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Manuela Mallamaci con il figlio Mario, affetto da Sindrome di Chops
Manuela Mallamaci, 36 anni, è la mamma di Mario, un bambino di 3 anni e mezzo. Il suo unico figlio, è affetto da una malattia genetica rarissima, la sindrome CHOPS. Manuela invece nella vita è una ricercatrice, un'astrofisica, “ma presiedo anche la Fondazione CHOPS Malattie Rare, istituita per provare a dare un supporto nel trovare una cura e un aiuto per questi bambini affetti dalla malattia”.
La Sindrome Chops
Dopo due anni di ricerche a seguito della diagnosi Mallamaci ha scoperto che della malattia esistevano soltanto 13 casi descritti in letteratura medica. Qualcosa di spaventosamente raro. È genetica, non è ereditaria (per quanto se ne sa) ma insorge de novo nei bambini in fase di formazione embrionale. La parola CHOPS è un acronimo inglese in cui ogni lettera indica un sintomo della malattia: la C sta per tratti del volto grossolani e deficit cognitivo, la H per difetti cardiaci, la O per obesità, la P per coinvolgimento polmonare e la S per displasia scheletrica e bassa statura. “Oltre a questi sintomi ce ne sono anche degli altri – spiega la 36enne – quelli forse più evidenti sono i difetti alla vista e all'udito, tant'è che Mario oltre ad avere tutti i sintomi che ho elencato indossa anche le protesi acustiche e gli occhiali”.
Il calvario verso la diagnosi
Sin da quando è nato Mario ha iniziato a manifestare qualche piccolo sintomo, ma essendo in piena pandemia di Covid e non c'era modo di fare verifiche. Poi l’incubo: la prima estate gli hanno diagnosticato dei difetti interventricolari multipli, scoperti grazie a una bronchite. “È stato un calvario e lì non sapevamo che cosa avesse Mario, ci dicevano che probabilmente era una sindrome. Aveva anche un ritardo psicomotorio, insomma anche a me e al padre si erano accesi dei campanelli vedendolo al mare con altri della stessa età”.
Scompensato a livello cardiaco a pochi mesi, Mario ha dovuto iniziare una terapia con diuretico, dopo di che è stato ricoverato per l'intervento. Andava operato subito e, non appena si fosse ripreso, andava fatto un secondo intervento ancora più importante per provare a risolvere del tutto il problema, ricorda ancora la donna. E così è stato: al primo intervento cardiochirurgico aveva 6 mesi e al secondo appena un anno e mezzo di vita.
Quando è arrivata la diagnosi?
"Praticamente le indagini genetiche sono iniziate subito. Io in gravidanza avevo fatto delle indagini anche economicamente importanti, non solo quelle di routine; in ogni caso non sono talmente approfondite da poter scovare malattie rare come può essere la Chops. Quindi in gravidanza tutto apposto, poi quando Mario è stato ricoverato per gli interventi al cuore abbiamo iniziato a fare queste indagini genetiche che sono durate 2 anni in pratica, si andava a tentativi. Non riuscivamo a capire che cosa avesse Mario, noi speravamo non avesse niente, che magari fosse solo il cuoricino e invece poi a gennaio 2023 è arrivata la risposta: sindrome Chops”.
Da chi siete stati seguiti?
“Mario è stato seguito al Sant'Orsola di Bologna per quanto riguarda la parte di genetica, malattie rare e anche quella cardiologica. I dottori, quando eravamo ancora ricoverati per il secondo intervento, sono venuti in camera e mi hanno detto: ‘Signora anziché farvi fare un esame lunghissimo ad ampio spettro andiamo mirati su un gene specifico, perché abbiamo un bambino in cura qui da noi che è molto simile a Mario (ai tempi aveva 14 anni), con le stesse caratteristiche’. Grazie a questa analisi sono arrivati alla diagnosi: una malattia così rara, due bambini nello stesso ospedale… doveva andare così, in questo modo abbiamo accelerato la cosa e io sono grata a quei medici che tuttora si occupano di mio figlio”.
Come si vive quotidianamente con questo tipo di malattia?
“La risposta secondo me varia in base all'età. Per un bambino appena nato, ma ancora fino ai 3 anni – quindi ancora Mario è in quella fase – sicuramente il quotidiano è molto, molto complicato. La situazione è complicata perché questi bambini il più delle volte hanno questa problematica cardiaca che comunque è collegata poi anche alla parte respiratoria, quindi sono bambini molto delicati che se si ammalano rischiano dei ricoveri e rischiano anche la terapia intensiva, rischiano la morte.
