Mai come quest’anno forse, le Olimpiadi vanno ben oltre lo sport. Atleti e atlete mostrano il loro viso al di là della pettorina e della divisa, senza nascondere debolezze e fragilità che sono tipiche della persona se non lo sono dell’agonismo.
E’ in questa atmosfera che le medaglie, quelle conquistate o anche solo sfiorate con un dito, assumono un peso ben più grande del loro metallo.
Come quella d’oro che ieri è finita al collo di Noah Lyles. Classe 1997, velocista statunitense pluripremiato e figlio d’arte. Nella finale dei 100 metri, madre delle gare di atletica, è stato il più veloce di tutti. Partito timido rispetto agli altri, ha poi guardato in faccia l’obiettivo andandogli incontro, ha messo la testa davanti a tutti e se l’è portato a casa, beffando di una (letteralmente) manciata di secondi il giamaicano Kishane Thomson.
Il ruggito finale, l’urlo di gioia e di liberazione, il sorriso. Dietro tutto ciò c’è tanto altro. C’è sempre tanto altro. Basterebbe saper osservare.
"Soffro di asma, allergie, dislessia, ADD, ansia e depressione. Ma ti dirò che ciò che hai non definisce ciò che puoi diventare. Perché non tu!” ha scritto Lyles dopo la gara, su ‘X’.
Già nel 2021, alle Olimpiadi di Tokyo, era venuta fuori la sua depressione. Aveva iniziato a curarsi da poco quando conquistò la medaglia di bronzo ai 200 metri.
Tre anni dopo quel sorriso contagioso che ieri abbiamo visto tutti. La pettorina con il suo nome alzata in cielo e il dolce abbraccio con la madre, in prima fila sugli spalti.
Why not you!