Non basta quello a cui stiamo assistendo da settimane in Iran, dove centinaia di manifestanti sono state picchiate e uccise. Non basta che siano rimasti vittima della durissima repressione anche una ventina di minori. Non bastano oltre mille arresti tra attivisti, giornalisti anche stranieri, semplici cittadini e cittadine che dalla morte della 22enne Mahsa Amini si sono riversati sulle strade della Repubblica Islamica e di centinaia di città in tutto il mondo, da Melbourne a New York, da Tokyo a Londra, per protestare contro un regime che sta calpestando i diritti umani delle sue donne.
La questione del velo riguarda anche l'Europa
L'affaire hijab sì/hijab no, imposto e obbligatorio o libera scelta è un tema caldo ovunque, anche in Europa, basta vedere l'adesione alle proteste in solidarietà alle iraniane ma al contempo la battaglia legale che da anni si svolge, proprio sul velo islamico, in Francia. Un paradosso, all'apparenza. In cui però si registra una presa di posizione (un passo indietro? presto per dirlo ma non fa ben sperare) da parte di chi questo diritto (perché si parla di un diritto se una donna sceglie di indossare o meno un capo di abbigliamento) dovrebbe garantirlo.Il caso della donna belga e la decisione dei giudici di Lussemburgo
Nella sentenza sul caso di una giovane donna belga, musulmana, a cui un'azienda aveva negato nel 2018 il contratto di tirocinio per essersi rifiutata di togliere il velo e conformarsi alla politica di "neutralità" religiosa, la Corte di Giustizia europea si è così espressa: vietare a una donna di fede islamica di indossare l'hijab sul luogo di lavoro non è discriminazione. Ah no? Certo, aggiunge il tribunale di Lussemburgo, a patto che il divieto sia generalizzato e non rivolto a una singola religione. Secondo i giudici europei, infatti, "la regola interna di un’impresa che vieta di indossare in modo visibile segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se applicata in maniera generale e indiscriminata".Quindi basta che l'impresa in questione non si limiti a imporre il divieto sul velo islamico, ma lo faccia anche con la kippah ebraica, con la croce cristiana, con tutti i segni, gli oggetti, i capi di abbigliamento riconducibili a una qualunque religione. In questo caso non si può parlare di discriminazione, altrimenti c'è disparità di trattamento. Peccato che però non ci siano termini di paragone con altri soggetti a cui, in quell'azienda, sia stato imposto e alla fine la "vittima" sia stata solo la donna che si è vista negare il contratto.#ECJ : A company’s internal rule prohibiting the visible wearing of religious, philosophical or spiritual signs doesn’t constitute direct #discrimination if it is applied to all workers in a general way #Religion #EqualTreatment 👉 https://t.co/ATb3CgcnmO
— EU Court of Justice (@EUCourtPress) October 13, 2022