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Aborto, oltre la questione di diritto. La decisione intima che coinvolge corpo, mente e cuore

Le testimonianze di coloro che lo praticano e di chi vi si sottopone come scelta e che, a distanza di anni, ne raccontano le conseguenze emotive e psicologiche

di CATERINA CECCUTI -
13 settembre 2022
La famiglia di Miriam, operatrice che risponde al numero verde messo a disposizione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII

La famiglia di Miriam, operatrice che risponde al numero verde messo a disposizione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII

Di questi tempi si parla tanto, forse troppo, di aborto. Ma prima ancora che una questione di diritto della persona – facilmente strumentalizzata in ambito politico – l'aborto rappresenta una scelta intima che coinvolge la mente, il corpo, il cuore di una donna. E che, volenti o nolenti, può avere ripercussioni anche a lungo termine sul suo fisico e sulla sua mente. Per ridare, dunque, alla questione la dimensione umana che le spetta di diritto, abbiamo ritenuto opportuno ascoltare la voce di donne che hanno vissuto sulla propria pelle l'esperienza della perdita indotta di un figlio, e di operatori volontari che ogni giorno mettono a disposizione il proprio tempo e la propria dedizione all'ascolto di queste mamme mancate, in alcuni casi troppo sole e impaurite per riuscire a prendere una decisione serena. Miriam Granito è un'operatrice che risponde al numero verde messo a disposizione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (www.apg23.org): “Riceviamo in media oltre 1000 chiamate l'anno - racconta -, circa tre o quattro al giorno, di cui il 70% provengono da donne italiane, già gestanti o in sospetto di gravidanza, sole o separate con figli a carico. Noi non scegliamo per loro, cerchiamo piuttosto di ascoltarle, accoglierle, arrivare a cogliere i loro bisogni più profondi. Cerchiamo anche di far prendere loro coscienza del fatto che in grembo stanno portando il loro bambino, e che, volenti o nolenti, sono già mamme emotivamente, anche se non se ne rendono conto. Hanno tutto il diritto di scegliere, ma devono essere preparate al fatto che qualsiasi decisione prenderanno cambierà la loro vita per sempre”.
La famiglia di Mirian con il bambino down adottato

La famiglia di Mirian con il bambino down adottato

Fondata da Don Oreste Benzi, la Comunità Papa Giovanni XXIII è composta da persone che condividono la propria vita con bambini abbandonati, anziani soli, tossicodipendenti, persone diversamente abili, profughi, mamme in difficoltà, carcerati. Opera attraverso 500 realtà di accoglienza sul territorio nazionale e in oltre 40 Paesi nel mondo. "Si tratta di case famiglia molto particolari - spiega l'animatore del Servizio Famiglie e Vita della Comunità, Andrea Mazzi - che chiamerei piuttosto strutture affettive. Le persone bisognose vengono accolte in una vera famiglia, in cui vivono 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. Chi opera non noi non fa un semplice mestiere, ma una scelta di vita. Si tratta di persone che aprono le porte di casa per dare una famiglia a chiunque cerchi un punto fermo da cui ripartire. Oggi la 'Papa Giovanni XXIII' conta 201 case famiglia in Italia, in cui sono accolte 1.283 persone, e 50 case famiglia all'estero”.
Andrea Mazzi

Andrea Mazzi, animatore del Servizio Famiglie e Vita della Comunità Papa Giovanni XXIII

Da oltre vent'anni a questa parte, la Comunità offre anche un servizio telefonico dedicato alla maternità. “Le donne ci chiamano principalmente per avere informazioni su come abortire il più rapidamente possibile – torna a spiegarci Miriam Granito, romagnola di 48 anni che non è solo un'operatrice telefonica ma che, con la sua famiglia, accoglie in casa propria i bisognosi, compreso un dolcissimo bambino, Enea, con sindrome di Down che ha deciso di adottare-. Si tratta soprattutto di donne spaventate, in preda all'ansia, che desiderano risolvere presto il problema. Il 25% di loro ci chiede come fare per ottenere la RU486, una pillola che, teoricamente, può essere presa anche da casa. Noi non siamo medici, ma cerchiamo di far loro capire alcune conseguenze che la pillola comporta, e che spesso non vengono spiegate correttamente dai medici. Per esempio che, con la seconda dose da assumere, c'è l'espulsione vera e propria del feto. Alcune di loro ci hanno chiamato dopo aver ricorso alla RU486, sconvolte dall'esperienza vissuta, perché mentre si trovavano da sole in casa hanno accusato forti dolori, nausea e vomito, perdite ematiche culminate nella dolorosissima visione del proprio bambino che usciva da dentro se stesse”.
Enea, il bimbo Down adottato da Mirian Granito

