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Home » Attualità » Grégoire Ahongbonon, il “Basaglia nero” che da anni libera i malati di mente africani dalle catene

Grégoire Ahongbonon, il “Basaglia nero” che da anni libera i malati di mente africani dalle catene

Tramite l'associazione "Saint Camille de Lellis" da lui fondata, aiuta le persone con problemi psichiatrici, restituendo loro una vita dignitosa

Maurizio Costanzo
5 Gennaio 2023
Grégoire Ahongbonon (Instagram)

Grégoire Ahongbonon (Instagram)

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Grégoire Ahongbonon (70 anni) è considerato il “Basaglia nero” per il suo impegno nel restituire dignità ai malati mentali d’Africa. Da oltre 30 anni libera infatti i ‘matti’ africani dalle catene che – letteralmente – li imprigionano nei villaggi in cui vivono. Chi è affetto da queste patologie mentali viene, per motivi religiosi – dal momento che tanti credono ancora alla stregoneria – legato mani e piedi con catene di ferro, rinchiuso in una stanza, oppure, nella peggiore delle ipotesi, tenuto all’aperto, legato a un albero, fino a quando non muore.

Grégoire Ahongbonon, filantropo beninese (Instagram)
Grégoire Ahongbonon, filantropo beninese (Instagram)

Grégoire Ahongbonon nasce nel 1953 da una famiglia di contadini a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria e si trasferisce nel 1971 a Bouaké, in Costa d’Avorio, per lavorare come riparatore di pneumatici. Successivamente apre un’agenzia di taxi che in poco tempo lo fa diventare ricco, ma inspiegabilmente e repentinamente si ritrova sul lastrico. A causa del fallimento vive un periodo di profonda depressione e smarrimento, tanto da tentare il suicidio verso la fine degli anni Settanta. In questo periodo Grégoire si riavvicina alla Chiesa cattolica, da cui si era allontanato durante il periodo di prosperità economica. Nel 1982 partecipa a un pellegrinaggio a Gerusalemme nel corso del quale una frase pronunciata dal sacerdote durante l’omelia lo toccherà profondamente e cambierà il suo destino: “Ogni cristiano costruisce la Chiesa portando la sua pietra“. “Un giorno durante una omelia il prete disse che ogni cristiano avrebbe dovuto partecipare alla costruzione della propria chiesa: questa è la frase che mi ha sconvolto – racconta Grégoire -. Ho capito che la chiesa non riguarda solo preti e religiosi, ma tutti noi fedeli. E così iniziai a chiedermi: qual è la mia pietra da porre?”. Da anni Grégoire vive in auto e gira l’Africa insieme alla famiglia, “per dare libertà ai malati mentali“. In Africa sono “i dimenticati fra i dimenticati”, costretti in ceppi oppure incatenati perché “posseduti dal maligno”.

Grégoire Ahongbonon (Instagram)
Grégoire Ahongbonon (Instagram)

Rientrato a Bouaké, Grégoire riflette su quale possa essere la “sua pietra” e un giorno, dopo anni di assoluta indifferenza, guarda una persona che vaga nuda per strada alla ricerca di cibo nella spazzatura. Contrariamente ai dettami della cultura locale, Grégoire si avvicina a quella persona che sa essere un malato mentale in quanto la nudità ne è un segno distintivo. In lui vede il Cristo della sua religione e smette di provare paura. “A forza di osservare quell’uomo mi dissi: ‘È Gesù che cerco nelle Chiese, è Gesù che cerco nei gruppi di preghiera, è Cristo che incontro nei sacramenti, è Gesù in persona che soffre attraverso questi ammalati!‘. Sul momento pensai: ‘Mi fanno paura’. Una voce, dentro di me, mi rispose: ‘Se queste persone rappresentano per te il Cristo, perché aver paura di loro?’. Su queste parole incominciai a girare in città per vedere dove questi ammalati di mente si coricavano. Ho parlato con loro e ho capito che noi ‘benestanti’ abbiamo pregiudizi negativi nei loro riguardi. Ho scoperto che erano persone che cercavano amore come tutti noi”.

