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Spender: “Con il rap evado dalla dipendenza. E canto le donne che nessuno ama”

L’intervista al rapper romano 31enne, reduce da Nuova Scena su Netflix e pronto a partire in tour a fine aprile. “Noi non lanciamo messaggi, ma raccontiamo la realtà e il disagio che vediamo e viviamo”

di MARIANNA GRAZI -
24 marzo 2024
Spender (Instagram)

Spender (Instagram)

Sul collo ha un tatuaggio con un angioletto-demone che ha i suoi stessi simboli tracciati sul corpo, una “S di Superman che è anche quella di Spender, e il cavallino della Ferrari”. Come lui, un angelo che si è sporcato, vittima di una maledizione. Ma chi è Gianluca Lisci, in arte Spender, 31 anni, arrivato dalla scena underground romana ad essere virale su TikTok e a sbarcare nel reality musicale del momento, Nuova Scena, su Netflix? L’abbiamo chiesto direttamente a lui.

Spender è un rapper o un trapper?

“Un rapper. Anche se secondo me c’è poca differenza. La trap è nata ad Atlanta, la Trap House era la casa in cui veniva tenuta la droga da vendere, e gli spacciatori hanno iniziato a coprire questo business aprendo degli studi di registrazione dentro quelle stesse case. Secondo me in Italia c’è stata una distinzione troppo forte tra rap e trap, comunque parliamo di spittare su una base, quindi la stessa cosa”.

Quando nasce?

“Quando mi sono disintossicato. Ho cambiato nome, quello che avevo prima me l’ero dato a 13 anni, all’epoca soprattutto a Roma andava di moda un altro tipo di rap, impegnato.

Lui non ha mai lavorato con la musica, ero solo un ragazzino che andava a fare freestyle al parchetto con gli amici. Con quei testi facevo saune di emozioni negative, mi lamentavo e auto commiseravo, era un ricatto morale con la musica sperando che mi portasse da qualche altra parte. Cosa che non è successa, se non a stare sempre peggio, ad usare sempre più droghe.

Quando ho smesso avevo 20 anni. E avevo bisogno di non essere più quella persona anche a livello artistico. Era il 2013, Asap Rocky aveva fatto questo freestyle campionando un pezzo jazz di Peggy Lee che si chiama ‘Big Spender’ e che io amavo. Avevo il bit, stavo facendo freestyle sopra e ad un certo punto ho detto ‘Sono io Spender, sono io il big Spender’ e ho pensato che poteva essere un nome, mi ha aiutato a tracciare un percorso nuovo”.

Spender
Spender

Quella persona c’è ancora da qualche parte dentro Spender?

“Sarebbe assurdo dirti che non c’è più, perché la dipendenza è una malattia cronica, recidiva e mortale. Non si cura, non passa, la puoi solo arrestare. Come? Non usando più droghe: è come il diabete, tu sai che rischi di morire mangiando gli zuccheri. Quella parte c’è ancora, la curo circondandomi di persone come me, faccio parte di gruppi di mutuo-aiuto in modo volontario e in cambio ti mantieni pulito e sobrio, non ti viene voglia. Ma la malattia si sposta, può andare sui videogiochi come su sesso e relazioni, quindi c’è bisogno di monitorare”.

I brani rap e trap spesso parlano di dipendenza, di violenza, di uso delle armi: non è un messaggio sbagliato per chi vi ascolta, che sono soprattutto giovani?

“Io vedo il rap come un genere che fotografa quello che c’è. Come ha detto Paola Zukar quando di recente si è parlato di censurare i testi, non è per il rap che avvengono violenze, crimini, sparatorie, che c’è la dipendenza e tutto il resto, ma è perché tutte queste cose esistono che nel rap vengono raccontate. Qualcuno può essere più autobiografico, qualcuno è solo un ‘fotografo’. Non mi piace la parola messaggio accostata alla musica rap, perché non è un genere che intende trasmettere un messaggio, non è giornalismo”.

Quindi date voce a un disagio che vedete?

“O che viviamo. Per esempio, se ora vanno di moda i cosiddetti ‘maranza’ quella è una fotografia sociale di quello che sta succedendo”.

