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Home » Economia » Donne e pandemia, il gender gap cresce: “Necessario promuovere l’uguaglianza nella ricostruzione”

Donne e pandemia, il gender gap cresce: “Necessario promuovere l’uguaglianza nella ricostruzione”

Deborah Russo ed Enzamaria Tramontana, professoresse associate di diritto internazionale degli atenei di Firenze e Palermo, nel loro studio, analizzano le cause dell'aumento del divario di genere durante l'emergenza sanitaria da Covid-19

Domenico Guarino
27 Gennaio 2022
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La pandemia non ci ha reso migliori. E nemmeno più uguali. Anzi, il sospetto, sempre più radicato a causa delle evidenze che stanno arrivando sotto forma di analisi socioeconomiche, è che abbia ulteriormente accresciuto il divario tra gli inclusi e gli esclusi, tra chi ha e chi non ha (o ha meno), tra chi è in grado di esercitare pienamente i propri diritti e chi invece si trova a dover fare i conti, quotidianamente, con una differenza che contamina negativamente tutti i campi dell’esistenza sia personale che professionale. È il caso delle donne. Sappiamo quanto il gender gap sia un problema reale anche nelle società più evolute, e conosciamo la fatica che si fa, e si faceva già prima del Covid, ad affermare principi semplici e basilari come le pari opportunità. Quello di cui invece sappiamo meno è quanto effettivamente la pandemia sia andata ad aggravare questa situazione. A colmare il vuoto ci hanno pensato due studiose italiane, Deborah Russo, professoressa associata di Diritto internazionale all’università di Firenze ed Enzamaria Tramontana, professoressa associata di Diritto internazionale all’università di Palermo.

Da dove nasce la vostra ricerca?

“L’idea nasce dalle evidenze statistiche, ampiamente documentate dalla stampa e dalle principali organizzazioni internazionali, circa l’impatto sproporzionato che la pandemia, e le misure adottate per il contenimento della sua diffusione, hanno avuto nei confronti delle donne”.

Enzamaria Tramontana è professoressa associata di Diritto internazionale all’università di Palermo.

Quale è stato l’effetto della pandemia sulle donne?

“Gli aspetti da prendere in considerazione sono molteplici. In primo luogo, la maggiore suscettibilità delle donne all’infezione da SARS-CoV-2, dovuta al fatto che queste rappresentano, a livello mondiale, oltre il 70% del personale medico e infermieristico, ossia quella fetta della popolazione nella quale è presente la percentuale più alta dei contagiati dal virus. In secondo luogo, l’aumento esponenziale della violenza domestica, dovuta a lockdown e quarantene, che hanno di fatto obbligato molte donne a una convivenza forzata con i propri aguzzini e aumentato le loro difficoltà a denunciare e rivolgersi ai servizi di supporto. In terzo luogo, la diffusa compressione nell’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva da parte delle donne, causata dalla classificazione di questi servizi come non strettamente indispensabili e/o prorogabili nel quadro di politiche finalizzate a dare priorità, nell’allocazione di risorse umane e finanziare, alla cura dei pazienti affetti da Covid-19. Infine, ma non certo per importanza, l’impatto sproporzionato che le misure di contenimento della pandemia hanno avuto sull’impiego femminile e il preoccupante incremento delle ore dedicate dalle donne al lavoro non pagato (lavoro di cura e domestico)”.

In quale settore si è avuto il maggiore gap rispetto alla popolazione maschile?

“Sicuramente il settore dell’occupazione. Le misure messe in campo per contrastare la pandemia hanno infatti colpito più duramente settori a più elevato tasso occupazionale femminile e a inferiore tasso di telelavorabilità, come turismo e ristorazione, determinando la perdita di un maggior numero di posti di lavoro per le donne. Parallelamente, queste si sono fatte carico -ben più degli uomini- dell’incremento del lavoro domestico conseguente, in particolar modo, alla chiusura di scuole e centri di assistenza per anziani e malati”.