Enea, il bimbo Down adottato da Mirian Granito

Tale è stata, per esempio, l'esperienza di Natascia, una donna di 37 anni che è ricorsa alla pillola abortiva senza avere ricevuto spiegazioni su quello cui realmente sarebbe andata in contro. “Una ginecologa mi disse che sarebbe stata una cosa semplicissima, che al massimo avrei avuto un po' di dolore, come una specie di mestruazione, e che avrei risolto il problema in fretta. Mi disse addirittura la frase 'Se fossi mia figlia te lo consiglierei'. Il mio compagno mi diceva 'Che vuoi che sia, i miei amici hanno fatto abortire altre donne'. In ospedale non mi spiegarono praticamente niente, su ricetta della ginecologa mi consegnarono la prima pillola e via. Due giorni dopo mi hanno dato il secondo farmaco da mettere sotto la lingua e un Brufen per i dolori. Dopo 15 minuti ho iniziato a vomitare molto, dopo mezz'ora ad avere contrazioni forti, durate tante ore, svenivo e continuavo a vomitare. In ospedale il personale era molto freddo, una dottoressa vedendomi stare male mi disse solo 'Ma non lo sapevi cosa stavi facendo?' Purtroppo l'avevo capito, ma non potevo più tornare indietro. Dopo alcune ore andai in bagno e avvenne l'espulsione. Vidi l'embrione uscire, una cosa che non auguro al mio peggior nemico, lo presi con le mani e lo buttai, mentre il mio cuore andava in pezzi. Da quel giorno sogno questo, vedo quello che ho fatto, vivo con un senso di colpa atroce, per me e per la mia famiglia che non sa niente né mai lo saprà. Anche una donna che non vuole un bambino, in realtà crea un legame con il figlio che porta in grembo. Oggi sono convinta di avere sbagliato, ma sono anche convinta del fatto che il modo in cui mi hanno messo fretta, senza spiegarmi a cosa in realtà sarei andata incontro, non è assolutamente giusto”.
L'operatrice Mirian insieme ai suoi figli

L'operatrice Mirian insieme ai suoi figli

Di storie come quella di Natascia, Miriam ne ha ascoltate molte purtroppo nel corso degli anni. “Il 10% delle mamme con cui ci capita di parlare sceglie di portare avanti la propria gravidanza. In questo caso si genera un legame meraviglioso, alcune ci ringraziano per tutta la vita, ci scrivono tenendoci aggiornati sulla crescita dei loro bambini, ci mandano le loro foto. L'8% delle ragazze che ci contatta sono minorenni, spesso sanno poco o nulla di cosa sia un ciclo mestruale o di quello che capita al loro corpo ogni mese”. Sono tre operatrici che rispondono al numero verde messo a disposizione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. “Siamo tre a rispondere in prima battuta, ma poi se mi contatta una mamma calabrese passo la chiamata alla mia collega del territorio, così da rendere più agevole un eventuale incontro dal vivo, in caso la mamma dovesse desiderarlo. Se alla fine una mamma decida di tenere il bambino pur trovandosi in condizioni difficili, la aiutiamo economicamente, la prendiamo in casa con noi, insomma le offriamo il massimo aiuto” spiega ancora Miriam.