Spender si è preso la sua rivincita?

“Il mio obiettivo quasi ogni anno si allunga. L’anno scorso ho fatto uscire il mio primo album e nelle storie avevo detto ‘in fondo io nella vita sognavo solo di fare un album e un tour’, come per dire che ormai ero una persona realizzata. Però non significava nulla, ma è importante essere contenti di quello che si ha oggi. Quindi in questo momento ho una rivincita gigante su di me. I miei obiettivi sono sempre lì, li guardo, li inseguo. Però sono molto grato di quello che ho oggi, questo è il mio percorso per arrivare a quello che sogno, per arrivare a non dover nemmeno pensare a quanti soldi spendo perché sto bene con la mia musica e basta”.

Spender è stato uno dei concorrenti di Nuova Scena (Instagram)
Spender è stato uno dei concorrenti di Nuova Scena (Instagram)

Come ha vissuto l’eliminazione da Nuova Scena?

“Come un’ingiustizia, è stata l’esibizione della mia vita, la strofa più bella che abbia mai scritto almeno fino a quel momento e per me non aveva senso uscire. L’ho presa male perché per tutta la settimana avevo avuto l’impressione che sarei uscito, sapevo che il pezzo era difficile, come ha detto Noyz m’ha fatto tribolà col testo e mi sono sentito non voluto sulla traccia. Tutto questo mi ha portato ad essere all’altezza della canzone, ad esibirmi come se fossi con un mio amico invece che con uno che ascoltavo quando avevo 13 anni, ho avuto un fuoco dentro e una sicurezza che mi ha fatto spaccare tutto sul palco. Quindi quando sono sceso ho pensato: ‘Io passo’, mi sono quasi auto illuso che sarei andato in finale fino al verdetto”.

La sensazione iniziale si è ribaltata

“Esatto! E quando mi hanno detto ‘non passi’ li ho guardati pure male e poi ho cercato un momento di privacy per sfogarmi. Ero arrabbiato, in quel momento, avevo la convinzione che quei 100mila euro potessero essere il budget per pubblicare il mio album, per investire sulla mia musica. Perché io prendo soldi dalle etichette da tanto ma un grande investimento su uno della mia età è più raro, perché l’industria musicale è un po’ marcia secondo me. Era una convinzione sbagliata quella, basata sul mio vissuto: non ero consapevole di che tipo di cambiamento ci sarebbe stato nella mia vita, stavo solo a rosicà. In generale però me la sono vissuta come una competizione sana con cui mi sono fatto tanti amici”.

Nei suoi testi il sesso è un argomento ricorrente: un’ossessione o semplicemente un tema caro?

“Sicuramente bisogna stare attenti a quella che può essere una dipendenza sessuale, è una cosa che monitoro e che non ho. Ma penso che all’inizio avevo bisogno di qualcosa nei testi che riguardasse anche gli altri: io non fumavo più, in strada non ci stavo più, di come stavo male non volevo parlare e nel mio dolore gli altri non ci si potevano identificare se per primo io non imparavo a comunicarlo bene. Avevo bisogno di un link con l’ascoltatore, e ho pensato che il sesso è una cosa che facciamo tutti (più o meno)”.

Tutto qua?

“Parlare di sesso dà così tanto fastidio? La sessualità è normalissima ma appare come un problema. Per uno come me fare sesso con una persona o andarci a prendere un caffè è quasi la stessa cosa. Entrambe le azioni possono essere superficiali o molto intime, è un momento di condivisione, per conoscere di più una persona oppure esprimere un sentimento per chi già si conosce, un’intesa, farsi del bene a vicenda. Ma noi viviamo in un Paese represso sessualmente parlando. Ed è un grande problema questa cosa. Io poi cerco un modo ironico e leggero per parlarne”.

Spender in concerto (Instagram)
Spender in concerto (Instagram)

Parla molto di donne e alle donne nelle sue canzoni

“Dicendo che se vogliono andare con più uomini non c’è niente di male, perché se un uomo va con più donne è un fico e invece una donna che fa lo stesso è una tr*ia. Per me va sdoganata questa parola, non è un’offesa al massimo un’intenzione, che chiunque ha diritto di avere”.

