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Home » Attualità » Proposta di matrimonio in aereo, la hostess Veronica: “Alejandra, mi vuoi sposare?”

Proposta di matrimonio in aereo, la hostess Veronica: “Alejandra, mi vuoi sposare?”

La donna aveva preparato tutto nei minimi dettagli con la complicità dei suoi colleghi. E non è un caso se la proposta di matrimonio sia stata fatta nel mese del Pride

Edoardo Martini
21 Giugno 2022
La proposta di matrimonio in aereo della hostess Veronica Rojas alla compagna Alejandra Moncayo

La proposta di matrimonio in aereo della hostess Veronica Rojas alla compagna Alejandra Moncayo

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Una proposta di matrimonio in volo. È la scena accaduta sull’aereo della Alaska Airlines quando l’assistente di volo Veronica Rojas si è inginocchiata chiedendo in sposa la sua fidanzata. Una proposta alla quale la giovane Alejandra Moncayo non ha esitato rispondendo subito di sì.

L’amore ricambiato delle due future spose

Veronica Rojas, hostess da due anni presso l’Alaska Airlines, aveva progettato tutto nei minimi dettagli e infatti i suoi colleghi erano suoi complici. La donna ha aspettato che il velivolo atterrasse all’aeroporto di Los Angeles per farle la proposta di matrimonio di fronte a tutti i passeggeri. Veronica ha deciso di chiederle la mano proprio a giugno perchè si tratta del mese del Pride. L’aereo è infatti stato allestito con delle decorazioni chiamate “Pride in the Sky“.

La compagna di Veronica si chiama Alejandra Moncayo e le due donne sono fidanzate da 2 anni. Si sono conosciute proprio a Los Angeles, dove è stata fatta la proposta di matrimonio. Una volta che l’aereo è giunto al Gate, prima che potessero scendere tutti, Veronica ha preso il microfono ed ha dichiarato il suo amore alla compagna chiedendole la mano. Il sì di Alejandra è arrivato senza esitazioni di fronte al personale di bordo e ai passeggeri visibilmente emozionati.

La giovane hostess ha poi confessato che la fidanzata era intenzionata a farle la medesima proposta proprio una volta atterrate a Los Angeles, città che aveva fatto da sfondo al loro amore.

Pride Month: il significato del nome e perché si festeggia a Giugno

Giugno è diventato ufficialmente il mese del Pride da quando negli Stati Uniti il presidente Bill Clinton lo ha riconosciuto per la prima volta nel 1999.

Tutto cominciò quando otto poliziotti (dei quali solo uno in uniforme) entrarono nello Stonewall Inn, un bar gay in Christopher Street, nel Greenwich Village, un quartiere del distretto di Manhattan a New York.  Il verbale dell’epoca recita che non tutti vennero arrestati in quel bar, ma solo “coloro i quali si trovavano privi di documenti di identità, quelli vestiti con abiti del sesso opposto, e alcuni o tutti i dipendenti del bar“. Ai tempi le incursioni della polizia nei bar gay e nei night club erano frequenti. Ma quella notte passò alla storia perché tale incursione provocò un moto di ribellione da parte degli avventori, i quali reagirono contro il raid dichiaratamente discriminatorio.

Da qui all’organizzazione del pride il passo è stato breve. A Chicago il 27 giugno 1970, l’associazione Chicago Gay Liberation organizzò una marcia che partiva da Washington Square Park per arrivare al Richard J. Daley Center Venne scelta quella data per ricordare i moti di Stonewall dell’anno precedente ma anche per ottenere più visibilità dal momento che era un sabato (l’ultimo sabato di giugno) e quindi sarebbe stata più forte la presenza del pubblico ai negozi di Michigan Avenue, che avrebbero notato un gruppo di persone in marcia per i propri diritti. Da qui in poi, in tutto il mondo venne scelto l’ultimo sabato di giugno per organizzare le parate.

Lo stesso giorno venne realizzata una parata a New York (la “Christopher Street Liberation Day”). Del comitato organizzatore fece parte anche e soprattutto Brenda Howard, una donna bisessuale, che ebbe un ruolo decisivo nel lavoro di coordinamento e preparazione, tanto da essere considerata, per il ruolo decisamente carismatico, “la madre del Pride“.

