8 marzo, è una Festa per la donna? I 70 anni di lotte per i diritti

Nella giornata internazionale della donna un excursus sulle conquiste fatte e le battaglie ancora da portare avanti Dal voto al divorzio, dall’accesso alle professioni all’aborto, fino alle conquiste in termini di retribuzione e congedi parentali. Ma la parità è ancora lontana

di DOMENICO GUARINO -
8 marzo 2024
La lotta delle donne negli scatti di Tano d'Amico

La lotta delle donne negli scatti di Tano d'Amico

La strada per un’effettiva parità di genere è ancora lunga. Ma certamente, se si guarda indietro anche solo di qualche decennio, le conquiste in termini di diritti delle donne appaiono notevoli. Leggi, pratiche, riconoscimenti, percorsi conquistati a costo di lotte, anche dure, con una determinazione ferrea e talvolta a costo di enormi sacrifici.

In occasione dell’8 marzo è bene dunque ripercorrere questo compendio di storia patria che ha cambiato profondamente il volto del nostro Paese, riconoscendo alle donne diritti precedentemente negati.

70 anni di battaglie per i diritti delle donne 

A partire da quello del voto, una pratica democratica basilare che le donne donne si sono viste riconoscere solo dopo la liberazione dell'Italia dal nazifascismo, e poi, definitivamente, con la Costituzione italiana. È infatti nel 1945 che il passa un decreto che consentirà alle donne di almeno 21 anni (maggiorenni) di votare alle elezioni politiche. L’anno dopo viene concesso anche il “voto passivo”: da quel momento anche le donne (di età superiore a 25 anni) possono presentarsi alle elezioni, essere votate ed elette.

Sulla scorta di questo duplice riconoscimento, il 2 giugno del 1946 le donne voteranno al Referendum istituzionale (monarchia/repubblica) e per l’Assemblea costituente, eleggendo una piccola ma significativa pattuglia di rappresentanti: nove della DC, nove del PCI, due del PSIUP e una dell’Uomo qualunque. Del resto, già nelle elezioni amministrative precedenti avevano votato, risultando in numero discreto elette nei consigli comunali.

Manifestazione di donne in occasione dell'8 marzo
Manifestazione di donne in occasione dell'8 marzo

A quel punto le donne potevano votare ma non era loro consentito l’accesso a tante professioni o ruoli, riservati esclusivamente al genere maschile. Del resto, ancora in quegli anni, un parlamentare, il deputato Antonio Romano, era solito affermare: “La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola”. Romano ce l’aveva in particolare contro l’ipotesi che le donne potessero essere nominate giudici o magistrati: “Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna – affermava, dando voce ad un pregiudizio ancora molto diffuso – ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche”.

Sta di fatto che solo nel 1963, con la legge n. 66, il Parlamento italiano ammette la donna “ai pubblici uffici ed alle professioni” con soli due articoli. Articolo 1: “La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura”.

Ma resta “Angelo del focolare” dunque e, ovviamente, moglie. Ragion per cui il ruolo sociale della donna era inestricabilmente legato a quello dell’uomo-marito. Fino a quando, nel 1970, contemporaneamente a Paesi come Spagna, Portogallo, Repubblica d’Irlanda e Malta, anche in Italia viene concesso e regolamentato lo scioglimento del matrimoni: il divorzio venne infatti introdotto a livello legale il 1° dicembre di quell’anno, nonostante l’opposizione della Democrazia Cristiana. L’iter giuridico era di 5 anni, ridotti a 3 nel 1987.

In quell’occasione, pronunciando uno dei suoi più significativi discorsi, l’onorevole Nilde Iotti, affermò:

“Per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna – in ogni tempo, ma soprattutto, direi, nel mondo di oggi – essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più, per le ragioni prima illustrate, il fondamento morale su cui si basa la vita familiare”.

Quattro anni più tardi, nel 1974, un referendum chiesto dagli oppositori alla legge, affermò la volontà della maggioranza della popolazione di mantenere la legge in vigore. Nonostante la facoltà di sciogliere il matrimonio, è solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, che si stabilisce parità tra i coniugi che diventano così uguali davanti alla legge.

Con essa verrà approvato il passaggio dalla potestà del marito alla potestà (la cosiddetta “responsabilità genitoriale”) condivisa dei coniugi; l’eguaglianza tra coniugi (si passa dalla potestà maritale all’eguaglianza tra coniugi); regime patrimoniale della famiglia (separazione dei beni o comunione legale/convenzionale); revisione delle norme sulla separazione personale dei coniugi (il tradimento del marito può essere causa legittima di separazione).

In più si abbassò l’acquisizione della maggiore età da 21 a 18 anni. Qualche anno prima, nel 1950, era stata approvata approvata una legge per vietare il licenziamento di una madre fino al primo anno del bambino e introdotto il trattamento economico dopo il parto. Mentre nel 1963 si dichiarano nulle le cosiddette “clausole di nubilato” nei contratti di lavoro.

Altra tappa fondamentale nel cammino dell’emancipazione femminile sono le norme per la “tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, la famosa Legge 194 che ha disciplinato le modalità di accesso all’aborto, approvata nel maggio del 1978. Ma non basta, l’art. 587 del codice penale consentiva che fosse ridotta la pena a chi uccideva la moglie (o il marito, nel caso a essere tradita fosse stata la donna), la figlia o la sorella solo per difendere “l’onor suo o della famiglia”, il famoso ‘delitto d’onore’. Questo abominio giuridico viene abolito solo nel 1981, con l’abrogazione della legge corrispondente. Nello stesso anno viene abolito anche l’istituto del matrimonio riparatore, per cui uno stupratore poteva evitare la condanna se avesse sposato la sua vittima.

Bisogna poi attendere il 2010, con il decreto legislativo 5 del 25 gennaio 2010, per arrivare ad una (iniziale e tutt’altro che completata) reale parità retributiva tra lavoratrici e lavoratori. Nello stesso decreto le aziende vengono incentivate con sgravi fiscali a promuovere orari di lavoro flessibili; viene rivista la normativa vigente sul congedo parentale per incentivare il ritorno della donna in ufficio e sono introdotti incentivi per promuovere l’imprenditoria femminile, sanzioni contro le molestie sessuali e la disparità di trattamento sul lavoro.

Empowerment femminile
Empowerment femminile

L’anno successivo è la volta delle ‘quote rosa’ nei consigli di amministrazione: la legge 12 luglio 2011 n. 120 impone infatti che negli statuti delle società quotate sia previsto che il riparto degli amministratori da eleggere assicuri l’equilibrio tra i generi, con almeno un terzo degli amministratori eletti. Nel 2009 arriva la legislazione sullo stalking (inserito nel codice penale all’’art. 612-bis tra i delitti contro la libertà morale), e nel 2013 il decreto legge contro il femminicidio e la violenza sulle donne, che prevede l’aumento di un terzo della pena se alla violenza assiste un minore, se la vittima è in gravidanza, se la violenza è commessa dal coniuge (anche se separato) e dal compagno (anche se non convivente) e prevede l’arresto obbligatorio in caso di maltrattamento e stalking in caso di flagranza.

Settant’anni, dunque, per passare dal diritto di voto alla protezione contro la violenza di genere. Una strada lunga, tormentata, ma virtuosa, che si è percorsa grazie ad attiviste e da attivisti che, tra mille difficoltà e pregiudizi, hanno affermato via via principi di semplice civiltà, precedentemente negati. È a loro che bisogna pensare quando si festeggia l’8 marzo, perché senza il loro impegno, questa data sarebbe molto più amara di quanto ancora non lo sia, considerando la strada che deve essere ancora percorsa.