Le testimonianze: Manuela

Attraverso la Comunità Papa Giovanni XXIII abbiamo contattato due madri che alcuni anni fa hanno scelto di abortire. Manuela, sessantenne di Bassano del Grappa, e Alessandra, cinquantenne originaria di Milano che oggi vive a Roma. Manuela, le va di raccontarci la tua storia? “Sì. Era il 1990 quando presi la decisione di abortire. Allora avevo 27 anni. La mia situazione non era drammatica come quella che spesso si trovano a vivere le donne che fanno questa scelta. Avevo il fidanzato fisso e un ottimo lavoro come dirigente nell'azienda di famiglia. Non avevo nessuno che mi pressasse o che mi spingesse a scegliere l'aborto come soluzione. Nel tempo mi sono chiesta perché abbia fatto questa scelta. Per capirlo mi ci sono voluti molti anni di psicoterapia e un percorso spirituale importante. Alla fine ho compreso che tutto nasceva dalla mia infanzia. Ero stata una bambina infelice. I genitori erano impegnati a costruire un’azienda, a discapito però della loro presenza. Erano sempre molto impegnati ed io sono cresciuta con persone esterne alla famiglia, che che si occupavano di me. Non avevo un modello genitoriale di riferimento, dunque pensai che non sarei riuscita ad essere una buona mamma e, soprattutto, che essere bambini non significasse essere felici. Perciò, da subito non volli questo bambino. Ero decisa, volevo risolvere urgentemente la cosa e neanche ascoltavo due mie care amiche di allora che facevano di tutto per farmi cambiare idea. Una aveva già abortito e mi disse 'Non farlo, non sai a che dolore andrai incontro'. Ma io non l'ascoltai. Il mio fidanzato, dal canto suo, mi disse quello che purtroppo dicono molti uomini, ovvero 'Decidi tu, perché alla fine questa cosa riguarderà principalmente te'. La decisione, dunque, era solo mia ed ero completamente convinta della mia scelta. Eppure, un'ora dopo l'aborto, caddi in una depressione terribile, provai un dolore indescrivibile. Nel corso dei mesi, anche grazie alla partecipazione a un corso di sviluppo personale, presi coscienza di quello che avevo fatto e sprofondai nel buio più totale”.
Manuela, sessantenne di Bassano del Grappa

Manuela, sessantenne di Bassano del Grappa

Come è riuscita a rialzare la testa? “Iniziando la psicoterapia e, in seguito, grazie all’uomo che sarebbe diventato mio marito, intraprendendo anche un percorso spirituale importante a fianco di Padre Josè Sometti. Per ben cinque anni io e mio marito cercammo un figlio che sembrava non voler arrivare. Invece, il 30 maggio del 2000, esattamente il giorno del decimo anniversario del concepimento del mio primo bambino, concepii il secondo figlio. Per tanto tempo avevo sentito dentro di me che quello che avevo fatto mi aveva reso indegna di diventare madre, ma le cose non stanno così, in nessun caso. Per alcuni anni ho avuto la gioia di collaborare con il 'Centro aiuto alla vita'. Ho avuto così l’opportunità di dare un senso alla mia esperienza relativa all’aborto, aiutando qualche donna a non fare l'errore che ho commesso io. Il cerchio si è finalmente chiuso, e ringrazio Luce! per avermi dato la possibilità, oggi, di portare ai lettori la mia testimonianza”.

