Lei è “La bambina di Kabul”, quella è la sua storia. Ma è anche la storia di quel Paese che ha lasciato vent’anni fa ma che non ha mai dimenticato. Saliha Sultan, nata in Afghanistan nel 1988, vive in Italia e qui si è sposata, sono nati i suoi figli, qui ha il suo lavoro e qui ha trovato una possibilità di riscatto da un destino che appariva già segnato. Ma il cuore è rimasto nella sua nazione d’origine, oltre a parte dei suoi familiari, fratelli e sorelle che ancora vivono lì.
Ospite nella serata finale del festival Pari e Dispari di Pistoia, domenica 24 novembre, incarna perfettamente il tema della terza edizione, Donne di frontiera. Ha vissuto la guerra, ha scoperto l’alternativa e visto da lontano l’orrore del ritorno al potere in Afghanistan del regime talebano.
Come come nasce questo libro, dove racconta la sua storia?
“Il libro è nata quando i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan. Prima scrivevo per alcune riviste e anche per un giornale, in lingua afghana. Raccontavo delle donne in difficoltà. Raccontavo le storie dei bambini che dormivano per strada e un po’ riuscivo a dare voce a queste persone. Poi, quando hanno chiuso tutte le possibilità, ho sentito un quel senso di colpa, di responsabilità: io sono uscita dall’Afghanistan, mi sono salvata da quella situazione, mentre tante persone continuano a vivere in difficoltà oggi. E il fatto che scrivessi e riuscissi a dare loro voce, mi ha fatto pensare che potevo comunque dare un aiuto da lontano”.
Lei ha vissuto in prima persona sotto un regime?
“Sì esatto, quello dei mujaheddin. Mio padre era un comandante delle forze alleate americane in Afghanistan, è stato ucciso dai talebani. Un po tutto insieme, ho sentito l'esigenza di scrivere questo libro. Un po’ la rabbia, un po’ il voler dare aiuto e dare voce alle donne afghane”.
Quando ha visto il rientro dei talebani a Kabul nel 2021 e il tentativo di fuga disperata della sua gente cosa ha provato?
“Un dolore fortissimo. In questi vent'anni il nostro popolo, anche se la guerra c’era, però aveva una speranza, una speranza di di riuscire finalmente a costruire qualcosa e fermare il conflitto prima o poi. Però questa uscita, così (delle truppe occidentali, ndr), ha lasciato il Paese senza un Governo nelle mani di assassini. E questo non non lo immaginavamo neanche io immaginavo una situazione così”.
Poi c’è stata la chiusura delle scuole per le ragazze…
“Quando ho visto le chiusure mi sono riconosciuta in quelle immagini delle bambine che piangevano davanti all'ingresso delle aule, perché io avevo vissuto quella stessa situazione, durante il governo precedente. Avevo otto anni e loro hanno chiuso le nostre scuole e ci siamo trovate fuori dal cancello. Quindi il libro ho iniziato a scriverlo a marzo 2022, proprio da quell’evento. Non lo immaginavamo, perché i talebani non hanno avvisato il giorno prima o un mese prima: le ragazze sono arrivate dietro i cancelli e hanno trovato la scuola chiusa”.
Da allora la condizione femminile si è aggravata?
“Non solo non possono muoversi liberamente o lavorare o uscire di casa. Le donne non possono né parlare né recitare in pubblico, non possono ascoltare la musica. Addirittura diventata una legge, quella del vizio della virtù, il divieto di diffondere anche le immagini in pubblico. È durissima sapere queste cose e non poter fare niente”.
Se dovesse dare un volto al suo Paese, chi sarebbe il suo simbolo dell’Afghanistan?
“Le donne. Solo loro posso dare un volto al mio Paese in questi ultimi vent’anni. Da sempre le donne afghane sono sotto pressione, per qualsiasi cosa, perché dicono che sia un modo di proteggerle dagli uomini. Però sono gli uomini che poi governano e allora devono essere prima loro ad essere controllati, sono loro il problema, non le donne. Il simbolo sono le afgane”.
