Myanmar, non c'è pace per i Rohingya. Solo nei primi 7 mesi del 2022 ci sono stati 11mila morti

di DOMENICO GUARINO -
1 settembre 2022
Rohingya

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Non c’è pace per i Rohingya del Myanmar. 5 anni dopo la sanguinosa operazione lanciata dall’esercito birmano nessuno infatti ancora è stato incriminato per le gravissime violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, che hanno portato alla fuga di centinaia di migliaia di persone, costrette ad abbandonare case ed averi per scampare alla violenza ed alla morte. La denuncia viene da Amnesty International che chiede sia fatta giustizia per questa minoranza etnica di fede musulmana che risiede principalmente nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, i cui componenti fanno parte degli strati più poveri della popolazione.

Solo nei primi sette mesi del 2022 in Myanmar ci sono stati almeno 11mila morti

L'aggravarsi della situazione dal 2017 ad oggi

In Myanmar la situazione dei Rohingya è sempre stata difficile. Da molti non vengono riconosciuti come cittadini birmani, ma vengono visti come bengalesi musulmani, arrivati con la colonizzazione britannica. Il governo birmano non ha mai riconosciuto loro la cittadinanza e non possono muoversi liberamente nel paese.

La situazione è precipitata nell’estate 2017: centinaia i villaggi distrutti, decine di migliaia i morti e le vittime di violenza di genere attraverso attacchi sistematici alla popolazione civile. A seguito di questa escalation di violenza circa 738 mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh.

Ma, nonostante la Corte internazionale di giustizia (organo giudiziario delle Nazioni Unite) a gennaio 2020 abbia ordinato al governo birmano di prendere disposizioni immediate per fermare la violenza, in applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, pochissimo è stato fatto finora.

Le persone che si trovano nei territori di confine con il Bangladesh sono prigioniere di un limbo, mentre i campi per rifugiati nel Paese stanno diventando sempre più pericolosi, soprattutto nel cosiddetto il Cox’s Bazar, che è considerato il più grande campo profughi al mondo, dove operano diverse bande criminali. Di contro, i Rohingya rimasti a Rakhine non hanno libertà di movimento e non hanno accesso adeguato a cibo, cure mediche e istruzione, denuncia Amnesty international. Senza contare le sofferenze causate della generale instabilità che ha fatto seguito colpo di stato del febbraio 2021: solo nei primi sette mesi del 2022 in Myanmar ci sono stati almeno 11mila morti. 

Ming Yu Hah vicedirettrice delle campagne sull’Asia di Amnesty International

"Sarebbe opportuno che altri Paesi si unissero al coro": l'appello di Amnesty International

Intanto, grazie alle sollecitazioni di Amnesty e di altre ONG il Tribunale penale internazionale sta indagando sui crimini commessi nel 2016-2017, e la Corte Internazionale di giustizia sta portando avanti un procedimento avviato nel 2019 dallo stato del Gambia contro il governo di Myanmar, sulle basi della Convenzione sul genocidio.

Azioni che potrebbero essere più incisive e rapide, secondo Amnesty, se altri Paesi si unissero al coro: “Anche l’Associazione degli stati del sudest asiatico dovrebbe giocare un ruolo più determinato e decisivo, schierandosi dalla parte dei Rohingya e premendo per l’accertamento delle responsabilità”, denuncia Ming Yu Hah vicedirettrice delle campagne sull’Asia di Amnesty International.