Fast fashion: cosa c'è dietro alla moda che costa poco?

Dalla manodopera sfruttata all'impatto ambientale: il lato oscuro del rinnovare il guardaroba spesso a basso prezzo

di SERENA VOTANO
11 novembre 2022
Lo sfruttamento nel mondo della moda

Lo sfruttamento nel mondo della moda

Cambiare guardaroba ogni tre mesi, spendendo meno di 100 euro. Vi siete mai chiesti come è possibile produrre velocemente abiti a basso costo? È il caro prezzo della fast fashion. Chi non ha mai acquistato un capo d’abbigliamento in una grande catena di negozi di moda? E chi non si è fatto tentare dall’acquisto online, facile e veloce? Del resto, come non farsi attirare, quando c’è la possibilità di rinnovare spesso il proprio guardaroba, restando al passo con le ultime tendenze della moda, senza dover spendere un patrimonio, pur sapendo che a pagare un caro prezzo sono l’ambiente e i diritti dell’uomo.

La Gen Z manifesta per l'ambiente ma poi acquista abiti della fast fashion

Fast fashion, dal primo store al marketing aggressivo

Il termine “fast fashion” viene usato per la prima volta nel 1989 a New York quando "Zara" apre le porte del suo primo store, un negozio di catena che vanta di impiegare quindici giorni per la realizzazione di una intera collezione e l'arrivo nei negozi. A "Zara" si sono ispirati altri brand, da "H&M", a "Primark", alla chiacchierata "Shein", made in China. Da allora, i colossi del fast fashion hanno vissuto il loro “periodo d’oro” tra gli anni ’90 e i 2000 - anni in cui abbiamo assistito allo loro diffusione a livello mondiale e capillare -, arrivando a competere per diffusione, e fatturato, con realtà più di lusso. I prodotti attraggono soprattutto le donne, tra i 16 e 35 anni, più al passo con lo stile e la moda del momento, ma che non possono o non vogliono spendere troppo per rifarsi l’armadio ogni 2-3 mesi. “Ho conosciuto Shein sui social, attraverso la pubblicità. Io preferisco comprare online” racconta G.S., 26 anni. Non a caso "Shein" fa dell’Influencer marketing il suo punto di forza: sponsorizzazioni, collaborazioni con micro influencer o star; un marketing aggressivo che spinge all’acquisto in una batter… di click. “E poi il sito è molto intuitivo. C’è davvero tanta scelta. Suggerisce abbinamenti, mostra alternative. Ogni giorno ci sono offerte o promozioni diverse, oltre alla raccolta punti da convertire in ulteriori sconti. Insomma, è raro comprare un capo a prezzo pieno" racconta ancora la 26enne. “L’unico svantaggio, oltre alla qualità, è il tempo: troppa attesa” continua G.S. Può capitare, a seconda della città, del periodo in cui viene effettuato l’ordine o della modalità di spedizione scelta, di dover aspettare un pacco per oltre tre settimane. Vantaggio dell’app? “Le recensioni, sono molto importanti nel mio caso. Prima di comprare un capo su Shein per me è fondamentale guardare le foto reali degli altri utenti" dice sempre la ragazza. E su Shein c’è soltanto l’imbarazzo della scelta: magliette che costano meno di 4 euro, pantaloni intorno a 10 euro, maxi dress a 15 euro e set di completi suggerito intorno ai 20 euro. Ma se una t-shirt costa meno di un panino, allora è qualcun altro a pagare il prezzo.
La moda a basso prezzo: cosa c'è dietro?

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Il lato oscuro di Shein

Se il target di riferimento è quello della Generazione Z, stiamo parlando della stessa generazione che scende in piazza per l’ambiente e per protestare contro lo sfruttamento intensivo delle riserve del pianeta. E allora la cosa si fa paradossale. Basti pensare che per produrre una maglietta di cotone si consumano più di 2mila litri d’acqua, oltre 7mila litri per un paio di jeans. E più del 60% delle fibre dei tessuti che compriamo dalle catene della fast fashion sono sintetiche, ossia derivate da combustibili fossili. Questo significa solo una cosa: quando finiranno in discarica, non si decomporranno. Non solo: l’impatto negativo sull’ambiente deriva soprattutto dall’uso di pesticidi che inquinano i fiumi e i terreni vicini alle fabbriche, e l’applicazione di coloranti tossici o sostanze dannose e aggressive impiegate per colorare o sbiancare i tessuti. Per non parlare delle borse in stile ziplock usate per confezionare e spedire i vestiti, difficili da smaltire, una vasta quantità di plastica non indifferente. Inoltre, l’industria della moda è una di quelle a più alta intensità di elettricità al mondo, perché consuma tantissimo e fa poco uso delle fonti energetiche rinnovabili. Nella maggior parte dei casi queste catene appaltano la produzione ad altre aziende di Paesi in via di sviluppo: Pakistan, India, Vietnam, Indonesia, Cina, Tunisia, Marocco. La scelta è guidata dal costo della mano d’opera – spesso femminile, se non infantile – pagata molto poco. La conseguenza, la più grave: non hanno un effettivo controllo dei loro metodi produttivi. Ciò che è emerso dall’investigazione sotto copertura, realizzata dalla reporter Iman Amrani e mandata in onda sul canale britannico Channel4, che prende il titolo di “Untold: Inside the Shein Machine” è ancora più sconcertante: fino a 18 ore di lavoro al giorno per cucire almeno 500 capi, per una paga mensile di circa 4000 yuan, (intorno ai 550 euro). In pratica: 4 centesimi per ogni indumento cucito. Non è una novità quella di cui stiamo parlando, il mondo della fast fashion sfrutta la mano d’opera, manovra gli accordi salariali e le condizioni di lavoro secondo il proprio interesse, una realtà drammatica e inaccettabile eppure, come dice G.S.: “Tutti sanno che è sbagliato comprare su Shein, il problema è che non interessa a nessuno finché conviene economicamente”.
Rinnovare il guardaroba spesso e a basso prezzo, un'abitudine sempre più diffusa

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Ma abbiamo davvero bisogno di quell’indumento?

Subentra, dunque, una questione che si lega alla psico-emotività dell’acquirente: il bisogno di soddisfare un proprio desiderio nel modo più semplice possibile. I consumatori pensano ai propri interessi, ossia al risparmio economico, e i grandi marchi fanno altrettanto. Come se la felicità potesse dipendere da un acquisto, abbigliamento, proprietà. S.R., 29 anni, racconta: “Ho iniziato ad apprezzare l’abbigliamento vintage e credo di volermi spostare sempre di più verso quella strada, sia per una questione di sostenibilità e sia per motivi legati a tutti gli scandali dell’attività imprenditoriale”. Per concludere, secondo S.R.: “Nell’istintualità delle cose, c’è un lavoro che ogni individuo deve fare, a livello di consapevolezze e di scelte. Non è così scontato. Nel momento in cui senti un bisogno, cerchi di soddisfarlo con le possibilità che hai. E se in quel momento vuoi spendere poco, soddisfi il bisogno con la strada più facile. E anche le strategie puntano sull’acquisto emozionale. Non acquisti più un vestito perché ne hai bisogno ma per soddisfare un’idea, per assomigliare sempre di più all’immagine della modella che indossa quel vestito mentre è al parco, a casa, in discoteca…”. Ma abbiamo davvero bisogno di quell’indumento?