C’è chi tende la mano alle donne dal 1902. La Fondazione Asilo Mariuccia, sul campo per aiutarle “a sognare qualunque cosa vorranno”

La FAM sostiene bambine e ragazze vittime di abusi e a rischio di esclusione sociale. In 122 anni ha accolto circa 5.700 persone e ogni anno ne transitano circa 200. La direttrice Valentina Boccia: “Le donne devono essere libere come pensiero, non solo da un punto di vista fisico”

di EDOARDO MARTINI
24 marzo 2025
La Fondazione Asilo Mariuccia, in campo dal 1902

La Fondazione Asilo Mariuccia, in campo dal 1902

Disagio, paura e preoccupazione. Sono questi gli stati d'animo più frequenti nelle donne che hanno subito delle violenze. E chiariamo subito. Queste forme non riguardano soltanto alcune minoranze. Anzi, alcune manifestazioni di dominio sono un esercizio quotidiano, così abituale che spesso risulta invisibile.

Negli ultimi anni è stato necessario un lungo cammino per riconoscere comportamenti che possono essere definiti violenti e, solo ultimamente, si è arrivati a comprendere quanto grave e radicato nel nostro Paese sia il fenomeno della violenza di genere. Basti pensare che, secondo i dati di Openpolis, quasi una donna su tre ha subito violenza di genere nella sua vita. Si tratta del 31,7%. Numeri che fanno indubbiamente riflettere e per i quali è necessaria un'inversione di tendenza al più presto possibile.

Al giorno d'oggi la violenza domestica è la forma più comune, ma non è l'unica. A farle compagnia c'è quella psicologica, sessuale ed economica. Tutte manifestazioni che portano ad un’umiliazione e a uno svilimento profondo della donna che molto spesso non riesce neanche a denunciare i fatti perché immobile di fronte a questi soprusi. Come aiutarle? Sicuramente la prevenzione è importante su chi agisce la violenza, ma anche sulle potenziali vittime, insegnando loro a sapere riconoscere il proprio valore e il diritto ad essere rispettate. 

La Fondazione Asilo Mariuccia

La direttrice generale di Fondazione Asilo Mariuccia Valentina Boccia
La direttrice generale di Fondazione Asilo Mariuccia Valentina Boccia

Ma c'è chi oltre a questo fa molto di più. Stiamo parlando della Fondazione Asilo Mariuccia che dal 1902 “recupera” bambine e ragazze vittime di abusi e a rischio di esclusione sociale portandole addirittura a una nuova condizione di vita, dove il cardine è l'automantenimento attraverso un lavoro. E della storia della Fondazione, delle sue principali attività, di quante donne si rivolgono a loro per chiedere aiuto e di come è cambiato il fenomeno della violenza di genere con i social media ci parla la sua direttrice Valentina Boccia che a Luce! ha svelato anche i prossimi obiettivi dell'organizzazione.

La storia della Fondazione e le sue principali attività 

La vostra Fondazione è nata il 14 dicembre 1902. Siete a 122 anni di storia. Ce la racconti un po'?

”La storia della Fondazione è una storia di stampo prettamente milanese. È nata su iniziativa di un gruppo di donne femministe che a quei tempi avevano preso a cuore la questione delle bambine ai margini della società, senza famiglia che venivano abbandonate in strada all'unico impiego di quell'epoca che era quello delle case di prostituzione. Questo insieme di femministe, tra cui la nostra fondatrice Ersilia Bronzini, hanno fondato il gruppo che inizialmente aveva preso il nome di Unione Femminile e che portava avanti tutta una serie di battaglie per l'emancipazione e la tutela delle donne. All'interno di questo contesto è nata l'idea di creare un asilo, inteso proprio come rifugio, per tutte queste bambine che erano un'emergenza cittadina e che rimanevano ai margini della società senza nessuno sbocco. Questo asilo, chiamato Asilo Mariuccia, prese il nome dalla figlia deceduta di Ersilia Bronzini. Da lì è partita quest'opera, che era un'opera legata soprattutto all'accoglienza e alla rieducazione di tutte queste ragazzine affinché potessero essere riaccompagnate verso una strada che gli permettesse un percorso di autonomia. Quest'ultime all’interno dell’asilo cominciavano a studiare fino a quando non diventano autonome, con un lavoro e con la possibilità di scegliere la propria vocazione. Da allora la strada è stata lunga. La Fondazione è sopravvissuta ininterrottamente per oltre 100 anni. Non ci sono mai stati dei blocchi del servizio. Si sono modificati nel tempo i tipi di bisogno e anche la risposta che la Fondazione ha potuto dare. Ci sono stati momenti dove quest'ultima ha avuto una maggioranza di ospiti giovani, c'è stato un periodo nel quale c'erano sia comunità maschili, sia femminili. Insomma, si è trasformata nel tempo e oggi dà risposta a una doppia linea di bisogno: quella delle donne vittime di violenza da un lato e quella dei minori in carico ai servizi sociali che non hanno una rete familiare stabile dall'altro“. 