Proprio da questa attestazione va rintracciata la trasformazione del termine “pride” nel corso degli anni. Nella sua forma originale, la parola “pride” aveva una connotazione negativa, intesa come “presunzione” o “superbia”. Solo grazie ad attivisti come la Howard, Robert A. Martin Jr. e L. Craig Schoonmaker, che nel 1970, associando la parola “Pride” alle manifestazioni successive agli scontri di Stonewall, la trasformarono in “rispetto di sé”, “orgoglio”, per sfidare in modo definitivo il bigottismo e l’odio contro la comunità LGBTQIA+.

 

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  • Stando a quanto dicono gli studiosi, i social network sono portatori malati di ansia e depressione. E, diciamocelo, non servivano studi e numeri per capirlo. I più attrezzati di noi a comprendere le dinamiche social e sociali che si nascondono dietro l’algoritmo di Meta già da tempo avevano compreso che “social sì, ma a piccole dosi”.

Eppure la deriva c’è stata e adesso distinguere il virtuale dal reale, l’immagine dallo schermo, il like dall’affetto sembra essere diventata un’operazione assai difficile.

Il senso di inadeguatezza delle persone di ogni età sta dilagando. Pare che il meccanismo sia più o meno questo: l’erba del vicino – di account – è sempre più verde. 

Che poi nella realtà non è così poco importante. A importare è ciò che appare, non ciò che è, tanto da ridurre il dilemma “essere o non essere” a coltissimo equivoco elitario. Cogito ergo sum un po’ poco, verrebbe da dire, se non fosse che la faccenda è seria e grave. 

Lo stress da social è reale e affligge grandi e piccini, senza distinzione di ceto. Una vera e propria sofferenza psicologica che tende a minare le fondamenta dell’intera società. Tra il 2003 e il 2018, i casi di ansia hanno registrato numeri da record, così come quelli di depressione, autolesionismo e problemi di alimentazione. Questo basti per capire che limitarsi a catalogare il problema come questione minore è sbagliato e pericoloso.

Complice il recente lockdown, la corsa verso la psicosocialpatologia ha accelerato il passo. L’unica soluzione a portata di mano, seppur temporanea, è prendersi una pausa dai social e uscire dalla bolla, come Selena Gomez insegna. 

Vivere la vita vera, in Logout, fatta di persone in carne e ossa che di perfetto hanno poco o nulla e che combattono ogni giorno per cercare di assomigliare a ciò che vorrebbero essere. 

E tu quanto tempo passi sui social? 📲

Di Margherita Ambrogetti Damiani ✍

#lucenews #lucelanazione #socialout #viverelavita #nofilter #autoconsapevolezza #stressdasocial #socialdetox
  • Ad appena 3 anni e mezzo, Vincenzo comunica ai genitori il desiderio di indossare vestiti e gonne. Alla richiesta viene inizialmente, quanto inevitabilmente, dato poco peso, come se fosse un gioco… 

Ma 6 anni e mezzo dopo Vincenzo fa un coming out più deciso, chiede di potersi chiamare Emma e di indossare un costume femminile alle lezioni di danza, che condivide con le due sorelle maggiori. Pochi giorni fa, grazie anche alla comprensione e disponibilità della sua insegnante di danza, ha vissuto il suo momento di gloria, esibendosi in un saggio-spettacolo di fine anno costruito su misura, con una coreografia che racconta la sua storia.

La danza, si sa, può essere di grande aiuto per costruire la propria identità, perché è prima di tutto libertà di espressione. 

“Gli anni di pandemia sono stati decisivi per mia figlia. La riflessione è diventata sempre più profonda e, con sofferenza, lo scorso ottobre, è riuscita a parlarci di ciò che davvero le stava a cuore. Le prime sostenitrici sono state proprio le sorelle, più aperte e predisposte mentalmente su questa tematica. Noi genitori ancora pensavano a una latente omosessualità, ma non era così: per nostra figlia la propria identità di genere non coincideva con il sesso assegnatole alla nascita”.

I primi tempi non sono stati facili, per certi aspetti è stato come elaborare un lutto perché Emma volava cancellare tutto il suo passato, buttando via foto e vestiti. La sua è stata una rinascita vera e propria, il suo “no" al nome, al genere maschile, è ormai definitivo. 

