Quando l’Arabia Saudita ha iniziato a investire di prepotenza sul calcio e a strappare alcuni tra i più grandi campioni europei, la sensazione era duplice. Da una parte è sembrata evidente la strategia: una occidentalizzazione di vetrina, nonché un investimento “furbo” – se così si può definire - per attirare turismo, quindi ancora più soldi e notorietà. Dall’altra parte, il pensiero più malizioso, è stato che il calcio sarebbe stato concepito più come intrattenimento che come sport del Paese, e in questo senso avrebbe avuto come obiettivo primario quello di divertire, di sollazzare i “tifosi” sugli spalti (sceicchi in primis), più di quanto non lo faccia già in Europa. Per la serie: creo un grande stadio (una grande arena se vogliamo cogliere un precedente storico), e ci metto dentro i migliori giocatori al mondo, li ricopro di soldi e fama, ma devono vincere e farmi godere.
Ma se chi guarda non si diverte e si indispettisce che succede? Cosa può succedere in un Paese dove molti dei diritti umani vengono violati? Lo abbiamo visto nella finale di Supercoppa, dove un giocatore dell’Al-Ittihad Abderrazak Hamdallah, alla fine della partita vinta dalla squadra avversaria, l’Al Hilal, si è beccato due frustate. Il motivo all’origine delle tensioni tra il giocatore – che ha tirato dell’acqua verso la tribuna – e il tifoso, perde di importanza alla luce di quella che è stata la reazione aberrante.
Certo, anche in Europa – soprattutto in Italia - accade che lo stadio si trasformi in un’arena, che le tifoserie dimentichino il buon senso e la civiltà, e manifestino la loro scontentezza mancando di rispetto a chi sta in campo, ma la differenza – che comunque non giustifica né gli uni né gli altri sia chiaro – sta nella concezione del limite superabile. Qui si è andato così oltre che non c’è ricchezza che tenga.