La malattia va tenuta in considerazione molto attentamente, soprattutto nelle prime fasi della vita, proprio per questa caratteristica cardiorespiratoria di cui non è nemmeno chiara l'origine, perché questi bambini abbiano questa sensibilità così marcata. Mario per un lungo periodo dopo essersi ammalato ha dovuto usare la bombola di ossigeno, anche 24 ore al giorno. Per fortuna lo hanno operato al cuore. La mia percezione è che sia stata una combinazione di fattori: ha risolto quel problema cardiaco, sta crescendo, abbiamo anche cambiato vita perché stavamo a Padova, una città nella pianura padana dove sappiamo che ci sono forti problemi di inquinamento, e ora viviamo a Palermo”.
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Ci si dimentica spesso che la malattia colpisce la persona singola ma viene sconvolta la vita di tutta la famiglia.
“Certo, i caregiver sono importanti tanto quanto i pazienti stessi. Noi diventiamo medici e infermieri dei nostri figli, devi comunque rivedere tutte le priorità della tua vita, come l'avevi immaginata, cambia tutto. Noi abbiamo cambiato mansione lavorativa trasferendoci a Palermo, facciamo per fortuna sia io che mio marito le cose che volevamo, lui è in polizia e io sono ricercatrice ora con maggiore responsabilità. È stato tutto stravolto. Abbiamo fatto un passaggio intermedio a Reggio Calabria, la città dove io sono nata: per un anno di vita di Mario mio marito era a Padova e noi siamo scesi a Reggio proprio per far stare il bambino sul mare, ed è stato un toccasana.
I genitori di bambini con la Chops che hanno risolto la parte acuta di infezioni respiratorie e cardiache si trovano a fronteggiare poi la parte cognitiva. Mario ha 3 anni e mezzo e ancora non cammina, non parla, quindi deve fare costantemente terapie riabilitative; noi facciamo 4 volte a settimana logopedia e 3 volte a settimana tra fisioterapia e psicomotricità con il medico a casa, quindi c'è una presa in carico globale. Viene anche lo psicologo per supportare noi genitori. Cerchiamo di colmare questo gap che Mario dimostra rispetto ai suoi coetanei, che è enorme, nella speranza che raggiunga l'autonomia a un certo punto, perché chiaramente quella è la speranza di un genitore, che il proprio figlio sia felice e possa essere autonomo, perché noi non siamo eterni”.
Lei ha creato e presiede una fondazione: com’è nata l’idea?
“Per noi la fondazione è il core delle nostre vite. Una volta ricevuta questa diagnosi per Mario, c’erano tanti modi di reagire, magari sostenendo Mario con le terapie di supporto che è quello che facciamo ma abbiamo voluto fare anche un passaggio in più. Intanto volevo mettermi in contatto con tutte le famiglie del mondo che stavano vivendo la stessa situazione e poi in parallelo ho voluto contattare gli ‘scopritori’ della Chops perché io da ricercatrice sono convinta che la scienza possa dare più risposte di quanto pensiamo.
La diagnosi è arrivata il 26 gennaio 2023 e già il 27 io ero lì che cercavo altre famiglie e medici. La prima con ci sono entrata in contatto è stata la mamma di Leta Moseley, prima bimba diagnosticata di Chops che ha oggi 27 anni. Poi ho parlato con Ian Krantz, il genetista che ha scoperto la Sindrome nel 2015, a cui ho chiesto se c’era speranza per la ricerca e mi ha risposto che assolutamente è possibile scoprire qualcosa che aiuti questi bambini e migliori la loro qualità della vita. Da lì abbiamo prima creato una pagina Instagram dedicata a Mario, per far conoscere attraverso i social una cosa che altrimenti nessuno conoscerà mai, e poi abbiamo avviato una raccolta fondi che c’è ancora (Un aiuto per Mario e non solo)”.
Com’è andata?
“Abbiamo ricevuto una valanga di donazioni, soprattutto dalle persone che ci conoscevano e non immaginavano assolutamente cosa stessimo vivendo. Non se lo aspettavano, perché la gente pensa che la malattia non ci possa toccare, invece purtroppo… Secondo me hanno empatizzato molto e abbiamo avuto così tante donazioni (80 mila euro in poco tempo) che da lì poi è nata l'idea di formalizzare il tutto. Volevamo fare un'associazione e poi invece è nata una fondazione che si muove con rigore, perché noi all'interno della stessa abbiamo un comitato medico scientifico che indirizza le nostre scelte. E, in poco meno di un anno, abbiamo avviato di fatto la ricerca finanziando una compagnia di biotecnologie di Boston il cui compito è quello di individuare dei farmaci che possano migliorare la qualità della vita dei bambini affetti da Chops”.