Le testimonianze: Alessandra

Alessandra con sua madre

Alessandra con sua madre

Alessandra, la sua storia è molto dolorosa. La vuole condividere? “Sono cresciuta in una famiglia particolare. I miei erano separati e io vivevo con mia madre, una sessantottina che aveva subito dai genitori troppe restrizioni, perciò a me concedeva la massima libertà. Zero paletti, potevo fare tutto quello che volevo, ma di conseguenza avevo anche zero riferimenti. Ho cominciato avere rapporti con i ragazzi fin da molto giovane e a diciotto anni sono rimasta incinta per la prima volta. Immediatamente chiesi al mio ragazzo cosa dovevo fare. Lui aveva 23 anni, era molto innamorato di me ma stava per trasferirsi a Ravenna, perciò non era il momento. Di base all'epoca c'era la cultura del trattare un figlio non come un dono da accogliere ma come un oggetto che scegli se comprare adesso o più tardi, quando potrai permettertelo o quando ne avrai voglia. Mia madre mi disse che per il mio bene avrei dovuto abortire e mi indirizzò verso questa scelta. Ho vissuto momenti di panico, non sapevo che fare, sentivo chiaramente una vocina dentro che, contro tutto e tutti, mi diceva di non farlo. Andai dal ginecologo di mia madre che non mi indirizzò a parlare con nessuno, in seguito ho scoperto invece che per legge devono essere fatti dei colloqui in consultorio. Dissi al medico che mi sentivo di uccidere una vita, lui rispose: 'Fino a 3 mesi non è vita, non ti preoccupare'. Alcune settimane dopo feci l'intervento. Furono le settimane più dure della mia vita, ero straziata da una lotta interiore che non mi dava pace. Il giorno dell'aborto rimasi in ospedale per molte ore, in uno stanzone con altre otto donne. Alcune stavano zitte, impietrite e impaurite, altre giocavano a carte e schiamazzavano. In me intanto cresceva un malessere più simile al dolore. Fui una delle ultime a essere portata in sala operatoria, via via vedevo tornare le donne addormentate che erano entrate con il bambino in pancia e che ora ne uscivano svuotate. Quando toccò a me dissi al ginecologo che non volevo farlo più. In quel momento non mi importava più di niente, né di come avrei fatto a vivere con il bambino, né di cosa sarebbe stato del mio futuro, insomma di nulla. Volevo solo tenerlo. Ma il medico mi disse che ore prima mi era stato somministrato un obolo abortivo, per cui avrei perso il bambino comunque, ma in maniera assai più penosa. In quel momento ho visto la luce della mia vita spegnersi”. Dopo cosa successe? “I tre anni successivi ebbi crisi di rabbia, sia col mio ragazzo che con mia madre, in particolare con lei non riuscivo più ad avere rapporti normali. A 23 anni mi misi con un altro compagno, rimasi incinta di nuovo. Lui preferiva non tenerlo e io pure. Stavolta ero decisissima ad abortire, mi dissi che dovevo finire l'università, che non avrei potuto occuparmi di un figlio e che non dovevo mettere al mondo un infelice. Così ho abortito la seconda volta, con lo stesso ginecologo, nello stesso ospedale. Alla fine, pensavo, se la legge ti permette di farlo, vuol dire che non c'è niente di sbagliato”.
Alessandra, una donna che ha abortito due volte

Alessandra, una donna che ha abortito due volte

Quali furono le conseguenze stavolta? “Dopo due anni dal secondo aborto mi sentii svuotata, non avevo più voglia di vivere né di fare niente. Un giorno mi misi semplicemente a letto e non mi alzai più. Allora ebbe inizio un calvario durato 13 anni. Psicologi, psichiatri, medicine, niente riusciva a farmi uscire dallo stato in cui mi trovavo. Volevo togliermi la vita, una volta provai a farlo, odiavo mia madre, nessuna delle due capiva perché. Facevo cose folli, prendevo a pugni i quadri di casa, spaccavo i vasi, le mie scelte avevano deviato la mia natura. Pensai che se i medici e i farmaci non potevano guarirmi, tornare ad essere madre invece avrebbe potuto farlo. A 35 anni conobbi il mio attuale marito che accettò di cercare subito un figlio. Ma il figlio non è mai arrivato. Rabbia e dolore andarono allora crescendo, fino a che mi chiusi in casa perché ero diventata un pericolo per gli altri, oltreché per me stessa”. Come hai fatto ad uscire dal baratro in cui eri sprofondata? “Fu grazie ad un'intuizione di mio marito. Mi disse di chiedere aiuto a Dio e mi portò ad Assisi. S'inginocchiò dinanzi alla tomba di San Francesco e gli chiese di salvarmi. Poi, nell'agosto del 2010, andai a Međugorje senza neanche sapere cosa fosse né cosa avrei trovato lì. I miei cari mi videro partire parlando di suicidio e tornare poi con un rosario tra le mani e la pace nel cuore. In quei luoghi, nelle parole di una persona in particolare, avevo capito che la chiave della mia guarigione poteva essere solo il perdono. Nei confronti di me stessa, ma anche di mia madre, che non aveva agito per cattiveria ma pensando di fare il meglio per me. Era convinta che un giorno avrei avuto dei figli e ancora adesso non si dà pace. Oggi mi occupo di lei e continuo a lavorare su me stessa. Ovviamente, la mia situazione personale non è accomunabile a quella di tutte le donne. Io soffrivo di una depressione latente e certamente non tutte le donne che abortiscono si ritrovano poi a dover assumere psicofarmaci e ad affrontare percorsi drammatici come il mio. Però, proprio alla mia condizione emotiva devo la sensibilità che ha permesso alla mia coscienza di svegliarsi. E oggi spero che la mia testimonianza possa essere di aiuto ad altre”.