Vietare il velo al lavoro? Non è sempre discriminazione secondo la Corte di giustizia Ue

I giudici si sono espressi sul caso di una donna belga musulmana ha fatto causa all’azienda per il mancato contratto per il suo rifiuto di togliere l'hijab

di MARIANNA GRAZI
16 ottobre 2022

donna hijab

Non basta quello a cui stiamo assistendo da settimane in Iran, dove centinaia di manifestanti sono state picchiate e uccise. Non basta che siano rimasti vittima della durissima repressione anche una ventina di minori. Non bastano oltre mille arresti tra attivisti, giornalisti anche stranieri, semplici cittadini e cittadine che dalla morte della 22enne Mahsa Amini si sono riversati sulle strade della Repubblica Islamica e di centinaia di città in tutto il mondo, da Melbourne a New York, da Tokyo a Londra, per protestare contro un regime che sta calpestando i diritti umani delle sue donne.

La questione del velo riguarda anche l'Europa

donna musulmana corte europea

La questione del velo islamico, ora al centro delle proteste delle donne iraniane, riguarda da vicino anche l'Europa

L'affaire hijab sì/hijab no, imposto e obbligatorio o libera scelta è un tema caldo ovunque, anche in Europa, basta vedere l'adesione alle proteste in solidarietà alle iraniane ma al contempo la battaglia legale che da anni si svolge, proprio sul velo islamico, in Francia. Un paradosso, all'apparenza. In cui però si registra una presa di posizione (un passo indietro? presto per dirlo ma non fa ben sperare) da parte di chi questo diritto (perché si parla di un diritto se una donna sceglie di indossare o meno un capo di abbigliamento) dovrebbe garantirlo.

Il caso della donna belga e la decisione dei giudici di Lussemburgo

Nella sentenza sul caso di una giovane donna belga, musulmana, a cui un'azienda aveva negato nel 2018 il contratto di tirocinio per essersi rifiutata di togliere il velo e conformarsi alla politica di "neutralità" religiosa, la Corte di Giustizia europea si è così espressa: vietare a una donna di fede islamica di indossare l'hijab sul luogo di lavoro non è discriminazione. Ah no? Certo, aggiunge il tribunale di Lussemburgo, a patto che il divieto sia generalizzato e non rivolto a una singola religione. Secondo i giudici europei, infatti, "la regola interna di un’impresa che vieta di indossare in modo visibile segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se applicata in maniera generale e indiscriminata". Quindi basta che l'impresa in questione non si limiti a imporre il divieto sul velo islamico, ma lo faccia anche con la kippah ebraica, con la croce cristiana, con tutti i segni, gli oggetti, i capi di abbigliamento riconducibili a una qualunque religione. In questo caso non si può parlare di discriminazione, altrimenti c'è disparità di trattamento. Peccato che però non ci siano termini di paragone con altri soggetti a cui, in quell'azienda, sia stato imposto e alla fine la "vittima" sia stata solo la donna che si è vista negare il contratto.

La motivazione della sentenza

La Corte di Giustizia europea ha preso posizione ancora una volta sul dibattito fortemente divisivo tra religione e laicità. Il parere dei giudici di Lussemburgo è infatti arrivato a circa un anno di distanza da un altro pronunciamento, sollecitato dal tribunale del Lavoro francofono di Bruxelles: se il datore di lavoro esige che i/le dipendenti siano vestiti/e in modo 'neutro', senza esibire alcun simbolo o segno religioso, filosofico o spirituale in modo evidente, può farlo senza essere accusato di discriminazione. Nella sentenza recente i giudici, dando ragione all'azienda, scrivono che "La religione e le convinzioni personali devono essere considerate un solo e unico motivo di discriminazione, altrimenti pregiudicano il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro stabilito dal diritto dell’Unione Europea", mentre secondo la donna, la decisione dell’azienda di escluderla dal tirocinio per cui si era candidata "sarebbe fondata direttamente o indirettamente sulle sue convinzioni religiose". Ora potrà contestare la decisione, ma solo qualora riuscisse a dimostrare che il regolamento dell’impresa sul personale non è davvero neutro, ma "comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia".

Cosa può significare la decisione

religione a scuola

La decisione dei giudici fa venire più di un dubbio sulla permanenza del crocifisso nelle aule di scuola

La posizione della Corte di Giustizia europea, pur nel merito di un caso specifico, sembra però andare nella direzione della la sottrazione, nei luoghi di lavoro o comunque nei posti dove dovrebbe essere garantita questa tanto cara "neutralità" o laicità che dir si voglia, di tutti gli altri simboli che si riconducono all'appartenenza ad un culto religioso. Come non pensare, allora, al crocifisso nelle aule scolastiche, sulla quale però gli stessi giudici europei non hanno mai espresso giudizi per una sua esclusione. Lo si legge anche sull'Ansa: la decisione sulla donna belga "fa tornare alla mente anche il caso del crocifisso italiano" e arriva proprio mentre la Corte suprema indiana prende tempo sull’hijab indossato dalle studentesse durante le lezioni a scuola. Ma, come ben sappiamo, si pone anche nel contesto generale delle rivolte in Iran, dove le donne portano avanti senza sosta la protesta contro il regime.