“Non dirmi che hai paura” è un film intenso, necessario, soprattutto in questo periodo storico. La pensa così il compositore polistrumentista degli Afterhours Rodrigo D’Erasmo, che ha realizzato la colonna sonora di questa pellicola ispirata all’omonimo best seller internazionale di Giuseppe Catozzella, in cui si racconta la storia vera di Samia, interpretata nel film da Ilham Mohamed Osman e da Riyan Roble.
La vera storia di Samia Yusuf Omar
Ma cominciamo dall’inizio: una ragazza sfidò i tabù correndo per le strade di Mogadiscio, in una società dove una donna non dovrebbe correre. Si chiamava Samia e questa sua passione per la corsa la portò alle Olimpiadi. Nel 2008 questa ragazzina di 17 anni rappresentò infatti la Somalia ai Giochi Olimpici di Pechino. Corse senza velo, diventando così fulgido simbolo di libertà e di resistenza. A Pechino Samia arrivò ultima nella gara dei 200 metri femminili, ma il mondo intero fece il tifo per lei. Fu un un momento davvero magico, che al ritorno in Somalia scontò in modo pesante.
Samia Yusuf Omar divenne bersaglio delle rappresaglie dei governanti islamici del Paese perché correre a capo scoperto, nel suo Paese, è considerato un peccato mortale imperdonabile. Per allenarsi senza tanti condizionamenti per le Olimpiadi di Londra 2012, la ragazza, rischiando la vita, decise di intraprendere l’ardimentoso viaggio verso l'Europa . Purtroppo la velocista somala non ci arrivò mai e non arrivò nemmeno a Lampedusa, visto che affogò nel Mar Mediterraneo.
“Non dirmi che hai paura”
Al coraggio di questa giovane eroina, che ha sfidato il regime somalo e ha lottato per la sua libertà (e per quello che sperava essere il suo futuro), è dedicato il film “Non dirmi che hai paura”, diretto da Yasemin Samdereli, che attualmente è nelle sale cinematografiche italiane. “Per fortuna non è il primo della serie su queste tematiche – commenta Rodrigo D’Erasmo –: ricordiamo infatti ‘Io Capitano’, il bellissimo film di Matteo Garrone che l’anno scorso è stato molto apprezzato a livello internazionale”.
Proprio come sta accadendo per “Non dirmi che hai paura”, un film speciale che è stato insignito di riconoscimenti nazionali e internazionali, ricevuti nell’anno in corso: a giugno è stato l’unico lungometraggio italiano in concorso al Tribeca Film Festival di New York, dove si è aggiudicato il Premio Speciale della giuria; a luglio, al Munchen Filmfest ha vinto il Premio Internazionale del pubblico e, a settembre, alla regista Yasemin Samdereli è stato assegnato il premio Best director in Cina, in occasione del Silk Road International Festival.
A ottobre, infine, nella sezione Alice nella Città, manifestazione autonoma e parallela all'interno della Festa del Cinema di Roma, il film è stato premiato con il Sorriso Diverso Roma Award, assegnato per le tematiche sociali affrontate”.
L’intervista all'autore della colonna sonora
Rodrigo, come è riuscito a creare le atmosfere giuste per dare luce al racconto? “Abbiamo fatto un grosso lavoro con la regista Yasemin Samdereli, che è una donna di grande talento, con una grande visione. E’ molto esigente e ha un gusto estremamente raffinato, molto poco didascalico. Lei e non ha voluto in alcun modo che io calcassi la mano sul dramma. Mi ha sempre chiesto di essere più poetico, più leggero, per non appesantire ciò che già la storia narrava da sé. Ho operato senza enfasi, cercando di addolcire alcune note, sfiorarne delle altre, in modo che poi fosse la storia a parlare con tutta la sua potenza dei problemi delle donne in Somalia e delle terribili tragedie che purtroppo continuiamo ad accadere nei nostri mari”.
Ha suonato strumenti strumenti analogici o elettronici? “Non c’è quasi nulla di elettronica: uso qualche sintetizzatore, di qualche pad, ma è tutto molto organico. In realtà ho fatto un lavoro di ricerca sulle sonorità, perché non volevamo che il soundtrack suonasse etnico, ma volevo che l'Africa ci fosse. Per questo ho unito un po' i mondi, anche il mio di origine. Visto che sono in parte brasiliano, ho composto seguendo la tradizione degli strumenti del mio paese, soprattutto quelli percussivi. Mi sono avvalso della collaborazione di un percussionista bravissimo, Daniel Plants, che è anche uno dei ‘Selton’, una band di miei amici che stimo molto. Con lui abbiamo fatto un lavoro di ricerca sulle percussioni brasiliane di origini africane e su quelle puramente africane. Parliamo più o meno delle stesse origini”.
