Le donne vittime di femminicidio hanno nomi comuni: Anna, Roberta, Chiara, Paola, Maria… Nomi che pronunciamo a scuola o in ufficio, in famiglia o tra amici. Nomi comuni a ricordarci che una donna uccisa per mano di un uomo può essere chiunque: una madre, una sorella, una cugina, un’amica. Anche le loro storie d’amore molto spesso sono storie comuni, iniziate come molte ma finite nel sangue e nel modo più atroce. Iniziano in un locale, o a cena, o in un cinema. Una rosa regalata, una passeggiata mano nella mano. Fermarsi a chiacchierare sotto casa, lui che le strappa un sorriso, lei che pensa che può essere l’uomo giusto, per mille ragioni che non si sa spiegare. Perché la fa ridere, perché non è come con gli altri, perché con lui le parole non si asciugano subito. Perché viene talmente facile abbracciarsi, e poi perché il tempo insieme non passa, vola e non è mai abbastanza. Difficile immaginare il precipizio, quando si è stati catapultati a tre metri dal cielo dall’ascensore della felicità. Ma poi l’amore cambia faccia, diventa qualcos’altro. L’ascensore s’inceppa e quell’uomo diventa qualcun altro, spaventoso e irriconoscibile. Panico su panico: si spezza un cavo e l’ascensore inizia a precipitare. Farla finita a parole non basta, non vedersi più non serve. I ricordi restano impigliati in mille cose, a cominciare dalla fotografia da sposa incorniciata nella grande cornice d’argento. Schegge di vita insieme restano nella musica che ora fa male anche ascoltare, la stessa che insieme avevano urlato a squarciagola ai concerti. I ricordi sono dappertutto, anche nella televisione, davanti alla quale lui guardava la partita e lei faceva finta di seguire il gioco. Sulle mensole, nella collezione di souvenir portati al ritorno da ogni viaggio. Nelle scarpe da ginnastica delle domeniche al parco, delle scampagnate nei boschi, dei giovedì in palestra. Tutto è così lontano, così diverso, pensa lei. Forse avrei dovuto mostrarmi più simpatica coi suoi amici, assecondarti di più, vestirmi come volevi tu, mettermi in posa quando volevi scattarmi una foto, essere più brava in cucina, a letto, coi figli, con tutto. Intanto le carezze diventano pugni, i baci sulle labbra lasciano il posto ai lividi sulla pelle. Lei che lo lascia, lui che non si rassegna all’idea che pur vivendo separati si continua ad esistere lo stesso. Lui che si piazza sotto casa e lei che lo schiva e pensa: se adesso lo denuncio, chissà cosa ne sarà di me e dei miei figli. Intanto l’ascensore precipita, e mentre precipita qualcuno gli consiglia: “Perché non la richiami e cerchi di aggiustare le cose?”.
La fine di una storia si trasforma così in un duello atroce, per nulla onesto. Lui e lei che si allontanano, dandosi le spalle, per strade diverse, opposte. Lui che le dice “mi manchi, non so vivere senza di te, non ce la posso fare, torniamo insieme, giuro che cambio, mettimi alla prova, sarà tutto diverso…”. Lei che esita a voltarsi, perché ha giurato di non ricascarci più. Ma poi ci pensa a lungo e alla fine si chiede: che duello è mai questo, che finisce con due sconfitti e nessun vincitore? Così, anche se avverte il rischio nell’aria, anche se pensa al suo “mi manchi” come a cose che si dicono, sull’altare di quella famiglia infelice che pure aveva vissuto compleanni, vigilie di Natale, domeniche di festa e momenti di assoluta felicità, decide di concedergli l’ennesima opportunità. Bene, pensa lei, mentre cede e si volta: facciamo come dici tu, ricominciamo tutto daccapo e sforziamoci di fare meglio. E invece tutto daccapo ricomincia, ma in peggio.
Dopo poco l’aria pesante ricomincia a soffiare sulle loro giornate. Lui che torna ad infiammarsi per un niente, le nubi che tornano ad addensarsi anche nelle giornate di sole, la tensione che sale giorno dopo giorno. E proprio come una volta ricominciano le botte, le violenze, le liti, le gelosie. E poi di nuovo lacrime e lividi, schiaffi e urla. I vicini che sentono tutto, che notano che sul viso di quella donna il sorriso è sparito, finito chissà dove. Pestato dalle mani di lui, sempre più violento; ammutolito dal silenzio di lei, che tiene tutto dentro e non si fa vedere in giro da un po’. Lei che quando esce, magari per correre a fare la spesa o a prendere i figli a scuola, lo fa come una scappata di casa, mascherando gli occhi neri dietro un paio di occhiali scuri. Lui che senza rimorsi trasforma la loro vita in un film dell’orrore, lei che piange lacrime e sangue, che non ce la fa più, che vuole uscirne ma non sa come, e non sa se denunciare, perchè non sa se basterà, non sa che fine farà, che fine faranno i suoi figli, dove vivranno, quando finirà quell’incubo. Fino a che un giorno quell’incubo finisce, nel peggiore dei modi: nel sangue, con la morte. Il resto sono scene viste mille volte, il funerale in chiesa, le lacrime, il lancio di palloncini, i telegiornali che parlano dell’ennesima vittima, l’indignazione generale, le parole di chi la conosceva, di chi la descrive come una ragazza sempre col sorriso sulle labbra e gentile con tutti.