Un problema che esisteva già prima della pandemia…

Deborah Russo, docente associata di Diritto internazionale all’università di Firenze

“Certo, ciò è andato a peggiorare una situazione che risultava già allarmante prima della pandemia: ci riferiamo al più elevato livello di disoccupazione femminile rispetto a quella maschile; alla maggiore difficoltà per le donne di accedere a misure di assistenza sociale a causa della natura prevalentemente irregolare o precaria dei loro rapporti di lavoro; agli ostacoli nelle progressioni di carriera, che discendono da una distribuzione fortemente sbilanciata del carico domestico e dall’assenza (o inadeguatezza) di misure finalizzate a promuovere la conciliazione tra lavoro e vita familiare (pensiamo, ad esempio, all’incremento degli asili nido, alla erogazione di bonus per servizi di baby-sitting, o alla previsione del congedo obbligatorio di paternità).

Quali le cause dello squilibrio di genere determinato dal Covid?

“L’impatto sproporzionato della pandemia sull’uguaglianza di genere è stato causato dalla fatale combinazione di due elementi. Da un lato la preesistente situazione strutturale di svantaggio che le donne scontano in vari ambiti della vita sociale. Come già detto, ad esempio, il divario tra lavoro femminile e maschile era già allarmante prima della pandemia, non solo per i livelli di disoccupazione femminile ben più elevati di quelli maschili ma anche perché, più spesso degli uomini, le donne sono impiegate sulla base di contratti part-time e/o a tempo determinato, che più duramente sono colpiti in tempo di crisi. Dall’altro lato, l’impatto negativo della pandemia è stato concausato dall’impreparazione degli Stati nell’affrontare l’emergenza e nel mettere in campo, come richiedono specifici obblighi internazionali, misure protettive di sostegno e di correzione degli effetti negativi delle misure emergenziali sulle categorie meno protette. Come le donne”.

Potete fare un esempio concreto?

“Nel campo dell’impiego, ad esempio, ci riferiamo alla mancata adozione di premialità rivolte alle imprese che non licenziano le donne. La stessa combinazione di fattori causali spiega l’aggravamento della violenza domestica: da un lato gli stereotipi di genere legati al ruolo della donna nella sfera della famiglia e dall’altra l’inadempimento degli Stati al dovere di mettere in campo misure rafforzate di protezione per compensare il prevedibile aumento del rischio di violenza domestica generato da lockdown, quarantene e altre forme di restrizione della libertà personale imposte per contenere il contagio”.

Le donne nella pandemia si sono si sono fatte carico dell’incremento del lavoro domestico molto più degli uomini

Quali misure mettere in campo?

“La ricostruzione post-Covid rappresenta un’opportunità unica non solo per neutralizzare l’arretramento dei diritti delle donne causato dalla pandemia ma anche per promuovere l’uguaglianza di genere come presupposto indispensabile di una società più equilibrata, prospera, giusta e resiliente. Questo è possibile solo a condizione che, nella fase di ricostruzione, gli Stati coinvolgano le donne in misura paritaria agli uomini nella elaborazione e applicazione dei piani di recovery e ricostruzione, e mettano in campo finanziamenti e politiche a sostegno dell’uguaglianza di genere (pensiamo, ad esempio, al rafforzamento degli obblighi di legge sull’uguaglianza delle condizioni contrattuali con sanzioni, a meccanismi preferenziali nell’accesso e nelle progressioni di carriera, al potenziamento dei servizi di cura e asili nido, al congedo obbligatorio di paternità, ecc). Va però precisato che un approccio di genere dovrà caratterizzare tutte le misure e le politiche di recovery. Questo significa, ad esempio, che ove si prevedano ingenti finanziamenti su settori attualmente dominati dall’occupazione maschile (come quelli della economia verde e del digitale), saranno indispensabili correttivi per evitare l’aggravio della sproporzione occupazionale (per esempio puntando alla formazione specifica della manodopera femminile necessaria al lavoro in questi settori e all’applicazione di misure preferenziali che agevolino l’ingresso delle donne in questi settori).