Quali sono le vostre principali attività?

“Da un lato facciamo un percorso di presa in carico delle donne vittime di violenza partendo dal centro antiviolenza e dalle case rifugio. Poi abbiamo le comunità mamma-bambino all'interno delle quali vengono accolti i nuclei di quest'ultimi che hanno bisogno di un supporto educativo. Ma anche dei servizi con un supporto educativo più leggero. Abbiamo anche inaugurato cinque appartamenti di housing sociale che è un altro tipo di servizio, diverso dagli alloggi precedenti. Si tratta di un servizio di residenzialità leggera che va a rispondere ad un bisogno essenzialmente di casa. E lo vediamo perché questo tipo di bisogno lo abbiamo toccato con mano. Oltre a questi, ci sono i servizi che abbiamo sui minori. Nell'area varesina abbiamo in accoglienza 30 minori suddivisi tra due comunità e quattro alloggi. Si tratta di minori non accompagnati che a 18 anni dovranno lasciare i servizi della Fondazione e che quindi devono arrivare al compimento del 18esimo anno con qualcosa in mano. Dobbiamo aiutarli a saper badare a loro stessi altrimenti ricomincia il vortice dei servizi sociali. E questo non deve capitare. Se i ragazzi vengono portati da noi a 15/16 anni, abbiamo almeno un paio di anni per fare con loro un lavoro di alfabetizzazione e formazione. Noi abbiamo dei ragazzi che avendo vissuto in strada, hanno fatto il viaggio della speranza e che quindi non hanno neanche idea delle regole basi, dell'educazione civile in un mondo occidentale. Quindi magari non hanno mai conosciuto la forchetta. Sono tutte situazione che vanno colmate nel minor tempo possibile. L'obiettivo è che quest'ultimi riescono a costruirsi un futuro da cittadini italiani“.   

Ogni anno circa 200 persone si rivolgono all'Asilo Mariuccia 

Se dovesse fare un ritratto delle donne che si rivolgono a voi quale sarebbe? 

“Innanzitutto, dobbiamo fare una distinzione. Ci sono delle donne che si rivolgono direttamente a noi attraverso i servizi dell'antiviolenza. Abbiamo il collegamento diretto con il 1522 e quindi riceviamo le telefonate che vengono fatte proprio in situazioni di emergenza. E queste sono donne che sono in uno stato di violenza vissuta in quel momento e che stanno chiedendo un aiuto per uscirne. Poi ci sono le altre donne che si rivolgono a noi attraverso la mediazione dei servizi sociali. Loro ci permettono così di conoscere in anteprima chi poi sarà la persona che verrà inserita nei nostri servizi. Sono essenzialmente donne che hanno subito una violenza di qualsiasi tipo: fisica, psicologica ma soprattutto economica. Le donne sono chiaramente le più vulnerabili al controllo da parte degli uomini maltrattanti. Tutte queste hanno una scarsissima conoscenza del fatto di poter uscire da una condizione di indigenza contando sulle proprie forze perché hanno vissuto una sottomissione economica per tantissimo tempo. E questa è stata la catena che le ha tenute per molti anni legate ad un uomo maltrattante“.  

