Livia Gionfrida è una giovane e talentuosa regista di origini siciliane, ormai famosa per il suo appassionato impegno sociale. Da molti anni vive e lavora in Toscana dove nel 2006 ha fondato il Collettivo Teatro Metropopolare, che ha sviluppato, assieme ad altri progetti, due anni all’interno della Casa Circondariale La Dogaia di Prato un vero e proprio centro di ricerca teatrale e residenza artistica.
I temi affrontati da Metropopolare
Metropopolare è capofila del progetto vincitore del bando MigrArti Spettacolo 2018, nel cui ambito Livia ha ideato e scritto Formidable, spettacolo che vede in scena rifugiati politici e giovani attori italiani insieme. Instancabile paladina dei diritti delle donne e sensibile al tema incentrato sulla lotta agli stereotipi di genere, nel 2019 ha intrapreso un percorso di ricerca sulle donne partigiane da cui scaturisce il lavoro Eppure era bella la sera, incentrato sui diari e le esperienze della donne nella Resistenza Italiana.
È il 2020 quando inizia il suo percorso di studi sull’opera di Franco Scaldati che l’ha portata a firmare per Teatro Biondo di Palermo lo studio ‘Inedito Scaldati’. A luglio dell’anno successivo arriva il debutto di Pinocchio di Franco Scaldati, diretto e adattato da Livia Gionfrida e prodotto dal Teatro Stabile di Catania. È poi la volta di Le Beatitudini, documentario d’osservazione che indaga la vita dopo il carcere attraverso l’incontro con Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano e responsabile di “Casa Caciolle”, una struttura di accoglienza per detenuti ed ex detenuti.
Dotata di sensibilità acuta, Gionfrida continua a compiere scelte difficili, coraggiose e spesso contro corrente. La cosa essenziale è per lei fare dello spettacolo teatrale l’arte di raccontare il mondo, con le sue contraddizioni e i suoi mali difficili da guarire. “La potenza della parola, già sperimentata tra le mura delle carceri mediante un progetto mirato denominato ‘La Farmacia delle Parole’, svolge un ruolo decisivo e può gettare ponti molto interessanti e costruttivi a vari livelli sociali”. La speranza per l’universo teatrale della regista consiste dunque nella forza di muovere le coscienze attraverso il racconto, con tutta l’efficacia del linguaggio in grado di alleviare le ferite e che talvolta come per incanto guarisce.
Livia, il suo nome è ormai sinonimo di teatro Metropopolare. Com'è nato questo progetto?
“Teatro Metropolare nasce come idea durante il mio percorso universitario. Ai tempi del Dams di Bologna, dove mi sono laureata, cercavo di mettere in pratica le mie idee attraverso laboratori particolari, grazie a docenti che mi lasciavano veramente fare. Così mettevo in pratica tutto quello che studiavo: se ero alle prese con il percorso di Grotowski, lo mettevo in pratica magari con un gruppo di bambini e lo stesso facevo mentre ero concentrata su Peter Brook. In quel periodo ho maturato l'idea di dar vita non tanto a una compagnia nel senso classico, ma a un collettivo aperto perché mi sembrava la dimensione meno soffocante e anche più gestibile, privilegiando l'elemento dell'incontro dal vivo. Per questo ho deciso di chiamare il mio teatro ‘Metropopolare’”.
Il suo impegno professionale la porta spesso all'interno delle carceri. Quanta e quale arte può scaturire da questi luoghi? “Ho conosciuto prima gli istituti carcerari minorili, tanto femminili che maschili, a Pontremoli e a Firenze, ma il carcere La Dogaia di Prato è da subito diventato per me proprio una casa, una residenza artistica ideale. È un luogo che, in un arco di tempo di 16 anni, ha contribuito alla mia crescita, dove ho potuto fare sperimentazioni, cercando di trasmettere la mia competenza e la mia passione. In qualche modo da subito mi sono resa conto che molte cose andavano scartate e valutate rigorosamente, ma una volta che riuscivano a cadere i muri e le maschere, quei ragazzi mi hanno insegnato moltissimo sorprendendomi. Non solo ho colto in molti di loro l’attitudine al gesto artistico ma ho qualche volta addirittura ravvisato una vera e propria fonte di arte.”