Questo il pensiero che attraversa la mente di Grégoire quella notte e improvvisamente capisce qual è la “sua pietra”. Con l’aiuto della moglie inizia a vagare per le strade di Bouaké alla ricerca dei malati mentali e offre loro cibo e abiti per coprirsi. Gradualmente scopre le condizioni disumane in cui vivono le persone affette da disturbo psichico in Costa d’Avorio e ben presto si rende conto che l’incatenamento e l’abbandono sono pratiche diffuse e accettate dalle comunità locali. A Bouaké, in Costa d’Avorio, avvia un gruppo di preghiera che ben presto si trasformerà in un gruppo di carità per i malati bisognosi di cure: è l’Associazione Saint Camille de Lellis di Bouaké, con uno spazio all’interno dell’ospedale dedicato all’accoglienza dei malati.

Grégoire Ahongbonon è il fondatore dell'associazione "Saint Camille de Lellis", dedicata alla cura dei malati di mente in Africa
Grégoire Ahongbonon è il fondatore dell’associazione “Saint Camille de Lellis”, dedicata alla cura dei malati di mente in Africa

Il momento di svolta nella vita di Ahongbonon è stata segnata dal momento di disperazione in cui si è trovato: sull’orlo del suicidio, dopo insuccessi economici e personali, ha trovato consolazione nella fede. Osservando i malati mentali, chi di loro non è incatenato, si accorge che viene lasciato libero, diventa una specie di errante, solo e abbandonato a se stesso. Nessuno lo tocca per paura di essere contagiato dalla pazzia. Il “Basaglia nero” ha iniziato a rompere – letteralmente – le catene, e a raccoglierli dalle strade, insieme a persone affette da altri problemi, come per esempio l’epilessia. Parlando con le famiglie e negoziando con i capi dei villaggi, Grégoire ha potuto recuperare la maggior parte di questi malati, li ha portati a essere consultati da psichiatri e ha assicurato loro un luogo di vita più degno appena si sono ristabiliti. Coloro che sono guariti hanno imparato un lavoro, sono tornati attivi e in molti casi sono diventati il personale per curare altri malati mentali. Altri sono tornati nei loro villaggi, ma non più incatenati. Sono stati riaccolti in famiglia e hanno ripreso una vita sociale. “Io non ho studiato, non sono istruito – dice Grégoire -. Credo che Dio sia venuto a prendermi da una tomba nel momento in cui avevo perso tutto e avevo deciso di suicidarmi. E quando avevo perso ogni speranza, Dio è venuto a prendermi da una tomba. Ed è per questo che guardo i malati con un occhio diverso. Dio miracolosamente ha visto la sofferenza di questi malati e questa catena è diventata un simbolo, una catena di amicizia e di fraternità. Per questi malati è diventata una catena d’amore che li salva”.

Grégoire è stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sua testimonianza ha superato i confini degli Stati africani, tanto che i centri di psichiatria occidentali sono stati sfidati e si sono interrogati sulle storie di rinascita umana che continuano a contraddistinguere l’opera della Saint Camille. Questa storia ha varcato i confini dell’Africa ed è arrivata anche in Italia. “Io sono stato coinvolto da un infermiere che aveva un fratello sacerdote della diocesi di Gorizia – spiega lo psichiatra Marco Bertoli -. Mi ha detto che in Africa aveva incontrato una persona che ‘liberava’ i malati. Allora gli ho chiesto: cosa significa ‘liberare’ i malati? E così, era il 1998, andai a vedere con un responsabile di salute mentale di Palmanova, in Friuli, cosa succedeva in Africa, e qui mi sono imbattuto in queste persone legate e segregate e mi ritrovai a dare una mano a questa realtà. Ogni anno ci rechiamo per almeno venti giorni in Africa e cerchiamo di dare una mano come possibile. Sono decine di migliaia le persone liberate e oggi vediamo che, dove sono impiantati i centri, la gente comincia a portare gli ammalati senza più incatenarli. L’esperienza di Grégoire ci insegna che affrontare la tematica della salute mentale va promossa, e importante è la relazione in famiglia, un’affettività espressa che non può diventare mai esclusione dell’altro. Ci insegna che una comunità può vivere non nell’indifferenza ma nel sostegno e nell’aiuto reciproco: questo è il messaggio comunitario che cerchiamo di portare avanti nei nostri servizi pubblici sulla salute mentale che in Friuli io dirigo. Ripartirò per l’Africa a ottobre, è il mese in cui facciamo le nostre missioni. La specificità di Grégoire non è semplicemente la risoluzione del sintomo, ma l’accoglimento in struttura, l’ospitalità, la cura. E poi c’è una liberazione ulteriore: il ritorno a casa. È una grande festa quando la persona ritorna a casa e viene accolta nel villaggio. La famiglia, che era stata costretta a segregare quella persona, poiché mancano le capacità di intervento, festeggia il suo ritorno”.

