatoria, 8 di terapia intensiva e non so quante sacche di sangue sono sopravvissuta. Sono stata all'Ospedale Bambin Gesù per quasi un anno, i medici procedevano per tentativi perché non sapevano nulla riguardo agli esiti di questo tipo di intervento. Inutile dire che è stata durissima. Rimanevo allettata, le gambe non mi rispondevano più, ero depressa. Un giorno, dei medici che mi seguivano mi presero e mi misero in fondo al corridoio del reparto: 'Finché non ti alzi da sola, nessuno ti verrà a prendere'. Per quanto brutale, la loro tecnica mi spronò a reagire. Giorno dopo giorno, nonostante gli urli e i pianti ce l'ho fatta, ho scelto di rimettere in moto il corpo e la mente".

Dopo un anno è riuscita a tornare a casa... "Già, e ad attendermi ho trovato una festa pazzesca perché quando mi avevano visto partire i parenti e gli amici erano convinti non sarei più tornata. La gestione della terapia e dell'alimentazione era però assai difficile a casa; a quel tempo non esistevano molti cibi senza glutine, senza questo e senza quello, mia madre era costretta a preparare tutto in casa. Piano piano sono cresciuta, sgomitando, soffrendo, piangendo. Però non volevo vedere nessuno, a periodi ho vissuto con le tapparelle abbassate e fatto fuori 3 televisioni a furia di guardarle. Rifiutavo il cibo perché il cibo significava stare male. Durante l'adolescenza le cose sono ulteriormente peggiorate. Socializzare con gli altri, in un'età già difficile di suo e con questo bagaglio alle spalle, era un'impresa. I professori a scuola non capivano e non accettavano le mie condizioni. Si rifiutavano di mandarmi in bagno quando dovevo - potete immaginare le conseguenze -, siccome vedevano che non mi mancava una gamba, ufficialmente stavo bene e dovevo smetterla di cercare continue scuse per allontanarmi dall'aula. Nonostante gli incartamenti e i referti ospedalieri non mi credevano".

Martina Santagiuliana
Santagiuliana (30 anni) ha subito due grosse operazioni, la prima nel 1994 e l'ultima lo scorso anno in Belgio

Da grande è riuscita a costruirsi delle amicizie? "Sì, e fortunatamente le conservo ancora. Ebbi un periodo in cui la patologia dette parzialmente tregua, è stato allora che ho intrapreso la mia carriera di modella. La verità è che non volevo accettare di arrendermi alla malattia, non volevo permetterle di allettarmi per sempre. Per cui non mi fermavo anche se avevo dei dolori. Prendevo le pastiglie e andavo alle sfilate e agli shooting. Ma a vent'anni ebbi una grossa ricaduta. Ero sempre più magra, non avevo forze per uscire di casa. Andai a Padova dove mi dissero che la mia Rcu si era estesa anche al tratto vaginale, cosa che invece non dovrebbe accadere. Persi 5 o 6 anni girando tra gli ospedali e provandole tutte - compreso un intervento all'anno -, finché due medici dal cuore d'oro (i dottori Ugolini e Montroni) nel 2019 mi dissero che dovevo cominciare a pensare di subire un nuovo intervento di grossa portata, come era stato quello del 1994. Allora mi cadde il mondo addosso".

Cosa decise di fare? "Mi dissero che un intervento simile, su di me, in Italia nessuno se la sarebbe sentita di eseguirlo, dopo la mia lunga e dolorosa storia clinica. La scelta era tra il Nord Europa e gli Stati Uniti, dove gli studi erano all'avanguardia. Non sapevo cosa fare, fino a che ad aprile dell'anno scorso sono stata ricoverata di urgenza al pronto soccorso e ho capito che era arrivato il momento di decidermi. Sono partita per il Nord Europa, mentre venivo dichiarata il caso di Rcu più grave d'Italia. Il 10 gennaio scorso, in Belgio, sono stata operata. Ovviamente i medici non mi dettero molte garanzie, però alla fine l'intervento è riuscito. D'altronde sia il mio fisico che il mio carattere sono sempre stati molto combattivi. Devo però tornare sotto i ferri per togliere la stomia che ancora mi porto addosso".

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Martina Santagiuliana
Martina con il marito. Oggi collabora con un’agenzia di marketing ma ha avuto per molto tempo problemi in ambito lavorativo per via della sua patologia

Martina, com'è oggi la sua routine? "Sono una donna sposata, neanche a dirlo mio marito l'ho conosciuto in farmacia. Un vita normale però per me non è possibile, la patologia è troppo ingombrante. Con i farmaci si riesce al massimo a tenere un po' sotto controllo il tutto. In questo momento sto iniziando una collaborazione con un'agenzia di marketing che mi permette di lavorare da casa. Fino ad oggi ho provato a lavorare in aziende o in uffici, ma non ci sono riuscita perché pare che le persone non capiscano le necessità particolari di un malato di Rcu. Mi prendono per una che va in bagno 5 o 6 volte per ripassarsi il trucco. E poi c'è la questione dei dolori che non danno tregua. Una routine così non permette di lavorare fuori. Forse – è quel che spero – con l'intervento la mia vita potrà cambiare. Comunque credo che le istituzioni avrebbero dovuto aiutare persone con problemi di salute gravi come i miei, invece sono sempre stata lasciata sola".

La Rcu è una patologia rara? "Non direi, se si considera che siamo 7 o 8 milioni nel mondo, circa 300mila in Italia, e soprattutto se si considera che questi sono sicuramente dati sotto stimati, come dice il mio medico. Molte persone impiegano tanto tempo per farsela diagnosticare. Ancora oggi vengono etichettate come pazze, si sentono dire dai medici del pronto soccorso 'Cosa ci fai qui? Hai solo un morbo di Crohn!'. Intanto l'infiammazione va alle stelle. Cerco nel mio piccolo di sensibilizzare, di essere di aiuto anche grazie all'esperienza che mio malgrado ho messo da parte. Per esempio indirizzo le persone al Centro di Faenza che mi sta seguendo, perché spero così di non far perdere loro tempo prezioso. Fornisco nomi ed indirizzi mail cui fare riferimento. Un mese fa i medici che mi seguono mi hanno detto che di notte, invece di andare a dormire, rispondono alle mail dei pazienti, e che la maggior parte riporta in calce che sono stata io a consigliare il contatto. Temevo che questo potesse in qualche modo infastidirli, invece mi hanno rassicurata che questa è la loro missione e che sono lì per aiutare la gente”.

C'è qualche buona notizia in vista per i malati di Rcu? "In effetti sì. L'intervento che mi hanno fatto in Belgio lo stanno portando anche in Italia, attraverso la formazione di alcuni specialisti. Sarebbe un grande passo per il nostro Paese. In ogni modo il mio auspicio è che la ricerca sulla Rcu riparta in Italia, perché per ora è tutto fermo, e non tutti possono permettersi di andare all'estero per ottenere una speranza di vita".

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