E in termini di numeri? Ad esempio: quante donne e bambini avete accolto fino ad oggi? Più o meno in un anno quante tra donne e bambini riuscite a “salvare”?

“La Fondazione dall'inizio della sua operatività ad oggi ha accolto circa 5.700 persone. Ogni anno transitano dai nostri servizi circa 200 persone. Abbiamo comunque un bel punto di osservazione su quel che è lo stato del bisogno sia da parte delle donne sia da parte dei minori“.

Cosa direbbe ad una donna che non denuncia la violenza per paura delle ritorsioni da parte dell'autore? 

“I servizi di protezione sono molto seri e in Italia ne abbiamo di ottimi. Gli strumenti sono molteplici. Ci sono tantissime unità all'interno delle forze dell'ordine molto ben addestrate che in questo momento possono accompagnare veramente una donna che vuole uscire da una spirale di violenza verso una vera libertà. Le direi che non è un percorso facile. Che è chiaramente un percorso che lascerà indietro qualcosa. Che la costringerà a tagliare delle relazioni, anche familiari con dei paranti. Le direi però che se ci sono di mezzo dei figli, è un dovere morale quello di abbandonare e stroncare queste relazioni tossiche che le stanno logorando e che stanno incidendo inevitabilmente sulla crescita dei piccoli“.  

Come è cambiata la violenza di genere con l'arrivo dei social media

Quali sono le principali difficoltà nel guidare le donne verso una nuova condizione di vita e, prendendo in prestito le vostre parole, addestrarle per un mestiere? 

“Le difficoltà sono tante. I percorsi non sono mai lineari. Il bello della variabilità umana è che le soluzioni che hanno funzionato su una persona a volte non funzionano su altre. E che invece alcuni canali di comunicazione che in un primo momento avevamo escluso perché non li ritenevamo efficaci possono diventare il gancio per poi fare un lavoro vero con queste persone. La vera difficoltà è creare in loro la consapevolezza della violenza che hanno subito. Ci sono delle violenze che sono state perpetuate per molti anni prima che questa persona si rendesse conto che la situazione non era normale. Che quel vissuto all'interno delle mura domestiche era un vissuto che non doveva verificarsi verso nessuno. Dopodiché il secondo lavoro difficilissimo da iniziare a fare con queste persone è far sì che si fidino di noi. Una volta fatto il primo lavoro di consapevolezza e quindi una volta che una persona si è resa conto di aver sbagliato la propria misura, allora noi cosa abbiamo in più rispetto agli altri affinché poi siamo le persone che stiamo operando a fin di bene. Questo è un tema fortissimo perché loro poi si devono fidare di noi. Si devono fidare di tutto il sistema, di tutto lo stato sociale che in quel momento si sta facendo carico di questa persona, da un punto di vista educativo e da un punto di vista economico. E loro devono in questo modo riconoscere anche che esiste la possibilità di un cambiamento, ma che devono essere loro ad accettarlo e a volerlo, fidandosi delle persone che hanno davanti. Se loro non si fidano di noi difficilmente riusciremo ad ottenere qualcosa. Per il fatto di addestrarle per un mestiere, il lavoro è uno degli obiettivi, dei progetti educativi che noi iniziamo con le persone che entrano all'interno dei nostri servizi perché tutto il percorso deve essere finalizzato all'autonomia. Quindi chi esce dai servizi di Fondazione Asilo Mariuccia deve non rientrarci più. Dopo aver dato un'impostazione alla vita distrutta di queste persone il focus è sul lavoro. Lavoro che per loro è un riscatto personale. È una possibilità, per la prima volta nella loro vita, di mantenere se stessi e i loro figli. E' il momento nel quale si giocano la loro chance di salvarsi. Noi come Fondazione accompagniamo tutte le nostre donne verso un percorso di autonomia lavorativa. Abbiamo da poco iniziato un grosso progetto, chiamato Electra, legato all'empowerment delle donne vittime di violenza. E' un progetto che prevede una formazione di base, passando poi ad una formazione più specialistica fino ad arrivare ad un tirocinio lavorativo. Quindi un accompagnamento passo passo verso un mondo esterno. Questo progetto poi si conclude con la possibilità, per chi avesse tutte le caratteristiche giuste, di accedere ad un microcredito. Quindi alla possibilità di finanziare una piccola attività. E che questo microcredito non sia una somma messa in mano a vuoto sulla fiducia, ma sia un investimento anche sulle proprie capacità di ripagare tutto ciò“. 