Avete già dei risultati, pur nel poco tempo trascorso?
“Si abbiamo in mano questa lista di farmaci che però diciamo ‘trattiamo con le pinze’. È frutto di un algoritmo di intelligenza artificiale che, per quanto potente, poi il risultato va attestato seguendo i vari passaggi della ricerca, quindi noi adesso siamo nella fase di validazione di questi risultati in laboratorio.
Ci stiamo facendo carico di tutto grazie alle donazioni. Puntiamo a farlo velocemente, perché noi come strategia vorremmo provare ad aiutare la generazione attuale dei bambini con la Chops. Poi siamo consapevoli che magari non ci arriveremo adesso, sarà fra 10 anni. Pazienza.
Intanto nel nostro piccolo vediamo il riscontro: comunque è una malattia rara, quindi non fa effetto come magari la parola autismo, piuttosto che tumore infantile, che sono molto più comuni e, purtroppo, perché si riscontrano maggiormente. Noi piano piano stiamo costruendo una bella cerchia di volontari, in primis, perché il lavoro da fare ce n'è tantissimo e speriamo di allargarci, perché abbiamo bisogno di molti”.
Che tipo di attività portate avanti con la Fondazione?
“Intanto diciamo che essendo nata il 13 maggio 2023 è appena un anno e mezzo che è operativa. Però abbiamo avviato qualche prima iniziativa periodica, tipo campagne natalizie, di Pasqua, e c'è una bella risposta. A luglio a Filadelfia abbiamo organizzato il simposio per le famiglie ma non solo: abbiamo realizzato un evento di due giornate, che è stato un vero e proprio convegno medico scientifico, a cui hanno assistito i genitori con i bambini, con i pazienti della Chops”.
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Come mamma, scienziata - e sappiamo i problemi in Italia per le donne lavoratrici e madri, oltre al gender gap ancora importante nelle materie STEM - come riesce conciliano tutto questo impegno? Sente di rinunciare a qualcosa?
“Qualche rinuncia c'è, tante anzi. Nel senso che il tempo adesso lo investiamo in maniera diversa, ma secondo me la chiave è avere comunque un rapporto di coppia solido, nel senso che se magari non avessi mio marito che mi supporta in quello che facciamo, sarebbe molto complesso, perché si sacrifica un po'. Il tempo che poteva essere dedicato allo svago, lo si impiega per la fondazione, per andare a conoscere le persone che hanno donato o se c'è qualche iniziativa, qualche progetto che stiamo portando avanti. E c'è Mario che deve fare controlli su controlli.
Però ti dico ovviamente bisogna equilibrare il tutto, perché poi è importante anche fermarsi, ragionare e rilassarsi, quindi trovare il tempo per fare le cose normali, che si è ridotto però magari è diventato più di qualità e mi auguro di riuscire sempre a goderlo appieno. Chiaramente non è facile, a volte ci sono dei momenti che c'è da impazzire, piovono impegni durante la stessa giornata, uno dopo l'altro, quindi provare a organizzare e fronteggiare il tutto in contemporanea con le esigenze di Mario è complesso, e noi giorno per giorno cerchiamo di andare avanti e di portare la sera a casa un piccolo risultato, un piccolo passetto in più”.
L’obiettivo immagino sia rendere quelli che oggi sono bambini il più possibile autonomi da adulti
“Si assolutamente. Io ho visto pazienti più grandi e non sono autonomi. Con la fondazione abbiamo girato quasi tutti i continenti per trovare famiglie e ho avuto modo di incontrare bambini più grandi di Mario, il più grande ha 30 anni, e non sono autonomi. Poi li chiamo bambini anche se non lo sono perché un’altra caratteristica è la bassa statura e sembrano eternamente piccoli. Hanno bisogno di una presenza costante di un caregiver, ma la speranza è che questo lavoro possa far sì che qualcosa cambi. La frustrazione più grande per noi genitori è che vedi che tuo figlio capisce ma ha difficoltà a organizzarsi a livello motorio e linguistico per dare risposte. Questo è molto potente, che tutti riscontrino questo comune aspetto per la Chops. Proviamo con la lingua dei segni, ma poi c’è la risposta motoria da riorganizzare… è quello che ci spinge a impegnarci per provare a sbloccare in qualche modo la situazione, in modo che questi bambini possano esprimersi in qualche modo”.
Cosa la rende felice nel quotidiano?
“Il sorriso di Mario, che nonostante tutto è un bambino pieno di vita. Pur nelle sue difficoltà cerca di essere un terremoto, monello. E poi mi rende felice vedere come la Fondazione progredisce, col riscontro che abbiamo dalle persone e dagli esperti”.