A scuola, ha chiesto e ottenuto di potersi chiamare Emma, così come in società. Fondamentale è stato il supporto della famiglia che, a un certo punto, ha capito che non si trattava di un gioco, malgrado la giovanissima età.

“A chi tuttora continua a ripeterci che avremmo dovuto insistere e iscriverla a calcio, dico con fermezza: i figli vanno ascoltati, è giusto che vivano la loro vita, quella più congeniale al loro sentire, perché tutti meritiamo di essere felici”.

Di Roberta Bezzi ✍

#lucenews #lucelanazione #bologna #emma #transgender #transrights
  • “Trova qualcuno a cui piaci come sei e digli di farsi curare”, scrive Andrea Pinna in uno dei suoi tipici post su Instagram. 

Ma se Andrea Pinna, apprezzato per i suoi aforismi taglienti, “né bello né ricco” come dice lui, è diventato uno degli influencer più originali del web, è anche perché ha fatto entrambe le cose: ha accettato se stesso com’era e ha intrapreso un percorso di cura.

Trentacinque anni, origini sarde e milanese di adozione, ha cominciato il suo cammino partendo dal gradino più basso. 

"Lavoravo a Roma nel mondo dei negozi, commesso e poi vetrinista. Mi hanno mandato in Sardegna, la mia terra, a seguire nuovi negozi, ma poco dopo hanno chiuso tutto lasciandomi senza lavoro. E lì si è scatenata la mia prima fortissima depressione. Che ho affrontato con Facebook, scrivendo status più o meno sarcastici per scaricare la rabbia”.

Non una depressione qualsiasi, ma un malessere profondo che a distanza di anni gli verrà diagnosticato come bipolarismo. 

"Non è stato facile. Ho passato periodi che non dormivo mai e altri in cui stavo sempre a letto. Avere un disagio psichico non è una passeggiata e bisogna raccontarlo, imparare ad ascoltarsi”.

Sul suo profilo Instagram @leperledipinna ha deciso di portare avanti due battaglie: quella per i diritti civili dei gay e l’altra per dare voce ai problemi mentali.

“La prima la combatto in prima persona da tanto tempo, la seconda per far capire che se vai dall’ortopedico quanto ti fa male il ginocchio è giusto andare da uno psicoterapeuta o uno psichiatra quando hai un disagio mentale o psicologico”.

E attraverso le dirette Instagram di psicoterapinna "racconto la mia storia, il mio vissuto, chiamando gli esperti a parlare dei vari problemi psicologici che la gente può avere”.

La storia di chi ha trovato il coraggio di affrontare il bipolarismo e ha saputo rendere i social un luogo in cui sentirsi a proprio agio. Qualunque sia il disagio.

L
  • "L’autismo è un fenomeno che riguarda sì, in primo luogo gli autistici e le loro famiglie, ma anche la società in generale. Un nato o nata ogni 70/80 rientra nello spettro autistico ormai ed è quindi bene che anche i cosiddetti neuro tipici sappiano di cosa si parla”.

Dopo la standing ovation ricevuta lo scorso 2 aprile al Cinema La Compagnia di Firenze e il fortunato tour avviato nei cinema e nei teatri della Toscana, il documentario “I mille cancelli di Filippo” sarà nuovamente proiettato lunedì 27 giugno alle 21, nella Limonaia di Villa Strozzi a Firenze. Al centro della narrazione il figlio del noto autore Enrico Zoi, il giovane Filippo, colpito da spettro autistico.

Con la delicatezza e la magia tipica di uno scrittore che, prima di tutto, è un babbo amorevole, Enrico – insieme a sua moglie Raffaella Braghieri – apre una volta ancora le porte della sua casa per raccontare al mondo la realtà speciale della sua famiglia.

E il consiglio per i genitori che hanno appena ricevuto una diagnosi di autismo sul proprio bambino sarebbe quello di "non chiudersi, di non chiedersi perché, di guardare al mondo esterno, di aprirsi. Chiudersi non serve a niente, anzi… è un po’ come una partita di calcio: se non scendi in campo la perdi a tavolino, se invece accetti il confronto te la puoi giocare!”.

