
Stefania Rocca e Bryan Ceotto
Una madre attende suo figlio nella sala d’aspetto di un ospedale in Serbia. L’attesa è lunga e tormentata, perché l’operazione a cui Alessandro (o Eva, come continua a chiamarlo la protagonista) si sta sottoponendo è quella per l’affermazione di genere, un’operazione che trasformerà il suo corpo, nato e cresciuto delle caratteristiche femminili, in quello di un giovane uomo. Si apre così La madre di Eva, spettacolo teatrale che vede sul palco Stefania Rocca (anche regista), Bryan Ceotto e Simon Sisti Ajmone (i due giovani attori, al loro debutto, si alternano sul palco a seconda della serata).

Tratto dal romanzo omonimo di Silvia Ferreri (Neo Edizioni), La madre di Eva è uno spettacolo teatrale potente e necessario, che affronta con sensibilità e profondità il tema dell’identità di genere attraverso il legame, spesso complesso, tra una madre e suo figlio. La storia si svolge nell’arco di una notte, nell’attesa di un intervento chirurgico che segnerà l’inizio di una nuova vita per Alessandro, giovane uomo transgender. Ma è anche il racconto di tutta la vita del ragazzo, filtrata dai ricordi della madre che, in attesa della conclusione dell’intervento, ripercorre i suoi ricordi e il rapporto, spesso complicato, con il figlio. A differenza del romanzo, che rappresenta un monologo, Stefania Rocca ha scelto nel riadattamento scenico di creare un dialogo tra la protagonista e Alessandro/Eva: salgono così alla ribalta i temi legati all’identità di genere sia dal punto di vista di chi ne è direttamente coinvolto, sia di chi le vive come genitore. Per capire meglio l’importanza di questa rappresentazione e il ruolo che può avere il teatro nel sensibilizzare su queste tematiche, abbiamo intervistato il giovane attore trans Bryan Ceotto, originario del trevigiano, che ci ha raccontato la sua esperienza nell’interpretare Alessandro/Eva.

Come sei arrivato a interpretare il ruolo di Eva/Alessandro in La madre di Eva?
“Ho avuto l’opportunità di interpretare Alessandro grazie a un provino andato a buon fine. Ma la parte più curiosa – e per certi versi inaspettata – è proprio ciò che ha preceduto quel provino: non avevo mai studiato recitazione, né avevo avuto esperienze in ambito teatrale, quindi ricevere un messaggio su Instagram da Stefania, attrice e regista, in cui mi proponeva di partecipare alla selezione, è stato sorprendente ed estremamente emozionante. Da lì è iniziato tutto”.
Quali sono state le sfide più grandi nel dare vita a questo personaggio?
“Una delle sfide più complesse è stata senza dubbio la profonda vicinanza tra la mia vita e quella del personaggio. Io e Alessandro, pur con percorsi e sfumature diverse, abbiamo condiviso emozioni, paure e domande simili, legate all’esperienza della transizione di genere. Rivivere emotivamente ogni passaggio che mi ha portato a quella che oggi posso chiamare serenità non è stato affatto semplice. Sul palco, io e Alessandro ci siamo fusi: le nostre voci, i nostri silenzi, i nostri conflitti interiori si sono intrecciati, dando vita a un’unica identità che cercava, con forza e vulnerabilità, di affermare se stessa. Durante la messa in scena, ho lasciato andare molti “scheletri” della mia storia che credevo di aver superato, ma che in realtà erano solo stati messi a tacere, nascosti in fondo all’anima per non essere sentiti. Affrontarli ha fatto male, ma è stato anche profondamente liberatorio. E, in un modo che non mi aspettavo, immensamente gratificante”.
Ti sei ritrovato in qualche aspetto della storia di Alessandro? Quanto di te c’è in questo ruolo?
“Sebbene le nostre vite siano diverse e i percorsi non perfettamente sovrapponibili, io e Alessandro condividiamo una profonda comunanza emotiva. Le nostre storie si distinguono per esperienze, contesti e reazioni, ma ci accomuna la complessa relazione con il corpo e con l’identità, e il modo in cui queste dimensioni si riflettono sul vissuto interiore. Rispetto ad Alessandro, però, sento di aver vissuto la rabbia in modo diverso: lui la porta addosso in modo più viscerale, più esplosivo. Io invece - pur avendo attraversato momenti di forte ingiustizia interiore - credo di aver rivolto quella rabbia più verso me stesso che verso il mondo esterno. Certamente, anche io ho ferito, spesso in modo ingiusto e inconsapevole, chi mi era vicino, trasferendo su di loro il peso di un dolore che non sapevo ancora nominare. C’è anche una crescita in Alessandro e in quel processo mi ci sono rispecchiato molto. Ma oggi, guardandomi indietro, riconosco di aver affrontato la rabbia non tanto nel combatterla, quanto nel trasformarla”.
Qual è stata la tua reazione quando hai letto il copione per la prima volta? Ti ha colpito qualcosa in particolare?
