Come qualcuno di voi ricorderà, nella prima intervista lampo fatta a Riccardo Taverna, presidente di WeGlad, durante un evento a Milano, avevo palesato il desiderio di farne una più lunga e approfondita. Un invito messo lì tra le righe (ma esplicito) dell’articolo, che lui ha prontamente accolto. Ed eccoci qui. Ci siamo incontrati in un bar a Milano con la premessa che preferisco: più che un’intervista sarà una chiacchierata e così è stata.
Il fatto che questa intervista esca oggi, nella Giornata internazionale delle persone con disabilità, è solo un caso, non era pensata, ma col senno di poi è giusto così. E non per quello che Taverna ha o ha avuto (la Cdp, il Parkinson e un infarto), ma per ciò che è e che fa in questa quotidiana battaglia civile e politica contro le barriere architettoniche.
L’infanzia e la gioventù
Partiamo dall’inizio. Chi è Riccardo Taverna?
“A me piace definirmi come una persona che ogni giorno cerca di vivere una vita normale e che ci riesce sforzandosi e dandosi degli obiettivi. Io sono nato a Milano. Ho vissuto l'infanzia in Libia, a Bengasi per l'esattezza, perché mio papà lavorava lì. Sono stati dieci anni splendidi. Io avevo due anni, mia sorella era appena nata e mia madre era incinta di mio fratello".
Che ricordi ha della Libia?
“Ricordo il mare, eravamo sempre in acqua, la stagione estiva iniziava a febbraio e finiva a novembre. Mi ricordo gli amici, con cui otto/nove anni fa abbiamo fatto una reunion qui a Milano e per due giorni non siamo usciti dalla struttura per quanto eravamo felici di rivederci e per tutto quello che avevamo da raccontarci”.
Com’è stato tornare in Italia?
“Un trauma. Lì eravamo abituati a giocare per strada, invece qui a Milano già allora era impensabile e pericolosissimo. Anche la scuola non è stata semplice, sono passato da un liceo dove non si faceva altro che scioperi e autogestioni, ad uno dove si studiava veramente e diciamo che a me piaceva fare altro, anche se la disciplina faceva parte della mia educazione”.
Come mai?
“A 10 anni mi sono iscritto a un corso di judo che dopo sei mesi è diventato agonistico, per cui fino ai 21 anni ho fatto judo, sono arrivato terzo ai campionati italiani. E il judo ti inquadra, devi essere disciplinato, anche se sei da solo a combattere è comunque una sfida con te stesso, e se perdi vuol dire che hai meritato di perdere”.
Era quella la sua strada?
“Facevo judo, facevo pesistica e corsa per allenarmi, andavo in windsurf e sciavo come un disperato. Ero lo studente della Bocconi, yuppie milanese che se la tirava e poi improvvisamente la vita mi ha avvisato che le cose stavano per cambiare e lì ho dovuto mettere alla prova tutto quello che mi aveva insegnato il judo, cioè la disciplina, il non arrendersi, il rialzarsi dopo la caduta. Ho dovuto mettere alla prova la mia capacità nell'affrontare i problemi che erano più grossi di me. Però sin da subito ho scelto di affrontarlo da solo”.
Qual è stato il primo segnale?
“Una volta un’amica mi ha attaccato alle spalle per giocare. Io pesavo il doppio di lei, quindi doveva essere un gioco da ragazzi per me atterrarla e invece non ci sono riuscito. Venivo da un periodo di stanchezza fisica che però attribuivo al lavoro e allo studio intenso, lo sottovalutavo. Quell’episodio invece mi ha fatto pensare e quindi ne ho parlato col medico. Come prima cosa bisognava escludere i due mali peggiori: sclerosi multipla o tumore al cervello. Volevo fare la risonanza magnetica senza dire niente ai miei, ma ho dovuto chiedergli i soldi. Da lì è iniziata un'avventura che dura ancora oggi”.
La malattia
E le hanno diagnosticato la Cdp...
“Esatto, che è una malattia neurologica degenerativa. In pratica il sistema immunitario non riconosce più la mielina, che è lo strato esterno del nervo, che è quello che conduce l'impulso elettrico, per cui se manca la mielina perdi forza e sensibilità. Quarant'anni fa non c'era la diagnosi, c'era una descrizione dei sintomi perché è una malattia rara, per cui l’ho scoperta dopo. Il vantaggio è che la Cdp ha una progressione lenta, per cui fino ai 38-39 anni ho vissuto una vita quasi normale, seppur con tante limitazioni”.
Il judo l’ha dovuto lasciare a quel punto?
“No, quello l'ho messo da parte perché ero arrivato terzo ai campionati italiani e non avevo talento. Dovevo essere onesto con me stesso”.
Non ha digerito il terzo posto...
“Esatto” (ride ndr)
C’è stato un momento topico che ricorda?
“No, sono stato trascinato dalla malattia quasi con discrezione”.
E questo percorso come l’ha vissuto?