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

#lucenews #lucelanazione #secondhand #vintage
  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

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La pandemia non ci ha reso migliori. E nemmeno più uguali. Anzi, il sospetto, sempre più radicato a causa delle evidenze che stanno arrivando sotto forma di analisi socioeconomiche, è che abbia ulteriormente accresciuto il divario tra gli inclusi e gli esclusi, tra chi ha e chi non ha (o ha meno), tra chi è in grado di esercitare pienamente i propri diritti e chi invece si trova a dover fare i conti, quotidianamente, con una differenza che contamina negativamente tutti i campi dell’esistenza sia personale che professionale. È il caso delle donne. Sappiamo quanto il gender gap sia un problema reale anche nelle società più evolute, e conosciamo la fatica che si fa, e si faceva già prima del Covid, ad affermare principi semplici e basilari come le pari opportunità. Quello di cui invece sappiamo meno è quanto effettivamente la pandemia sia andata ad aggravare questa situazione. A colmare il vuoto ci hanno pensato due studiose italiane, Deborah Russo, professoressa associata di Diritto internazionale all'università di Firenze ed Enzamaria Tramontana, professoressa associata di Diritto internazionale all'università di Palermo. Da dove nasce la vostra ricerca? "L’idea nasce dalle evidenze statistiche, ampiamente documentate dalla stampa e dalle principali organizzazioni internazionali, circa l’impatto sproporzionato che la pandemia, e le misure adottate per il contenimento della sua diffusione, hanno avuto nei confronti delle donne".
Enzamaria Tramontana è professoressa associata di Diritto internazionale all'università di Palermo.
Quale è stato l'effetto della pandemia sulle donne? "Gli aspetti da prendere in considerazione sono molteplici. In primo luogo, la maggiore suscettibilità delle donne all’infezione da SARS-CoV-2, dovuta al fatto che queste rappresentano, a livello mondiale, oltre il 70% del personale medico e infermieristico, ossia quella fetta della popolazione nella quale è presente la percentuale più alta dei contagiati dal virus. In secondo luogo, l’aumento esponenziale della violenza domestica, dovuta a lockdown e quarantene, che hanno di fatto obbligato molte donne a una convivenza forzata con i propri aguzzini e aumentato le loro difficoltà a denunciare e rivolgersi ai servizi di supporto. In terzo luogo, la diffusa compressione nell’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva da parte delle donne, causata dalla classificazione di questi servizi come non strettamente indispensabili e/o prorogabili nel quadro di politiche finalizzate a dare priorità, nell’allocazione di risorse umane e finanziare, alla cura dei pazienti affetti da Covid-19. Infine, ma non certo per importanza, l’impatto sproporzionato che le misure di contenimento della pandemia hanno avuto sull’impiego femminile e il preoccupante incremento delle ore dedicate dalle donne al lavoro non pagato (lavoro di cura e domestico)". In quale settore si è avuto il maggiore gap rispetto alla popolazione maschile? "Sicuramente il settore dell’occupazione. Le misure messe in campo per contrastare la pandemia hanno infatti colpito più duramente settori a più elevato tasso occupazionale femminile e a inferiore tasso di telelavorabilità, come turismo e ristorazione, determinando la perdita di un maggior numero di posti di lavoro per le donne. Parallelamente, queste si sono fatte carico -ben più degli uomini- dell’incremento del lavoro domestico conseguente, in particolar modo, alla chiusura di scuole e centri di assistenza per anziani e malati". Un problema che esisteva già prima della pandemia…
Deborah Russo, docente associata di Diritto internazionale all'università di Firenze