La violenza di genere è sempre esistita. Come è cambiata con l'arrivo dei social media? Quest'ultimi hanno amplificato questo fenomeno? 

“Su questo argomento ci siamo interrogati anche noi in Fondazione. La violenza di genere è sempre esistita. Cambiano i mezzi ma la violenza è sempre la stessa. La violenza vera e propria, quella fisica, non conosce stagione. Quindi con o senza cellulare, con o senza Facebook, è da sempre una piaga sociale. Quello che effettivamente vediamo noi è che i social media necessitano un'educazione per poter essere gestiti con intelligenza e per non amplificare ulteriormente queste situazioni. Noi vediamo che ci sono degli strumenti in mano ai giovanissimi che sono delle armi potentissime. Basti pensare alla geolocalizzazione, alla condivisione delle storie su Instagram o Facebook che è in realtà un'arma che viene data a qualcuno che vuole sapere dove sei, che ti vuole vedere, che ha capito che sei con quell'amica. Questi temi richiedono un'educazione profonda che adesso viene fatta nelle scuole. C'è però un tema forte, nel senso che nel momento che al ragazzino viene messo in mano un telefonino devono essergli dati anche le istruzioni d'uso. Anche perché i social, ma anche lo stesso telefono, sono un modo positivo per condividere i propri pensieri, per comunicare e per farsi conoscere“.  

I prossimi obiettivi 

Negli ultimi anni avete svolto interventi importanti per incrementare la qualità dei servizi della Fondazione. Quali sono i vostri prossimi obiettivi? 

“In primis quello di creare, oltre alle comunità, un polo multiservizi per i giovani del territorio alla nostra struttura di Porto Valtravaglia che deve comunque essere riqualificata. Questa scelta è stata portata avanti dal Consiglio con un forte intento sociale. E' una scelta che va nella direzione della nostra Fondatrice. L'idea è proprio quella di rispondere ad un bisogno sempre più emergente. In questo momento ci siamo accorti che il disagio giovanile è un'urgenza profondissima. I nostri ragazzi non hanno luoghi aggregativi, non hanno nessuno che dopo le scuole vuole investire su di loro. Mentre l'obiettivo ambizioso di questo progetto è quello di creare un centro diurno, una grossa palestra, quattro laboratori di educazione al lavoro. Nel frattempo poi, abbiamo l'idea, la voglia, il desiderio e l'impegno di far fronte all'emergenza legata alla violenza di genere. Abbiamo il nostro centro antiviolenza che ha iniziato a lavorare nel corso del 2024 e che adesso sta facendo registrare numeri importanti. Abbiamo le case rifugio e poi abbiamo il tema della formazione. Quindi l'idea di portare il metodo Mariuccia un po' all'esterno, attraverso quelle che vengono definite opere di diffusione culturale. Entrare in quei contesti dove finalmente si parla di contrasto alla violenza di genere come le scuole, i municipi, le aziende e le biblioteche. Entrare e dire le cose per quelle che sono. Riconoscere la violenza per quella che è. Riconoscere che una battuta sessista è uno strumento di violenza. E' uno strumento che mette le donne sempre su un gradino inferiore rispetto agli uomini. E che quindi la questione del linguaggio, delle consuetudini, del patriarcato inteso come definizione di ruoli, sono tutti concetti che noi dobbiamo superare. Sono barriere che dobbiamo, per forza di cose, abbattere. Proprio perché le nuove generazioni devono vivere in un mondo completamente diverso. Dove le donne possono sognare di essere qualunque cosa loro vorranno, con o senza un compagno. Facendo il mestiere che vorranno e scegliendo se occuparsi della loro casa o meno. Insomma libere, ma libere anche come pensiero, non solo da un punto di vista fisico“.