Fine vita: padroni del nostro corpo, ma non troppo

La sentenza della Consulta è un passo in avanti, una timida e prudente spinta per far uscire la questione del fine vita da quella zona di confine tra il sacro e il profano che la immobilizza

di TERESA SCARCELLA
19 luglio 2024
Fine vita, sentenza della Consulta e la battaglia per l'autodeterminazione

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Se pensiamo di essere liberi e padroni di noi stessi, ci sbagliamo. Stiamo solo guardando la vita con le lenti dell’illusione, che ci riconsegnano un’immagine ingenua di tutto quello che ci circonda. Il libero arbitrio è fittizio, limitato, superato da un volontà superiore, astratta, che esiste anche se non percepita, semplicemente perché imposta. 

Il nostro corpo non ci appartiene in toto. E’ evidente. Se fosse una società, le maggiori azioni apparterrebbero al supposto creatore, reputato tale non da tutti. Poco importa se a riconoscerne la genitorialità sia solo una parte, perché tutti gli altri dovranno semplicemente adeguarsi e accettare di appartenere a qualcuno nella cui esistenza neppure si crede. Assurdo vero? Eppure è così. 

Il suicidio per il Cattolicesimo è un peccato grave. Questo è il punto. Potremmo stare qui a disquisire sull’immobilismo della politica italiana sul tema del fine vita, ma sarebbe come girarci intorno. E’ consapevole impotenza. Quello del suicidio medicalmente assistito (come l’aborto, la fecondazione assistita, i matrimoni egualitari) è uno di quei temi che si pone perfettamente sulla linea di confine tra sacro e profano, tra laico e religioso, tra Stato e Chiesa. Spostarlo, facendolo rientrare in un territorio o nell’altro, significa dover rivedere i confini, ristabilire gli equilibri, e non è mai un’operazione indolore, né tantomeno immediata o disinteressata.

E’ qui che la pronuncia della Consulta si comprende meglio: analizzare caso per caso è come dire un passo alla volta, è una strategia prudente.

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"Non abbiamo ottenuto il riconoscimento pieno del diritto ad essere aiutati a morire anche per quelle persone che sono sottoposte a sofferenze insopportabili anche se non sono dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, quella era la nostra richiesta principale – ha commentato Marco Cappato, dell'associazione Luca Coscioni – Però la Corte ha fatto dei passi avanti importanti nell'inerzia assoluta della politica. È evidente che ci siano due aperture: da una parte vengono riconosciuti i trattamenti di sostegno vitale non forniti da personale sanitario e il fatto che anche coloro che li hanno rifiutati potranno accedere al suicidio medicalmente assistito. Continueremo con il nostro lavoro di assistenza alle persone che si rivolgono a noi, non escludendo nuove disobbedienze civili”.

“La Corte costituzionale con questa sentenza, di fatto allarga il significato delle terapie di sostegno vitale, dovendosi comprendere in queste non solo i Nia ma tutte le terapie farmacologiche interventistiche e di altro tipo svolte da personale infermieristico o dagli stessi familiari senza le quali il soggetto morirebbe – specifica l'avvocato Gianni Baldini, uno dei legali dei ricorrenti – Pertanto, sussistendo le quattro condizioni previste nell'ordinanza 242 (piena capacità di intendere e volere, sofferenze intollerabili, prognosi infausta, refrattarietà ad ogni terapia) il soggetto potrà chiedere di accedere al suicidio medicalmente assistito a prescindere dal tipo di terapie a cui è in quel momento sottoposto”.

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La situazione attuale in Italia

Ad oggi, in Italia, sono varie le persone che stanno misurando la loro libertà, in attesa di capire se possono decidere per sé stesse o meno. Lo hanno chiesto e in alcuni casi hanno già ricevuto un no, ma non si sono fermate di fronte al diniego. E’ il caso, per esempio, di Laura Santi, 49enne umbra affetta da sclerosi multipla; o di Martina Oppelli, 49 anni di Trieste, tetraplegica, affetta da sclerosi multipla. 

Vorrebbero poter morire a casa loro, senza dover intraprendere un viaggio (senza ritorno) pesante a livello economico, fisico, mentale...come quello che dovette affrontare Sibilla Barbieri, 58 anni, paziente oncologica, in Svizzera; o senza dover affrontare un percorso giuridico ancora più straziante come quello che toccò a Eluana Englaro

“Apripista? Preferirei usare la parola 'pionieri’ e tornare al deserto che abbiamo trovato nel '92, quando Eluana restava una cittadina italiana che aveva espresso chiaramente il suo diritto all'autodeterminazione. Voleva essere lasciata andare – afferma Beppino Englaro in un'intervista a Repubblica, dopo la sentenza della Corte Costituzionale – Per godere del primo sussulto di libertà noi Englaro ci abbiamo messo 15 anni e 9 mesi. Come famiglia abbiamo pagato un prezzo altissimo. La Corte oggi sta dicendo a chi c'è in Parlamento 'Ma che fai? Sei al servizio dei cittadini o no? Datti da fare”.