C’è un problema con la sessualità, ok: ma non pensa sia troppo arrivare a ‘oggettificare’ la donna nei brani?

“Non nei miei testi. La donna nei miei brani non lo è mai, e quando parlo di cose oggettificanti dico ‘lei vuole che’. Su Netflix ho detto ‘Lei mi dice dammi uno schiaffo ti prego’, quindi sto raccontando un contesto in cui c’è consenso da entrambe le parti che in quel momento diventa puramente sessuale, non è un atto di violenza ma un ‘ci piace a entrambi questa cosa, facciamola’.

Quindi il suo vuol essere un modo per sdoganare una libertà sessuale, soprattutto femminile, che invece nella realtà è limitata?

“Noi siamo figli di un tipo di femminismo in cui una ragazza deve per forza essere dominatrice. Essere ‘dom’ o ‘sub’ non c’entra niente con gli ideali politici. Un femminismo un po’ vecchio, radicale, pensa che se sei donna ‘sub’ sei maschilista. Non è così, forse hai solo un’intenzione o una fantasia erotica e poi magari nella vita sei la più femminista del mondo, sei una donna di potere e per questo potrebbe piacerti perderlo nell’atto sessuale. E invece prima è come se la politica entrasse nella sessualità, quindi la donna doveva per forza sottomettere l’uomo. È fichissimo questo ribaltamento dei ruoli ma già il fatto che lo si chiami ribaltamento dà adito a un maschilismo di fondo. I ruoli sono alla pari, in realtà, ci deve essere libertà di scelta di chi domina e chi viene sottomesso”.

Spender è femminista?

“Super femminista. Intanto parliamo di parità e non superiorità della donna sull’uomo, siamo identici. E un uomo deve essere femminista, non può. Anzi dovrebbe, perché purtroppo non è così”.

Ma la parità oggi non è reale, ad oggi

“Sì e vista la società in cui viviamo siamo quasi abituati al fatto che l’uomo venga considerato – non per forza tutte le cose insieme – o migliore, o più forte, o colui che deve portare i soldi a casa mentre la donna si deve preoccupare di fare le faccende e dei figli. Qualcosa che io, da non monogamo, aberro, non ha senso di esistere”.

Spender (Instagram)
Spender (Instagram)

Cosa pensa del patriarcato?

“Dirò una cosa che magari per una donna è difficile da accettare: entrambi i sessi soffrono il patriarcato, perché sembra che l’uomo debba essere più forte, debba essere superiore, protettivo e tutte queste cose; che la donna debba essere inferiore, debba essere più debole, più accudente, deve mettere al mondo i figli, preoccuparsi del lato emotivo della coppia e così via. Questa roba fa soffrire entrambi i sessi, non solo le donne. Per questo sono femminista e credo che il patriarcato, insieme alla repressione sessuale, sia una delle cose peggiori che esistano”.

Ha scritto un testo molto provocatorio che si intitola “8 marzo”. Perché?

“Perché ci credo nell’8 marzo. Io sono un gran provocatore quindi ho voluto usare questo giorno, che secondo me ha ragione d’esistere, perché sono stato frainteso molte volte e quindi volevo spiegare di essere un grande amante delle donne.

Però farlo in modo provocatorio: quali donne amo di più? Quelle che non ama nessuno. Quelle che a volte non amano neanche le altre donne: quelle che hanno una libertà sessuale, le sex workers, le persone che sono abbandonate dai genitori e sviluppano determinati problemi, chi ha fantasie erotiche e cresce con la vergogna, la ragazza giovane a cui piacciono gli uomini più grandi.

In Italia, dove manca un’educazione affettiva e amorosa, non viene accettata questa cosa. È scandalosa. Invece secondo me è salvifica. Nel brano dico di essere io l’otto marzo perché so di essere una persona che guarda alla donna per quella che è, senza soffermarmi sull’aspetto, ma cerco l’anima della persona”.

Progetti futuri?

“Lavoro all’album nuovo e dal 27 aprile sono in tour”.