L’otto marzo, di per sé trasformata in ennesimo monumento al consumismo, è una data fake per quanto riguarda la ricostruzione storica. La tradizionale attribuzione della ricorrenza al tragico episodio in cui, nel 1908, più di cento operaie della Cotton di New York morirono in un rogo devastante, va corretta con l’episodio altrettanto terrificante accaduto il 25 marzo dell’1911 in cui persero la vita in analoga circostanza moltissimi dipendenti, dei quali l’80% erano donne.
Da allora l’Occidente sviluppato ha mostrato un certo impegno almeno teorico sul piano della sicurezza, ma con risultati pratici non sempre apprezzabili. In realtà, come spiega Benedetta Mellace, ingegnera di Prato, impegnata da anni nel settore della tutela dei luoghi di lavoro, la strada da percorrere è ancora molto lunga perché le difficoltà intrinseche, i costi, le politiche e l’arretratezza nella produzione di attrezzature tecnologiche e meccaniche, volte esclusivamente a un’utenza di sesso maschile, pongono ancora non pochi ostacoli.
Per Mellace, che ha girato il Pianeta prestando per decenni le sue competenze a multinazionali di rilevante importanza mondiale, l’8 marzo “è un giorno come un altro”, una festa priva di autentico significato perché contraddice non solo il momento tragico a cui si riconduce, ma è la pantomima, la recita posticcia di un comportamento che ogni donna si aspetterebbe ogni giorno , come cosa assolutamente normale.
Forse per questo bisognerà ancora lottare, aggiunge l’ingegnera, che tra i tanti compiti svolti annovera una lunga collaborazione professionale con l’Ospedale Careggi di Firenze. Dopo aver toccato numerosi continenti della terra, tra cui Africa, Stati Uniti e naturalmente Europa, Benedetta Mellace prosegue adesso la sua attività per una nota azienda toscana con lo spirito indomito della lottatrice e quel raro fascino prodotto dall’alchimia capace di fondere polso di ferro a un’amabile femminilità.
Benedetta, che significato ha, per lei, l'otto marzo?
“Lo considero un giorno come un altro per il semplice fatto che pur evocando un episodio tragico del passato, per di più in modo inesatto, è ormai ridotto a una ‘festa’ piuttosto ipocrita e riduttiva: il rispetto verso le donne deve essere un principio di quotidiana normalità. Quindi ricorrenze simili mancano a mio avviso di naturalezza e sincerità e, da tempo, si sono ridotte a mere speculazioni commerciali, a cominciare dal taglio delle mimose che non condivido affatto. I modi per testimoniare apertura verso parità di diritti e inclusività sono ben altri, perciò il contentino di un solo giorno è ridicolo e non significa niente al cospetto delle violenze e dei soprusi cui assistiamo giornalmente”.
Sono stati fatti passi avanti per impedire il ripetersi di quella tragedia del 1911?
“Senza dubbio nel mondo del lavoro di oggi c’è un’attenzione molto più spiccata rispetto al passato, tanto in tema di sicurezza che di maggiore inclusione ai fini di un generale miglioramento delle condizioni di lavoro. Uno degli argomenti topici della sicurezza è la movimentazione dei carichi. Regolamentare questo peculiare aspetto può rivelarsi vantaggioso non solo per le donne ma anche per gli uomini, in un’ottica inclusiva e razionale. Inoltre vorrei sottolineare come la maggior parte delle attrezzature non siano ancora immaginate a misura di donna, semplicemente per il fatto che un tempo certi ambienti lavorativi erano ad esclusivo appannaggio del sesso maschile. I pregiudizi sono sempre duri a morire. Sapete quante volte, nonostante la mia qualifica professionale di ingegnere, vengo chiamata ‘signora’? Un dettaglio non privo di significato che forse aiuta a far dedurre come mai si continuino a progettare macchine pensate e fabbricate da uomini per gli uomini”.
La sicurezza nei luoghi di lavoro è un’emergenza di carattere prioritario nel nostro Paese?
