A Singapore
impiccato un uomo per un
chilo di cannabis, Amnesty denuncia: “esecuzione arbitraria e illegale”. Nella mattinata del 26 aprile, a
Singapore è stata eseguita la condanna a morte di
Tangaraju Suppiah, 46 anni, giudicato colpevole di aver collaborato al
traffico di un chilo e diciassette grammi di cannabis. L’uomo era detenuto nel complesso carcerario di
Changi dove poi ha avuto la pena capitale.
Leelavathy Suppiah (al centro), sorella del condannato Tangaraju Suppiah, e altri membri della famiglia, mentre tiene una lettera di petizione per chiedere clemenza (Foto: New Straits Times)
“Questa
esecuzione illegale e arbitraria, date le molte irregolarità riscontrate nel procedimento giudiziario, mostra ancora una volta quanto Singapore si ostini a usare la pena di morte” sostiene
Ming Yu Hah, vicedirettore di
Amnesty International per l’Asia. E aggiunge: “Le
norme sulla droga vigenti a Singapore, fortemente repressive, prevedono anche l’obbligatorietà della
pena di morte”.
Il vicedirettore spiega: “I giudici non possono prendere in considerazione
eventuali attenuanti, come le circostanze del reato, la condizione dell’imputato e altri fattori importanti. Il vicino di Singapore, la
Malesia, sta rinunciando a tutto questo in favore della protezione della vita umana”. Secondo Amnesty International “queste norme
non contrastano l’uso e la disponibilità della droga, né e proteggono efficacemente dai danni causati da tali sostanze”. “Singapore deve tener conto della crescente tendenza globale a
rinunciare alla pena di morte e dichiarare in primo luogo una moratoria sulle esecuzioni” conclude Hah.
La protesta contro l'impiccagione (Instagram)
L’accusa del 2013
Nel 2013
Tangaraju Suppiah era stato accusato di essersi messo d’accordo con due uomini per introdurre il quantitativo di cannabis sull’isola. La condanna si era basata essenzialmente sulle dichiarazioni rese durante
l’interrogatorio, in assenza di un avvocato e di un interprete, e su quelle dei due co-imputati, presentati come testimoni dell’accusa. Uno dei due uomini era stato poi
prosciolto mentre non era mai stato rintracciato un quarto uomo che avrebbe dovuto confermare le loro testimonianze.
La condanna del 2017
Tangaraju è stato condannato nel 2017 per "
favoreggiamento mediante associazione a delinquere finalizzata al traffico" di 1.017,9 grammi (35,9 once) di cannabis, il doppio del volume minimo richiesto per una
condanna a morte a Singapore. L'uomo è stato stato poi
condannato a morte nel 2018 e la Corte d'Appello ha confermato la decisione. Branson, un membro della
Global Commission on Drug Policy con sede a Ginevra, nei giorni scorsi aveva scritto sul suo blog che Tangaraju "non era neanche lontanamente vicino" alla droga al momento del suo arresto e che Singapore potrebbe essere sul punto di mettere a morte un uomo innocente. Ma il ministero dell'Interno di Singapore aveva risposto che la colpevolezza di Tangaraju è stata dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Il ministero aveva detto che due numeri di cellulare che secondo i pubblici ministeri gli appartenevano erano stati usati per coordinare la consegna della droga.
Le proteste contro la condanna a morte di Tangaraju Suppiah
La legge sulla droga
Dal 2013, a seguito di emendamenti alla L
egge sulla droga, i giudici hanno un limitato potere discrezionale nel decidere la condanna, qualora l’imputato si sia limitato a fare il “corriere”, se abbia collaborato alle indagini o se le sue condizioni di
salute mentale siano tali da non renderlo consapevole delle sue azioni o delle sue omissioni in relazione al reato che gli è contestato. Se la procura non conferma l’avvenuta collaborazione, il giudice
perde il potere discrezionale e deve emettere una condanna a morte: di fatto, quindi, la sentenza è nella mani della procura. Dopo una pausa di oltre due anni, Singapore ha ripreso le condanne a morte a
marzo 2022: da allora ci sono state
12 impiccagioni. Le Nazioni Unite affermano che la pena di morte non ha dimostrato di essere un deterrente efficace a livello globale ed è incompatibile con il
diritto internazionale sui diritti umani, che consente la pena capitale solo per i crimini più gravi.