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  • Messaggi osceni, allusioni, avances in ufficio e ricatti sessuali. La forma più classica del sopruso in azienda, unita ai nuovi strumenti tecnologici nelle mani dei molestatori. Il movimento Me Too, nel 2017, squarciò il velo di silenzio sulle molestie sessuali subite dalle donne nel mondo del cinema e poi negli altri luoghi di lavoro. Cinque anni dopo, con in mezzo la pandemia che ha terremotato il mondo del lavoro, le donne continuano a subire abusi, che nella maggior parte dei casi restano nell’ombra.

«Sono pochissime le donne che denunciano – spiega Roberta Vaia, della segreteria milanese della Cisl – e nei casi più gravi preferiscono lasciare il lavoro. Il molestatore andrebbe allontanato dalla vittima ma nei contratti collettivi dei vari settori non è ancora prevista una sanzione disciplinare per chi si rende responsabile di molestie o di mobbing».

Un quadro sconfortante che emerge anche da una rilevazione realizzata dalla Cisl Lombardia, nel corso del 2022, su lavoratrici di diversi settori, attraverso un sondaggio distribuito in fabbriche, negozi e uffici della regione. Sono seimila le donne che hanno partecipato all’indagine, e il 44% ha dichiarato di aver subìto molestie o di «esserne stata testimone» nel corso della sua vita lavorativa.

A livello nazionale, secondo gli ultimi dati Istat, sono 1.404.000 le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro. Quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine: appena lo 0,7% delle vittime.

✍🏻di Andrea Gianni

#lucenews #istat #donne #molestie #lavoro #diritti
  • II problema è che sei sola. Arrivi lì persino convinta: è la cosa più naturale che tu, donna, sia mai stata chiamata a fare: partorire. 

Te lo hanno ripetuto per 9 mesi nei corsi preparto, e te l’hanno ripetuto ancora prima che tu venissi al mondo: non c’è niente che sia più naturale, per una donna, nei secoli dei secoli. E il bello è che aver ottenuto la possibilità di scegliere che il tuo parto non sia "medicalizzato", che il tuo neonato non ti sia strappato subito dalle braccia e che resti, subito dopo, al tuo fianco nella tua stanza, e non nella nursery, è il risultato di una lunga battaglia, intrapresa oltre 30 anni fa. 

Una battaglia vinta? No, se si è passati dal troppo medicalizzato all’abbandono. 

Il problema è che c’è un’altra verità – nei secoli dei secoli – ed è il paradosso: nell’esatto momento in cui vieni pervasa dalla furiosa coscienza che sei onnipotente perché sei come Dio e hai dato la vita, vieni pure annientata dalla furiosa consapevolezza che la sopravvivenza di quella vita dipende da te, dipende da te tutto, la sua felicità o la sua infelicità, e non sai se sarai in grado di accudirla, quella nuova vita, come devi, e hai paura, la paura più pura e cristallina e terribile che tu abbia mai provato, e altro che Dio, sei l’ultimo dei miserabili. 

È stata la cultura patriarcale ad aver tramandato la maternità come destino ineluttabile della femminilità: la paura della donna non è mai stata né contemplata, né tanto meno accettata. È stata condivisa tra le donne, quando vi era un tessuto sociale che lo permetteva. È stata omessa dalla contemporaneità anche dalle donne stesse perché ammetterla comporta arretrare dall’emancipazione, dalla rivendicazione della parità: partorisci naturalmente, allatti naturalmente, naturalmente performi due giorni dopo come nulla fosse. 

Ma non c’è nulla di naturale in questo. È un’altra storia di prevaricazione. E una nuova storia di solitudine. Tra le più feroci.

di Chiara Di Clemente✍🏻

#lucenews #editoriale #allattamento #maternita #ospedalepertini
  • Theodore (Teddy) Hobbs vive a Portishead, nella contea inglese del Somerset, insieme ai genitori, mamma Beth, 31 anni, e il padre Will Hobbs, 41 anni. Il piccolo, che ora ha quasi quattro anni, è entrato nel Mensa (l’associazione internazionale fondata nel 1947 per chi ha il Quoziente Intellettivo almeno 1,5 volte quello regolare, ndr) a tre anni dopo aver superato un test del QI e ottenendo un punteggio di 139 su 160 nel test di Stanford Binet, scioccando i suoi genitori, che non avevano idea di quanto fosse intelligente. 