Di Caterina Ceccuti ✍

#lucenews #lucelanazione #enricozoi #imillecancellidifilippo #firenze #autismo #autismawareness
Una proposta di matrimonio in volo. È la scena accaduta sull'aereo della Alaska Airlines quando l'assistente di volo Veronica Rojas si è inginocchiata chiedendo in sposa la sua fidanzata. Una proposta alla quale la giovane Alejandra Moncayo non ha esitato rispondendo subito di sì.

L'amore ricambiato delle due future spose

Veronica Rojas, hostess da due anni presso l’Alaska Airlines, aveva progettato tutto nei minimi dettagli e infatti i suoi colleghi erano suoi complici. La donna ha aspettato che il velivolo atterrasse all’aeroporto di Los Angeles per farle la proposta di matrimonio di fronte a tutti i passeggeri. Veronica ha deciso di chiederle la mano proprio a giugno perchè si tratta del mese del Pride. L’aereo è infatti stato allestito con delle decorazioni chiamate “Pride in the Sky“.

La compagna di Veronica si chiama Alejandra Moncayo e le due donne sono fidanzate da 2 anni. Si sono conosciute proprio a Los Angeles, dove è stata fatta la proposta di matrimonio. Una volta che l’aereo è giunto al Gate, prima che potessero scendere tutti, Veronica ha preso il microfono ed ha dichiarato il suo amore alla compagna chiedendole la mano. Il sì di Alejandra è arrivato senza esitazioni di fronte al personale di bordo e ai passeggeri visibilmente emozionati.

La giovane hostess ha poi confessato che la fidanzata era intenzionata a farle la medesima proposta proprio una volta atterrate a Los Angeles, città che aveva fatto da sfondo al loro amore. https://youtu.be/TtRbPrCY8vo

Pride Month: il significato del nome e perché si festeggia a Giugno

Giugno è diventato ufficialmente il mese del Pride da quando negli Stati Uniti il presidente Bill Clinton lo ha riconosciuto per la prima volta nel 1999. Tutto cominciò quando otto poliziotti (dei quali solo uno in uniforme) entrarono nello Stonewall Inn, un bar gay in Christopher Street, nel Greenwich Village, un quartiere del distretto di Manhattan a New York.  Il verbale dell’epoca recita che non tutti vennero arrestati in quel bar, ma solo “coloro i quali si trovavano privi di documenti di identità, quelli vestiti con abiti del sesso opposto, e alcuni o tutti i dipendenti del bar". Ai tempi le incursioni della polizia nei bar gay e nei night club erano frequenti. Ma quella notte passò alla storia perché tale incursione provocò un moto di ribellione da parte degli avventori, i quali reagirono contro il raid dichiaratamente discriminatorio. Da qui all’organizzazione del pride il passo è stato breve. A Chicago il 27 giugno 1970, l'associazione Chicago Gay Liberation organizzò una marcia che partiva da Washington Square Park per arrivare al Richard J. Daley Center Venne scelta quella data per ricordare i moti di Stonewall dell’anno precedente ma anche per ottenere più visibilità dal momento che era un sabato (l’ultimo sabato di giugno) e quindi sarebbe stata più forte la presenza del pubblico ai negozi di Michigan Avenue, che avrebbero notato un gruppo di persone in marcia per i propri diritti. Da qui in poi, in tutto il mondo venne scelto l’ultimo sabato di giugno per organizzare le parate. Lo stesso giorno venne realizzata una parata a New York (la "Christopher Street Liberation Day"). Del comitato organizzatore fece parte anche e soprattutto Brenda Howard, una donna bisessuale, che ebbe un ruolo decisivo nel lavoro di coordinamento e preparazione, tanto da essere considerata, per il ruolo decisamente carismatico, "la madre del Pride". Proprio da questa attestazione va rintracciata la trasformazione del termine "pride" nel corso degli anni. Nella sua forma originale, la parola "pride" aveva una connotazione negativa, intesa come “presunzione” o “superbia”. Solo grazie ad attivisti come la Howard, Robert A. Martin Jr. e L. Craig Schoonmaker, che nel 1970, associando la parola "Pride" alle manifestazioni successive agli scontri di Stonewall, la trasformarono in “rispetto di sé”, “orgoglio”, per sfidare in modo definitivo il bigottismo e l’odio contro la comunità LGBTQIA+.  
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