Che è della stessa matrice etnomusicologica? “Sì, alla fine abbiamo individuato una serie di timbri che secondo me sono molto originali, prima tra le quali quello del berimbau, uno strumento che nel nostro Paese ha avuto una sua fortuna qualche anno fa. Un tempo era uno strumento di caccia e poi si è trasformato in uno strumento musicale che accompagna il ballo, sciamanico, che può accompagnare anche le cerimonie. Ha una sua tribalità, che trovavo molto giusta per raccontare la storia di Samia, e poi è uno strumento poco melodico, interessante perché produce poche note, molto riconoscibili, ma molto ritmiche. Era ideale per dare il passo a questa corsa di Samia verso le Olimpiadi, ma anche la sua corsa disperata per fuggire dal Paese che la perseguitava”.
Ama fare colonne sonore?
“Tantissimo perché è molto stimolante. E’ una continua ricerca sonora e per me è un'occasione per sperimentare nuovi territori, di giocare con la musica. Io amo suonare un po' di tutto, sono violinista, però mi diverte molto spostarmi da un ambito all'altro. E' come se ogni progetto filmico mi restituisse una sorta di verginità musicale, mi permette di ripartire da zero e non cadere nei miei cliché, come qualunque musicista, artista, persona creativa.
Talvolta, facendo musica si tende a ricadere nelle famose comfort zone, invece lavorare insieme a un regista su una storia ogni volta nuova, ti porta inevitabilmente altrove e ti mette costantemente in discussione: questa cosa mi piace molto. Poi cerco di avere il mio suono e un carattere più distintivo possibile, però mi piace anche spaziare, osare, giocare.
Cambiando film devi essere bravo anche a non ripeterti, a trovare sempre spunti nuovi. Non è semplice, dipende da quanto si è coinvolti dalla storia che bisogna raccontare. Per questo cerco di selezionare tra i progetti solo ciò che mi ispira, ciò che accende in me qualche curiosità particolare. E poi è fondamentale che il regista sia anche una persona colta, intelligente, interessante, che ricerchi altrettanto. Allora si innesca una bella collaborazione”.
Quando torneranno invece gli Afterhours? “Non lo sappiamo. Siamo dormienti da qualche anno, ma la band è lì. Credo che nel momento in cui ci sarà da parte di tutti il desiderio di tornare sul palco insieme, ci saremo. Non so se suonando dal vivo, piuttosto che facendo un progetto discografico. Siamo tutti nel proprio flusso, ognuno ha tanti progetti e, per fortuna, ognuno di noi ha sviluppato un percorso personale ricco artisticamente. Però credo ci sia la voglia di tutti di tornare sul palco a fare musica insieme, a fare rock & roll, quindi appena si crea l'occasione giusta penso che accadrà”.
Intanto si muove su tanti altri fronti? “In effetti sono piuttosto vulcanico. Ho due nuovi progetti filmici: un documentario su Oliviero Toscani per l'anno prossimo e sto iniziando, con Marco D'Amore, a parlare del suo prossimo film.
Sto preparando un progetto discografico a doppia firma con Roberto Angelini, un disco di musica strumentale, che però avrà una sua veste un po' più complessa, perché sarà un libro con tanti scrittori e scrittrici. Ho coinvolto quelli a cui sono più legato e che stimo per fare insieme una sorta di indagine letterario-musicale che avrà poi anche una sua veste artistica perché ho coinvolto anche un artista visivo. Il tutto per un progetto multimediale a cui tengo tantissimo che dovrebbe uscire in tarda primavera.
Verso la fine di aprile, nelle prime due settimane di aprile invece sarò invece in tour con Steve Wynn, il cantante storico di Dream Syndicate, che è un mio caro amico di Los Angeles, che torna in tour in Italia. Poi collaboro con Diodato, con cui stiamo lavorando al disco nuovo e l'anno prossimo penso che torneremo sui palchi insieme”.