"Ci sono due momenti che mi hanno profondamente colpito la prima volta che ho letto il copione. Il primo, e forse il più commovente, è stato provare una sincera compassione per il personaggio della madre. Ho ascoltato, tra le righe, il suo dolore, la sua paura, la sua rabbia. E le ho accolte come se fossero quelle della mia stessa madre. Per la prima volta mi sono concesso di mettermi davvero in discussione su questo tema, provando a comprendere, con uno sguardo nuovo, lo smarrimento di chi si trova impreparato ad accogliere una verità così potente come quella che, anni fa, ho scelto di condividere. La seconda cosa che mi ha spiazzato è stato il sorriso che mi è nato spontaneo subito dopo aver letto l’ultima pagina. Nonostante il carico emotivo, le parole, le battute e le lacrime di Alessandro mi hanno restituito, con nitidezza, la consapevolezza del cammino che avevo già percorso. Quel tunnel oscuro della mia vita, che avevo attraversato con dolore, tra pianti silenziosi e sentimenti laceranti, non era più davanti a me: era alle mie spalle. E in quel momento, con il copione ancora tra le mani, ho sentito di essere davvero libero. Libero da un peso antico, e profondamente grato per ogni singolo gradino salito per arrivare fin qui”.
Quale pensi sia il messaggio più importante che La madre di Eva vuole trasmettere al pubblico?
"Credo che il messaggio più potente che emerge sia quello di una reciproca comprensione come via per incontrarsi in una nuova forma d’amore. Nonostante il conflitto tra i personaggi, c’è un filo invisibile che li tiene uniti: l’amore. Un amore imperfetto, spesso silenzioso, a tratti rabbioso, ma profondamente autentico. Ogni gesto, ogni battuta, ogni contatto nasce da lì, dal desiderio di comprendere, da una parte, e di essere compresi, dall’altra. È proprio in questo sforzo reciproco, a volte doloroso, che si dischiude la possibilità di un legame più profondo. Perché, in fondo, La madre di Eva non è solo una storia di identità, ma un racconto d’amore nelle sue forme più sincere e complesse”.
In Italia si parla ancora poco di attori transgender nel teatro: hai trovato difficoltà nel tuo percorso artistico? Secondo te, quanto è cambiata la rappresentazione delle persone transgender nel teatro e nel cinema negli ultimi anni?
"Credo che si parli ancora troppo poco di attori e attrici transgender in ambito teatrale, e questo accade soprattutto perché, alla base, manca la materia prima per affrontare davvero il tema: mancano rappresentazioni che sappiano dialogare con il concetto di identità in tutte le sue sfaccettature - personali, sociali, familiari - così come ogni essere umano le vive nella propria quotidianità. Per fortuna qualcosa sta lentamente cambiando. Anche se spesso se ne parla in modo impreciso o superficiale, il fatto stesso che se ne parli è già un passo avanti: l’argomento, finalmente, sta emergendo. Ciò che ancora manca, però, sono gli strumenti giusti per permettere rappresentazioni autentiche, oneste e rispettose. Racconti che non deformino la verità, che non si limitino a spettacolarizzare il dolore, ma che sappiano restituire anche la bellezza della rinascita. Perché la transessualità non è una tragedia da esibire, ma una realtà da vivere, raccontare, e soprattutto comprendere nella sua naturalezza. Troppo spesso si sceglie di mostrare, quando invece si dovrebbe ascoltare e far vivere davvero quelle storie”.
Credi che il teatro possa essere un mezzo efficace per sensibilizzare sulle tematiche dell’identità di genere?
"Credo che il teatro sia uno dei mezzi più potenti per comunicare, proprio perché crea una connessione diretta e profonda tra attore e pubblico. Una connessione che, per quanto intensa, spesso si perde nel linguaggio del cinema. Quando l’attore sceglie di mettersi davvero in gioco, offrendo la propria emotività e la propria vulnerabilità, e quando, dall’altra parte, lo spettatore si concede la possibilità di mettersi in discussione e di restare in ascolto, allora accade qualcosa di straordinario. È lì che il teatro smette di essere solo rappresentazione e diventa esperienza viva, trasformativa. Un atto di reciproca fiducia che può cambiare lo sguardo sul mondo”.
Dopo questa esperienza, quali sono i tuoi progetti futuri? Ti piacerebbe continuare a portare in scena storie simili?
"Mi piacerebbe molto continuare a raccontare storie e dare vita ad altri personaggi, non necessariamente legati al tema della transessualità. Perché io non sono solo la mia identità. Sono un insieme complesso di emozioni, esperienze, sfumature. Sarei curioso di esplorare personaggi lontani da me, di sperimentare nuove vite, nuove verità. Il teatro ha questa magia: ti permette di diventare altro, di attraversare mondi e restituirli con autenticità. E io sento il desiderio di dipingere nuovi orizzonti, anche in colori che non mi appartengono. Non so ancora se questa sarà davvero la mia strada. Ma di una cosa sono certo: mi piacerebbe lavorare nel teatro, indipendentemente dal fatto che io sia sul palco o dietro le quinte. Il teatro mi ha cambiato, mi ha rivelato parti di me che non conoscevo. E ora sento il bisogno di piantare qui le mie radici”.