Le parole possono davvero guarire?
“Durante la pandemia ci siamo chiesti cosa potevamo fare per la comunità. Così abbiamo concluso che il migliore antidoto contro quel tipo di malessere, che era anche di natura psicologica, fossero proprio le parole. La potenza della parola, già sperimentata tra le mura delle carceri mediante un progetto mirato denominato ‘La Farmacia delle Parole’, svolge un ruolo decisivo e può gettare ponti molto interessanti e costruttivi a vari livelli sociali. Credo che questo nostro pensiero sia stato ben anticipato da Pirandello, con il suo lavoro teatrale ‘I Giganti della Montagna’, il cui messaggio è quello della interazione imprescindibile tra artisti, intellettuali e popolo".
Che valore ha il suo ruolo di regista nel costruire nuovi modelli riguardo a tematiche come inclusione e violenza di genere?
“Il tipo di teatro che immagino è un teatro politico che punta ad abbattere ogni genere di discriminazione. Si tratta di un argomento che mi coinvolge moltissimo, proprio in un momento in cui le tensioni sociali sembrano essere a un livello molto acuto. Il fatto che sia nato un neo movimento femminista con una parte cospicua di donne impegnate in questa direzione è indicativo e fa ben sperare, anche se queste prese di posizione hanno sollevato un’onda violentissima di reazione. La cosa essenziale è contribuire per quanto possiamo a restituire intatta a ogni donna la dignità e la totale libertà di essere, a cui ha assoluto diritto”.
È stata mai criticata per le sue scelte?
“Certamente, in molte occasioni. Specialmente in Sicilia una donna che si pone in maniera autonoma e cerca di muoversi in ambito professionale con l’atteggiamento adeguato a un determinato ruolo, non viene guardata con occhio sempre benevolo. Soprattutto sono stata criticata per certe mie scelte controcorrente e ‘anti commerciali’, soprattutto da parte di dirigenti teatrali che mi hanno messo parecchi bastoni tra le ruote creandomi situazioni davvero molto complicate. Ho una precisa visione del ‘mio’ teatro, quindi insisto a escludere per mia precisa scelta di fare provini, preferendo assolutamente il metodo del laboratorio. Mi chiedo come sia possibile conoscere una persona nel tempo limitato di un provino, che per questo ritengo un sistema selettivo brutale e privo di senso: per me conoscere la persona dietro il volto dell’attore è essenziale.”
A cosa non vorrebbe mai rinunciare?
“Non vorrei mai rinunciare alla mia libertà e soprattutto non rinuncerei mai a fare teatro dentro il carcere. Tengo disperatamente a difendere la mia onestà intellettuale e tutti quei valori che sono per me imprescindibili. Per fortuna tanto nel mio ruolo di attrice che in quello di regista sono sempre riuscita a tenere duro e, nonostante le difficoltà, a farcela. Questo è significato fare arrabbiare persone anche parecchio importanti, ma non ho mai ceduto e di questo sono particolarmente fiera.”
Che titolo ideale darebbe alla sua vita se dovesse metterla in scena?
“Non ho dubbi: darei lo stesso titolo che ho dato al mio ultimo spettacolo a cui tegno moltissimo: ‘ Si illumina la Notte’ . E’ una frase estrapolata da un testo di Franco Scaldati, uno straordinario ‘poeta di strada’ siciliano che amo alla follia. Tanto è vero che mi è stato spesso detto di essere stata l’unica regista capace di tradurre sulla scena il pensiero di Scaldati. Come al solito, una scelta fuori dalla logiche commerciali, controcorrente in senso assoluto, ma che mi fa sentire viva e bene con me stessa. Posso dirlo? Scaldati, il poeta che mi scalda il cuore!”