“Sulla carta è un’emergenza prioritaria. D’altro canto ci sono cose che andrebbero privilegiate come il contenimento dei costi, sempre molto rilevanti tanto per le aziende grosse che per le più piccole. Fare sicurezza in modo serio costa parecchio, quindi occorrerebbero adeguate politiche di sostegno. La verità è che l’intera questione sembra spesso astratta, finché tutto va bene. Purtroppo quando succede il peggio e magari qualcuno ci rimette la vita, le cose assumono ben altra dimensione. A quel punto è tardi ed è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Un quadro simile è sotto i nostri occhi all’ordine del giorno”.
Vogliamo parlare del disastro del cantiere a Firenze?
“Eventi del genere non accadono mai per una ragione sola. A concorrere è una serie di cause che si intersecano a catena a formare quel modello noto come ‘formaggio svizzero’, teorizzato da James Reason nel ’90. L’autore della tesi ha considerato come ogni buco rappresenti l’ipotetico errore umano, il guasto di un'attrezzatura, oppure la mancanza di manutenzione: tutti elementi responsabili di possibili incidenti sul lavoro. Quando più concause si inanellano riempiendo i buchi del modello accade l’inevitabile. A quel punto si cercano le responsabilità. La legge offre strumenti di prevenzione e di regolamentazione , perciò le colpe verranno stabilite da un magistrato inquirente mentre il verdetto spetterà a un giudice. Chi invece si occupa di sicurezza avrà il compito di investigare sul comportamento dei vari soggetti e sul perché di certe loro scelte. Va detto che l’errore umano è preponderante anche se va inserito in un contesto di cause e responsabilità molteplici. Gli elementi da prendere in considerazione sono davvero tanti: il materiale, la costruzione, la messa in opera… L’essenziale è risalire alle cause tecniche, le sole a poter rispondere ai tanti perché”.
Quali sono, oggi, le categorie più esposte anche per quanto concerne la parità di genere?
“Specialmente le donne e tutti quei soggetti che trovano difficoltà a causa del loro orientamento sessuale. Quindi il compito principale consiste nell’abbattere barriere, discriminazioni e pregiudizi. Il posto di lavoro deve possedere tutte le caratteristiche dell’inclusività perché proprio la competenza sinergica di ognuno si rivela in molti casi decisiva nel prevenire episodi che espongono potenzialmente al pericolo. In ogni caso essere professionali implica innanzitutto quella interdipendenza dei ruoli che garantisce sempre livelli di maggiore sicurezza”.
La sua professione di ingegnera è stata mai motivo di discriminazione?
“Assolutamente, e questo è accaduto in molte occasioni e contesti. I pregiudizi, soprattutto agli inizi, quando scoprivano di avere a che fare con un ingegnere donna, sono stati numerosi. Era un ruolo prettamente maschile che sembrava escludere la possibilità di una svolta. Ma ho vinto io, o meglio a vincere sono stati l’impegno e la serietà profusi nel mio lavoro. Ricordo ancora con imbarazzo quello che mi è capitato in Tunisia, avevo 32 anni. Mi trovavo in pieno deserto, a diverse ore dal centro abitato: per raggiungere il bagno delle donne dovevo percorrere a piedi ben due chilometri, la distanza che mi separava dalla palazzina principale. Ero ben consapevole delle differenze culturali, ma non ho potuto fare ameno di avvertire lo spiacevole peso di quella imposizione tutte le volte che ho rischiato di non arrivare in tempo!”.
Che mondo immagina per il futuro?
“Auspico che si conquisti una più spiccata sensibilità nell’aprire l’accesso ai posti di lavoro, indipendentemente dal sesso o da orientamenti di qualsiasi altro genere affinché ciascuno possa realizzarsi appieno. In punto di sicurezza spero che vengano abbattute tutte le barriere anche di natura tecnologica per dare accesso alle diverse posizioni lavorative e alle relative competenze in modo che venga offerta a ogni persona la possibilità di concretizzare i propri sogni. Sono certa che cambiando approccio e modello culturale potremo assistere finalmente a un grande miglioramento delle cose”.