Le disparità di genere in ambito professionale sono purtroppo ancora molto radicate nel nostro Paese. Troppe donne guadagnano meno dei propri colleghi uomini, hanno meno riconoscimenti, fanno più fatica e devono lavorare il doppio per raccogliere spesso la metà. A farla da padrone, infatti, sono ancora tantissimi stereotipi e luoghi comuni, che si annidano anche nelle cose apparentemente più banali – come la terminologia –, senza contare le carenze normative che pesano, in particolare, sulle spalle di chi lavora in regime libero professionale.
Di questi temi abbiamo parlato con l'architetta Pamela Panico, coordinatrice della Commissione pari opportunità dell'ordine degli architetti di Firenze. A partire dalla difficoltà stessa di avere dei dati su cui impostare delle riflessioni, e, conseguentemente, abbozzare delle soluzioni.
“La libera professione è un cono d'ombra rispetto all'analisi e al monitoraggio dei dati. Chi lavora nel regime autonomo è nel libero mercato. Noi siamo 'imprenditrici di noi stesse', ma non abbiamo gli stessi strumenti e le stesse opportunità dei nostri colleghi. In questo senso siamo più sole: non siamo una corporazione, non abbiamo un contratto nazionale e quindi la discriminazione è più forte e ci rende ancora più sole” .
Quali sono le difficoltà specifiche che si trovano ad affrontare le architette?
“Come Commissione pari opportunità abbiamo monitorato la situazione attraverso un questionario che, tra le altre cose, ha avuto una grandissima partecipazione: oltre la metà dei circa 5mila iscritti e iscritte al nostro ordine ha infatti accolto la nostra richiesta, un campione dunque molto rappresentativo. E quello che è emerso non è per nulla incoraggiante. Si parla di mobbing, di molestie, di discriminazione agita in forme spesso indirette, sottese, ma profondamente radicate, che vanno ad incidere pensatemene sulla vita delle professioniste. Una su tutte è la questione della maternità: è vero che noi abbiamo il sostegno della nostra casa professionale, ma questa interviene dopo alcuni mesi, e quindi di fatto siamo lasciate sole. Senza contare quello che accade dopo…”.
Ovvero?
“Ancora oggi essere madri, avere su di sé il carico del lavoro di cura filiale e familiare, è considerato un handicap professionale. Al punto che, negli studi compositi, si preferiscono i colleghi uomini perché si ritiene che siano più disponibili. E questa discriminazione coinvolge, consapevolmente o meno, in maniera più o meno esplicita, i titolari degli studi, i colleghi e gli stessi clienti. Va detto che nel nostro ordine si sta sviluppando una sensibilità specifica su questi temi, e il lavoro della nostra commissione è supportato in maniera convinta. Senza contare che il nostro è stato uno dei primissimi ordini a permettere alle architette che lo volessero di potersi firmare al femminile”.
Perché questi stereotipi sono così radicati?
“Un po' a causa delle stesse condizioni materiali in cui si svolge la nostra professione: il cantiere, per dirne una, è un ambiente maschile, le maestranze sono maschili, ci si aspetta più autorevolezza da un uomo. È paradossale ma è così. Per cui va fatto un lavoro molto profondo e allo stesso tempo sottile per sradicare tutti questi luoghi comuni che sono difficilissimi da abbattere. La lingua è un fattore fondamentale: dire architetta non è solo cambiare una vocale, ma un passaggio verso una reale parità.
La stessa storia dell'architettura è una storia fatta al maschile, o meglio raccontata al maschile. Un po' per cause di forza maggiore in quanto è una professione che nasce in un campo, quello delle costruzioni, in cui storicamente, la questione della forza e della prestanza fisica non era secondaria. Tuttavia, grazie ad un approfondimento fatto in collaborazione con l'università di Firenze, abbiamo scoperto storie di architette, come Corinna Bartolini storica collaboratrice di Michelucci, che erano state completamente dimenticate, pur essendo stata lei parte attiva in tutti i progetti più importanti dell’urbanista toscano”.
E oggi?
“Oggi la situazione è diversa, al punto che tra chi è iscritto all'ordine esiste una reale parità: più o meno 50% architette e altrettanti architette. Senza contare che nelle facoltà di architettura le studentesse sono oramai la maggioranza. Il problema è che poi nelle occasioni ufficiali, come i convegni, a parlare, ad essere in prima linea sono molti più gli uomini, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare. Questo fatto è penalizzante anche rispetto alla qualità urbanistica, quindi del modo in cui sono pensate e realizzate le nostre città”.
Perché?
“Perché la città cosiddetta 'femminista' è una città che in realtà va incontro a tutte le diverse istanze, contempla tutte le differenze: di età di genere, di abilità. L'urbanistica di genere promuove realmente una città che sia per tutti e tutte. A Firenze negli scorsi anni abbiamo portato avanti avanti un lavoro con il comune di Firenze, nella persona dell'assessora con delega alle pari opportunità Benedetta Albanese, e poi anche con il comune di Sesto Fiorentino, con la delegata alle pari opportunità Irene Falchini, per una mappatura in grado di dare uno sguardo diverso, individuando i luoghi premianti e quelli escludenti, per questioni legate al genere, ma anche all'età”.
E...?
“Quello che è venuto fuori è stato molto interessante perché abbiamo nelle nostre città delle vere e proprie cesure fisiche, come quella determinate dalla questione sicurezza, luoghi cioè che le donne evitano di frequentare, a differenza degli uomini, perché non si sentono sicure. Che si tratti di un fatto reale o percepito, in questo caso, poco conta. Ma si pensi anche ai luoghi per gli adolescenti che sono pochissimi o punti”.
Cosa bisogna fare dunque?
“Va cambiata la cultura e servono donne in posizioni apicali , che siano sensibili a questi temi. Le donne devono stare al tavolo decisionale altrimenti manca la visione di insieme e una sensibilità specifica. Bisogna avere la possibilità di incidere, anche nella formazione degli uffici tecnici. Questo dal punto di vista del riconoscimento professionale. Più in generale è necessario affrontare la piaga della precarizzazione del lavoro, questione che riguarda tutti e tutte ma che nel caso delle donne è più pesante, per tutti i motivi che possiamo immaginare. La debolezza economica ha come conseguenza la ricattabilità, con tutte le conseguenze del caso”.
Cosa direbbe a una giovane che si affaccia a questo mondo?
“Di credere in se stessa: il primo passaggio è evitare di auto sabotarsi. E poi mantenere fermi e saldi valori, competenze, talenti, Non farsi smuovere da chi ti vien contro. Tenere botta e lavorare con la consapevolezza delle proprie qualità”.