Usa, due anni di divieti e limitazioni all’aborto hanno causato una crisi dei diritti umani

L’allarme di Amnesty International a due anni dalla sentenza che ha di fatto svuotato il diritto all’aborto negli Stati Uniti. Problemi e disagi anche per il personale sanitario

di DOMENICO GUARINO
8 agosto 2024
Aborto-Amnesty

Aborto negli Usa, l'allarme di Amnesty International

Una vera e propria crisi umanitaria. Secondo Amnesty International è quella che ha fatto seguito alla decisione Dobbs, con la quale nel giugno 2022 la Corte suprema federale annullò la sua precedente sentenza Roe v. Wade circa il diritto all'interruzione della gravidanza. Ad oggi l’aborto è quasi completamente vietato in 14 Stati degli Usa. In almeno altri 11 è gravemente limitato.

La prima conseguenza è che l'interruzione di gravidanza da diritto per tutte le donne diventi un privilegio per poche, ovvero per chi può permettersi di spendere cifre non marginali nei casi, sempre più frequenti, che si debba viaggiare per centinaia e centinaia di chilometri per poter ricevere la necessaria assistenza. Ragion per cui alla fine i poveri sono di fatto esclusi dalla possibilità di abortire, considerato che, come risulta da una delle testimonianze contenute nel rapporto, una madre del Mississippi che ha accompagnato la figlia ad abortire nell’Illinois, oltre a sette ore di viaggio, si è dovuta fare carico di 500 dollari per l’albergo e 1595 per l’aborto.

Insomma, come è facile immaginare, ad avere la peggio sono le minoranze etniche, le comunità rurali e quelle native, le persone povere e le persone migranti prive di documenti.

Le conseguenze

In questo contesto cono tantissime, come testimonia sempre il rapporto di Amnesty, le donne e le ragazze che hanno dovuto portare a termine la gravidanza perché non potevano permettersi di viaggiare in un altro stato, comprese chi di loro ha dovuto partorire dopo uno stupro o nonostante gravi anomalie del feto o rischi per la propria salute.

Di contro cresce enormemente la domanda di balie, perché le persone costrette a portare avanti la gravidanza sono spesso donne single e povere, abbandonate, e devono cercare di lavorare per sopravvivere.

Il tutto senza contare la diffusione di notizie distorte, se non di vere e proprie fake news, narrazioni criminalizzanti e la presenza di personale non qualificato nei cosiddetti “centri di crisi per la gravidanza”, spesso attivisti dei movimenti no choice.

Secondo la dottoressa Amna Dermish, un’ostetrica-ginecologa del Texas: “per la prima volta dopo tantissimo tempo, ogni giorno che riesco ad arrivare in clinica e a visitare pazienti, sento che è una vittoria. Nessun professionista sanitario dovrebbe trovarsi in questa situazione, ma soprattutto non ci si dovrebbero trovare pazienti il cui diritto alle cure mediche è nelle mani del governo”.

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Diritti umani

"Divieti, barriere e restrizioni all'aborto hanno creato paura, confusione e devastazione; Hanno costretto le donne, le ragazze e le persone che possono rimanere incinta a ritardare le cure e a minacciare la loro salute e la loro vita e, in ultima analisi, questi divieti, barriere e restrizioni hanno costretto le persone a partorire contro la loro volontà" denuncia Amnesty. Che ricorda come "il diritto internazionale dei diritti umani stabilisce chiaramente che le decisioni sul proprio corpo sono solo proprie" e che dunque "costringere qualcuno a continuare una gravidanza indesiderata o a cercare un aborto non sicuro è una violazione dei suoi diritti umani, compresi i diritti alla privacy e all'autonomia corporea e riproduttiva".

La situazione è allarmante anche dal punto di vista del personale medico. Da quando infatti negli Usa la sentenza Dobbs ha messo fine alla protezione costituzionale del diritto all’aborto, consentendo ad alcuni Stati di limitare e vietare l’interruzione volontaria di gravidanza, si sono diffusi tra i medici e gli infermieri che si lavorano di aborto condizioni di grave ansia e disagio. Non tanto tra gli operatori sanitari che lavorano negli Stati dove l’aborto è ancora consentito e non ha subito grandi modifiche, ma tra coloro che lavorano negli Stati in cui questo diritto è stato fortemente limitato o abolito.

Lo studio su medici e infermieri

A raccontarlo è uno studio guidato dall’Università di Chicago e dalla Ohio State University, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista JAMA Network.

Nello studio sono stati coinvolti circa 350 medici e infermieri, l’87% dei quali donne, reclutati nelle 1.602 strutture sanitarie che praticano l’aborto negli Usa. Il campione ha risposto a una serie di domande sul loro lavoro e sulle condizioni di disagio relativo ad esso, misurato tramite una specifica scala di valutazione. Ebbene, i ricercatori hanno rilevato che i medici che esercitano in Stati restrittivi rispetto all’aborto hanno un livello di disagio più alto, oltre il doppio, rispetto a coloro che lavorano in Stati in cui l’aborto è ancora un diritto protetto.

Secondo la denuncia dei sanitari, in molti Stati Usa in cui c’è il divieto di aborto, l’elenco delle eccezioni è ristretto e confuso, con poche o nessuna eccezione per la salute materna o il pericolo di vita. In questo contesto, i medici potrebbero trovarsi sempre più di fronte a un difficile dilemma: fornire cure mediche appropriate e basate sulla coscienza o mettersi in pericolo legale e professionale?

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“Questa esperienza conflittuale può dare origine a disagio morale, ovvero al danno emotivo che si verifica quando la coscienza di un medico lo guida a fornire cure specifiche in linea con gli standard professionali, ma vincoli esterni, come le politiche statali o istituzionali, gli impediscono di farlo” dicono i ricercatori.

Il disagio morale, secondo gli scienziati, può avere implicazioni dirette sui medici che praticano l’aborto e che devono affrontare i nuovi divieti. “L’esposizione prolungata al disagio morale senza risoluzione può portare a danni morali – sottolineano ancora i ricercatori -. Sia il disagio che il danno morale sono stati associati al burnout del medico, al disagio psicologico e al basso benessere auto-riferito”.