Sarà stato - forse - il clamore mediatico della COP28 di Dubai o la concomitanza con eventi mondiali che le hanno rubato la scena, ma la COP29 di Baku, oltre a essere stata un fallimento sul fronte dei risultati, si è rivelata ben al di sotto delle aspettative anche dal punto di vista mediatico. Poco l’interesse di stampa e Tv, scarso il coinvolgimento sui social, pressoché nulla la capacità di generare engagement. Eppure, l’occasione era cruciale, considerando che la crisi climatica si sta facendo sentire come mai prima d’ora.
Inutile piangere sul latte versato, si potrebbe dire. Tuttavia, interrogarsi su cosa sia andato storto in una COP che, per quanto timida nelle premesse, avrebbe potuto e dovuto fare di più, è un esercizio necessario. Specialmente pensando alle generazioni future, che si chiederanno perché “quelli che c’erano prima” non sono riusciti a fare abbastanza.
Per capire il fallimento, occorre partire dalla fine. Per raggiungere un accordo sono servite tre interminabili notti di negoziati. Una maratona fuori tempo massimo che ha portato i Paesi cosiddetti “sviluppati” a garantire maggiori finanziamenti a quelli più poveri, minacciati dai cambiamenti climatici. Peccato che si tratti di un pugno di spiccioli: i 23 Paesi sviluppati - i principali responsabili del collasso climatico - si sono impegnati ad aumentare i sostegni finanziari ad almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Risorse che, secondo il testo dell’accordo, dovranno provenire da fondi pubblici, investimenti privati e tasse.
Grande esclusa è la Cina, che potrà contribuire su base volontaria. Quasi in ombra anche l’uscita dai combustibili fossili, uno dei principali risultati della COP28 di Dubai, affossato dalla tappa azera. Le lacrime di coccodrillo di Francia, Germania e Spagna, che hanno definito l’accordo insufficiente rispetto alle sfide globali, non cambiano la realtà. Ursula von der Leyen, dal canto suo, ha accolto con favore l’intesa, definendola un traguardo capace di segnare una nuova era nella finanza climatica. Anche Giorgia Meloni ha condiviso tale ottimismo. Ma, si sa, i commenti a caldo durano quanto un post. La realtà è ben più dura e sarà affrontata da chi vive nelle isole del Pacifico, nei Caraibi, in Africa e in moltissime altre aree del mondo, costrette a svuotare l’oceano con un cucchiaino.
Il prossimo anno sarà la volta di Belém, in Brasile, per la COP30. La ministra dell’Ambiente brasiliana, Marina Silva, ha già espresso le sue preoccupazioni. Intanto, il 2024 si sta attestando come l’anno più caldo mai misurato, mentre l’umanità continua a bruciare petrolio, gas e carbone. La strada è in salita e la domanda rimane la stessa: chi sta pensando davvero al futuro? Non a quello evocato e mai realizzato, ma a quello che verrà. A occhio, nessuno sembra cogliere appieno la gravità del presente, lasciando le generazioni future a chiedersi cosa sarebbe stato possibile fare, se solo ci fosse stata la volontà.