“Con un'accelerazione sulla consapevolezza di chi sono, perché quando hai dei limiti fisici devi ricostruirti, ma partendo da un'analisi onesta di chi sei. Volevo diventare direttore generale di un'agenzia di pubblicità, poi ho costituito la mia e lì ho cominciato a capire che potevo vivere una vita diversa da quella che avevo immaginato, perché ero pronto ad affrontarla, come se non avessi una malattia. Facevo tutto quello che facevano gli altri, aiutato da un badante dopo una decina di anni. Non ho messo la malattia dentro di me e non l'ho fatta diventare un elemento identitario".
Sentiamo spesso dire che la malattia cambia, rende migliore. E’ stato così?
“Io penso di essere migliorato, perché se penso al Riccardo di 23 anni lo prenderei a sberle. Quello di oggi, al di là della maturità dovuta all’età, che ha scelto di fare questa vita parlando di sostenibilità come modo per aiutare gli altri, lo preferisco”.
Ha detto di aver vissuto la malattia come un accessorio, non la identifica. Ma l’ha mai influenzato? Penso alla sfera emotiva, nelle relazioni...
“Io me ne sono sempre fregato di come mi guardavano gli altri e non mi sono posto problemi neppure nella sfera emotiva. Se dovevo conoscere una donna, mi conosceva così. Era inutile nasconderlo e quando la invitavo fuori, se lei accettava voleva dire che c’era un passo in più”.
L’impegno lavorativo e civico
Oggi c’è WeGlad. Come nasce e dove vuole arrivare?
“WeGlad si pone due obiettivi: rendere accessibili i punti vendita alle persone con disabilità; mappare il territorio. A livello nazionale, ma non solo. Abbiamo avuto i primi contatti anche con l’estero come il Canada, la Gran Bretagna. Forse il fatto di essere malato mi ha fatto desiderare di lasciare il segno. Nel lavoro ho sempre cercato di guardare dove gli altri non guardano e vedere se negli angoli trovavo qualcosa che facesse la differenza. Otto, nove anni fa mi hanno chiamato per il Disability Day e raccontare la mia storia. Ho detto cose che hanno sconvolto chi mi ascoltava”.
Ovvero?
"Ho detto che secondo me le persone con disabilità devono ringraziare l'azienda in cui entrano, perché fa un sacrificio, perché l'alternativa è pagare la sanzione e devono essere consapevoli di questo, ma devono anche essere consapevoli della responsabilità che hanno nei confronti dei loro “colleghi” con disabilità che stanno cercando lavoro. Per cui se loro si nascondono per non lavorare, stanno facendo il male di tutti i loro compagni. Da lì mi hanno chiamato a un sacco di convegni a ripetere questa cosa”.
Che tipo di narrazione c'è sulla disabilità oggi?
“C'è sempre il sospetto che le aziende raccontino balle. Mi capita di pensare che un'azienda sia eccellente, poi incontro delle persone che ci lavorano e capisco che c’è tanta fuffa. L'informazione va a ruota. Però alla stampa riconosco che fa da megafono per cui se ne parla, se ne parla a sproposito, ma l'importante è parlarne".
A proposito di stampa, qual è il confine con l’abilismo? Sottolineare, ad esempio, che una persona con disabilità abbia raggiunto un determinato obiettivo nonostante la malattia, è giusto?
"Mi farò dei nemici, ma io sono favorevole che si dicano queste cose. Racconto la mia storia anche per dire: se ce l'ho fatta io ce la potete fare anche voi. A me l’abilismo non dà fastidio, anzi ben venga”.
C’è qualcosa di cui si parla poco rispetto alla disabilità?
“Non si considera che ci sono molte persone con disabilità che non escono di casa, perché il mondo è pieno di barriere. La cosa che mi dà fastidio è che si ignori il fatto che una persona con disabilità venga “compatita”. Usare la terminologia giusta, “politicamente corretta” per dire delle cose ovvie e poi mancare di rispetto in altri modi. Il problema è proprio lì. Spesso si sposta l’attenzione dalla sostanza all’apparenza”.
Anche in politica alcune tematiche diventano bandiere, ma poi rimangono tali. Contenitori vuoti...
“Ci sono 4 milioni di persone con difficoltà motorie, in Italia. Se si calcolano 2,3 persone intorno a ogni persona con disabilità, da quattro diventano 12 milioni. Se fai il partito delle persone con disabilità, hai il primo partito d'Italia. Quello di cui i politici non si rendono conto è che quel bacino è a loro disposizione, se gli risolvi i problemi".
Nessuno parla a quel bacino? Non c’è una rappresentazione politica?
“No, assolutamente. Basti pensare che nell'87 è stato varato il Peba (Piano di eliminazione delle barriere architettoniche) e ad oggi solo l'8% dei Comuni italiani lo ha attivato. Non tutto questo 8% lo ha eseguito”.
Milano a che punto è?
“Le cose sono migliorate, stanno migliorando lentamente, ma ci sono comunque tantissimi limiti”.
Le barriere sono anche politiche quindi...
“Se ci fosse la volontà politica di classificare le persone con disabilità, come delle persone, allora si potrebbe fare qualcosa. Tenga conto che a Milano ci sono 195.000 persone con difficoltà motorie? Quelli sono voti”.
Stai pensando di creare un partito per raccogliere questi voti?
“Ogni tanto mi viene lo sghiribizzo”.