"Certo, ciò è andato a peggiorare una situazione che risultava già allarmante prima della pandemia: ci riferiamo al più elevato livello di disoccupazione femminile rispetto a quella maschile; alla maggiore difficoltà per le donne di accedere a misure di assistenza sociale a causa della natura prevalentemente irregolare o precaria dei loro rapporti di lavoro; agli ostacoli nelle progressioni di carriera, che discendono da una distribuzione fortemente sbilanciata del carico domestico e dall’assenza (o inadeguatezza) di misure finalizzate a promuovere la conciliazione tra lavoro e vita familiare (pensiamo, ad esempio, all’incremento degli asili nido, alla erogazione di bonus per servizi di baby-sitting, o alla previsione del congedo obbligatorio di paternità). Quali le cause dello squilibrio di genere determinato dal Covid? "L'impatto sproporzionato della pandemia sull'uguaglianza di genere è stato causato dalla fatale combinazione di due elementi. Da un lato la preesistente situazione strutturale di svantaggio che le donne scontano in vari ambiti della vita sociale. Come già detto, ad esempio, il divario tra lavoro femminile e maschile era già allarmante prima della pandemia, non solo per i livelli di disoccupazione femminile ben più elevati di quelli maschili ma anche perché, più spesso degli uomini, le donne sono impiegate sulla base di contratti part-time e/o a tempo determinato, che più duramente sono colpiti in tempo di crisi. Dall'altro lato, l'impatto negativo della pandemia è stato concausato dall'impreparazione degli Stati nell'affrontare l'emergenza e nel mettere in campo, come richiedono specifici obblighi internazionali, misure protettive di sostegno e di correzione degli effetti negativi delle misure emergenziali sulle categorie meno protette. Come le donne". Potete fare un esempio concreto? "Nel campo dell’impiego, ad esempio, ci riferiamo alla mancata adozione di premialità rivolte alle imprese che non licenziano le donne. La stessa combinazione di fattori causali spiega l'aggravamento della violenza domestica: da un lato gli stereotipi di genere legati al ruolo della donna nella sfera della famiglia e dall'altra l'inadempimento degli Stati al dovere di mettere in campo misure rafforzate di protezione per compensare il prevedibile aumento del rischio di violenza domestica generato da lockdown, quarantene e altre forme di restrizione della libertà personale imposte per contenere il contagio".
Le donne nella pandemia si sono si sono fatte carico dell’incremento del lavoro domestico molto più degli uomini
Quali misure mettere in campo? "La ricostruzione post-Covid rappresenta un'opportunità unica non solo per neutralizzare l'arretramento dei diritti delle donne causato dalla pandemia ma anche per promuovere l'uguaglianza di genere come presupposto indispensabile di una società più equilibrata, prospera, giusta e resiliente. Questo è possibile solo a condizione che, nella fase di ricostruzione, gli Stati coinvolgano le donne in misura paritaria agli uomini nella elaborazione e applicazione dei piani di recovery e ricostruzione, e mettano in campo finanziamenti e politiche a sostegno dell'uguaglianza di genere (pensiamo, ad esempio, al rafforzamento degli obblighi di legge sull'uguaglianza delle condizioni contrattuali con sanzioni, a meccanismi preferenziali nell'accesso e nelle progressioni di carriera, al potenziamento dei servizi di cura e asili nido, al congedo obbligatorio di paternità, ecc). Va però precisato che un approccio di genere dovrà caratterizzare tutte le misure e le politiche di recovery. Questo significa, ad esempio, che ove si prevedano ingenti finanziamenti su settori attualmente dominati dall'occupazione maschile (come quelli della economia verde e del digitale), saranno indispensabili correttivi per evitare l'aggravio della sproporzione occupazionale (per esempio puntando alla formazione specifica della manodopera femminile necessaria al lavoro in questi settori e all’applicazione di misure preferenziali che agevolino l'ingresso delle donne in questi settori).
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