Ma il bambino dei segnali li aveva già dati visto che ha imparato a leggere da autodidatta all’età di soli due anni e quattro mesi e ora è persino in grado di leggere i libri di Harry Potter, quando i genitori glielo permettono, ed è in grado di contare in sei lingue diverse, mandarino compreso. I suoi passatempi preferiti? Le ricerche su Google e recitare le tabelline.

I genitori ammettono di non essersi mai aspettati che il figlio entrasse nel gruppo e non avevano nemmeno pianificato di fare domanda per l’adesione. “Ci è stato detto che non era mai entrato un membro dell’età di tre anni. A essere onesti, è davvero un colpo di fortuna che sia entrato” sono le parole di mamma Beth che spiega: “Non avevamo intenzione di farlo entrare nella società. Volevamo solo fargli fare un test prima di mandarlo a scuola per capire quale scegliere”. Ad ogni modo, continua la madre, “prima del test gli abbiamo detto che avrebbe dovuto risolvere qualche puzzle con una signora che lo guardava per un’oretta, e lui ne è rimasto felicissimo”.

I genitori del bimbo, che si sono sottoposti alla fecondazione in vitro per concepire il figlio e la sorella minore di Teddy, scherzano persino sul fatto che potrebbe esserci stato un pasticcio alla clinica della fertilità. “Non sappiamo come ha fatto a venire fuori così. Si sta rendendo conto di essere più dotato degli altri bambini. Io e mio marito scherziamo sempre dicendo che al dottore dev’essere sfuggita un’iniezione di qualche tipo. Da grande vuole fare il dottore perché gioca sempre a guarire i suoi giocattoli con il suo amico all’asilo”.

#lucenews #mensa #piccoligeni
  • “La lotta per garantire il diritto fondamentale delle donne all’assistenza sanitaria riproduttiva è tutt’altro che conclusa“.

In occasione del 50° anniversario della Roe v. Wade, lo scorso 22 gennaio, la storica sentenza della Corte Suprema che ha sancito il diritto costituzionale all’aborto, annullata la scorsa estate, la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris è stata in Florida per tenere un discorso di commemorazione.