E ce n’è una che ha segnato la sua vita in modo particolare?
“Mia nonna, che non c’è più. Io ne parlo nel libro, perché è stata lei a raccontarmi le donne coraggiose dell’Afghanistan. Il testo parte da lei che poi mi porta l'esempio di altre figure femminili, come la principessa Soraya, che è riuscita a dare un volto alle afgane fondando la prima scuola femminile e gli ospedali e teatri femminili; anche le prime giornaliste donne sono uscite in tv proprio in quell’epoca, le ha portate a una vita sociale e lavorativa. Tutto questo lo racconto e lo so grazie a mia nonna”.
Cosa le manca dell’Afghanistan?
“Tutto. Perché nonostante tutte le guerre è un bellissimo Paese, e ospitale. E la forza del nostro popolo di rialzarsi, perché nonostante i conflitti è formato da persone gentili. Quello che vediamo in tv non rappresenta il vero Afghanistan, si vedono spesso immagini di zone desertiche. Invece nel nord il paesaggio è bellissimo e diverso dall’immaginario, a volte dico che è una piccola Svizzera perché c’è questa natura selvaggia, montagne, cascate, prati immensi. E mi manca il cibo, la cultura: le guerre cancellano gran parte del patrimonio culturale ma è il popolo che riesce a mantenere le sue radici intatte”.
Spera di poterci tornare?
“Sì, lo spero. Purtroppo non sono ancora riuscita ad avere la cittadinanza italiana ma la prima cosa che farò appena ottenuta sarà andare in Afghanistan. Lì ci sono i miei parenti, anche se sono sposata e ho avuto due figli qua e in Italia ho il mio salone”.
È in contatto coi suoi fratelli e sorelle?
“Due miei fratelli, dopo l’assassinio di mio padre, sono andati in Iran, ma gli altri - siamo in otto - sono rimasti. Finché riesco a sentirli va bene, ma la preoccupazione c’è sempre, perché magari una mattina i talebani si svegliano e decidono di interrompere le comunicazioni con l’estero. Quella sarebbe una tragedia. Non conosciamo i loro accordi sappiamo solo che quando non ottengono quello che vogliono la fanno pagare al popolo”.
Secondo lei c’è speranza che qualcosa cambi e se sì dove la vede?
“Dicono che la speranza è l’ultima a morire ed è vero, la speranza c’è sempre. Secondo me quello che davvero può cambiare le cose è che tutti e tutte abbiano accesso all’istruzione, che è alla base di un Paese perché ti dà gli strumenti per costruire qualcosa di buono per esso. Se i talebani continuano, come stanno facendo, a non far studiare le donne, tra 10 o 20 anni non avremmo più medici donna o le avvocatesse e tante altre professioni.
Dico medici perché la sanità è la prima risorsa per le altre afghane. Mi ricordo che quando stavo là noi andavamo dai dottori uomini perché non c’era una ginecologa in tutta la città e la provincia. O un’ostetrica. Le infermiere facevano tutto, per quanto possibile. Quindi l’istruzione prima cosa e poi l’aiuto esterno, di cui abbiamo estremo bisogno”.
Sente la necessità di un nuovo interessamento internazionale?
“Il mondo non deve dimenticare l’Afghanistan, come ha già fatto. Ormai non ne parla nessuno, come se tutti se ne fossero dimenticati, ma l’Afghanistan ha bisogno di un aiuto esterno da parte dei Paesi occidentali, perché non riuscirà altrimenti a rimettersi in piedi. Dicono che dev’essere il popolo a reagire ma non è possibile: mio fratello, che è là, mi dice ‘Se parli ti sparano’. Basta pensare a tutte le donne che scendevano in strada per manifestare e poi venivano violentate nelle carceri dai talebani, o alle minacce che ricevevano. Non si può combattere dall’interno, serve una forza diversa”.