#lucenews #roevwade #usa #abortionrights
Grégoire Ahongbonon (70 anni) è considerato il "Basaglia nero" per il suo impegno nel restituire dignità ai malati mentali d'Africa. Da oltre 30 anni libera infatti i 'matti' africani dalle catene che - letteralmente - li imprigionano nei villaggi in cui vivono. Chi è affetto da queste patologie mentali viene, per motivi religiosi – dal momento che tanti credono ancora alla stregoneria - legato mani e piedi con catene di ferro, rinchiuso in una stanza, oppure, nella peggiore delle ipotesi, tenuto all’aperto, legato a un albero, fino a quando non muore.
Grégoire Ahongbonon, filantropo beninese (Instagram)
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Grégoire Ahongbonon (Instagram)
Grégoire Ahongbonon (Instagram)
Rientrato a Bouaké, Grégoire riflette su quale possa essere la “sua pietra” e un giorno, dopo anni di assoluta indifferenza, guarda una persona che vaga nuda per strada alla ricerca di cibo nella spazzatura. Contrariamente ai dettami della cultura locale, Grégoire si avvicina a quella persona che sa essere un malato mentale in quanto la nudità ne è un segno distintivo. In lui vede il Cristo della sua religione e smette di provare paura. “A forza di osservare quell’uomo mi dissi: 'È Gesù che cerco nelle Chiese, è Gesù che cerco nei gruppi di preghiera, è Cristo che incontro nei sacramenti, è Gesù in persona che soffre attraverso questi ammalati!'. Sul momento pensai: 'Mi fanno paura'. Una voce, dentro di me, mi rispose: 'Se queste persone rappresentano per te il Cristo, perché aver paura di loro?'. Su queste parole incominciai a girare in città per vedere dove questi ammalati di mente si coricavano. Ho parlato con loro e ho capito che noi 'benestanti' abbiamo pregiudizi negativi nei loro riguardi. Ho scoperto che erano persone che cercavano amore come tutti noi”. Questo il pensiero che attraversa la mente di Grégoire quella notte e improvvisamente capisce qual è la “sua pietra”. Con l’aiuto della moglie inizia a vagare per le strade di Bouaké alla ricerca dei malati mentali e offre loro cibo e abiti per coprirsi. Gradualmente scopre le condizioni disumane in cui vivono le persone affette da disturbo psichico in Costa d’Avorio e ben presto si rende conto che l’incatenamento e l’abbandono sono pratiche diffuse e accettate dalle comunità locali. A Bouaké, in Costa d'Avorio, avvia un gruppo di preghiera che ben presto si trasformerà in un gruppo di carità per i malati bisognosi di cure: è l’Associazione Saint Camille de Lellis di Bouaké, con uno spazio all'interno dell'ospedale dedicato all'accoglienza dei malati.
Grégoire Ahongbonon è il fondatore dell'associazione "Saint Camille de Lellis", dedicata alla cura dei malati di mente in Africa
Grégoire Ahongbonon è il fondatore dell'associazione "Saint Camille de Lellis", dedicata alla cura dei malati di mente in Africa
Il momento di svolta nella vita di Ahongbonon è stata segnata dal momento di disperazione in cui si è trovato: sull'orlo del suicidio, dopo insuccessi economici e personali, ha trovato consolazione nella fede. Osservando i malati mentali, chi di loro non è incatenato, si accorge che viene lasciato libero, diventa una specie di errante, solo e abbandonato a se stesso. Nessuno lo tocca per paura di essere contagiato dalla pazzia. Il "Basaglia nero" ha iniziato a rompere - letteralmente - le catene, e a raccoglierli dalle strade, insieme a persone affette da altri problemi, come per esempio l'epilessia. Parlando con le famiglie e negoziando con i capi dei villaggi, Grégoire ha potuto recuperare la maggior parte di questi malati, li ha portati a essere consultati da psichiatri e ha assicurato loro un luogo di vita più degno appena si sono ristabiliti. Coloro che sono guariti hanno imparato un lavoro, sono tornati attivi e in molti casi sono diventati il personale per curare altri malati mentali. Altri sono tornati nei loro villaggi, ma non più incatenati. Sono stati riaccolti in famiglia e hanno ripreso una vita sociale. “Io non ho studiato, non sono istruito – dice Grégoire -. Credo che Dio sia venuto a prendermi da una tomba nel momento in cui avevo perso tutto e avevo deciso di suicidarmi. E quando avevo perso ogni speranza, Dio è venuto a prendermi da una tomba. Ed è per questo che guardo i malati con un occhio diverso. Dio miracolosamente ha visto la sofferenza di questi malati e questa catena è diventata un simbolo, una catena di amicizia e di fraternità. Per questi malati è diventata una catena d’amore che li salva”. Grégoire è stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sua testimonianza ha superato i confini degli Stati africani, tanto che i centri di psichiatria occidentali sono stati sfidati e si sono interrogati sulle storie di rinascita umana che continuano a contraddistinguere l’opera della Saint Camille. Questa storia ha varcato i confini dell’Africa ed è arrivata anche in Italia. “Io sono stato coinvolto da un infermiere che aveva un fratello sacerdote della diocesi di Gorizia – spiega lo psichiatra Marco Bertoli -. Mi ha detto che in Africa aveva incontrato una persona che 'liberava' i malati. Allora gli ho chiesto: cosa significa 'liberare' i malati? E così, era il 1998, andai a vedere con un responsabile di salute mentale di Palmanova, in Friuli, cosa succedeva in Africa, e qui mi sono imbattuto in queste persone legate e segregate e mi ritrovai a dare una mano a questa realtà. Ogni anno ci rechiamo per almeno venti giorni in Africa e cerchiamo di dare una mano come possibile. Sono decine di migliaia le persone liberate e oggi vediamo che, dove sono impiantati i centri, la gente comincia a portare gli ammalati senza più incatenarli. L’esperienza di Grégoire ci insegna che affrontare la tematica della salute mentale va promossa, e importante è la relazione in famiglia, un’affettività espressa che non può diventare mai esclusione dell’altro. Ci insegna che una comunità può vivere non nell’indifferenza ma nel sostegno e nell’aiuto reciproco: questo è il messaggio comunitario che cerchiamo di portare avanti nei nostri servizi pubblici sulla salute mentale che in Friuli io dirigo. Ripartirò per l’Africa a ottobre, è il mese in cui facciamo le nostre missioni. La specificità di Grégoire non è semplicemente la risoluzione del sintomo, ma l’accoglimento in struttura, l’ospitalità, la cura. E poi c’è una liberazione ulteriore: il ritorno a casa. È una grande festa quando la persona ritorna a casa e viene accolta nel villaggio. La famiglia, che era stata costretta a segregare quella persona, poiché mancano le capacità di intervento, festeggia il suo ritorno”.
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