Tra Ronciglione e il Golfo Persico. Marco Mengoni si fa il test del Dna e, sorpresa, scopre di essere per il 35% italiano e per il 16% iraniano-iracheno, il resto sparso una miriade di genie diverse in piena sintonia, quindi, col meticciato musicale che trasuda dal nuovo album "Materia (Pelle)", secondo capitolo della trilogia avviata lo scorso autunno da "Materia (Terra)". "Lo vedo come un disco corale, con musica africana, sudamericana, elettronica" ammette. "In 'Ancora una volta' in cui riprendo dei madrigali. Tanta roba”. Il terzo e ultimo pilastro del progetto arriverà forse a primavera, prima del ritorno negli stadi che l’estate prossima lo vedrà il 20 giugno a Padova con tappe il 24 a Salerno, il 28 a Bari, il primo di luglio al Dall’Ara di Bologna e il 5 a Torino. Intanto l’eroe di "Tutti i miei ricordi", oltre al primo posto nell’airplay, si gode il tour nei palasport portato al debutto nei giorni scorsi a Mantova. S'è pure iscritto all’università, per studiare psicologia.
La parola chiave di questo nuovo disco disco è "apertura". Preoccupato dei venti contrari che spirano qua e là? "Non vorrei che alcuni principi in tema di diritti ormai assodati venissero rimessi in discussione e che alcuni estremisti del pensiero si sentissero in qualche modo legittimati. Soprattutto sul web. Pure da noi comincio a sentire discorsi strani e anacronistici che vorrebbero privare la donna della libertà di scegliere sul proprio corpo. Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Ma non al '73, direttamente alla preistoria”. Dopo la terra, la pelle. "I sottotitoli di questa trilogia non li ho decisi prima, ma voglio farlo di volta in volta a lavoro finito. 'Pelle', ad esempio, l’ho scelto perché è il termine che mi fa pensare di più a questo agglomerato di canzoni e di influenze; un disco vissuto come quelle rughe e quelle cicatrici che ci rendono uno diverso dall’altro".
Tre dischi, tre anime diverse. "Un disco di questo tipo è un work in progress soggetto a continue modifiche, visto che a modificarsi nel tempo è pure il tuo pensiero". Il primo capitolo di "Materia" aveva una bella impronta soul e rhythm’n’blues, questo guarda anche altrove. "Una parte è un po’ clubby. Ci sono pure Mace, La Rappresentante di Lista, Bresh. Per questo lo vedo come un disco corale, con musica africana, sudamericana, ma anche canti gregoriani in 'Ancora una volta', in cui riprendo dei madrigali. Tanta roba, a tratti forse troppa”.
C’è pure Bersani. "Per me Samuele è una specie di fratello maggiore. Gli ho mandato 'Ancora una volta' solo per avere un giudizio e lui mi ha risposto: in questo pezzo vorrei esserci anch’io. Sinceramente, non considero il nostro incontro un duetto, né un feat, ma solo un regalo immenso che ha voluto farmi". Dovendo fare delle scelte, in una ideale playlist cosa metterebbe? "Siccome ci sono dei pezzi che hanno fatto crescere il disco aggregando via via attorno a loro poi tutti gli altri, partirei da 'Unatoka Wapi', che in lingua swahili significa 'Da dove vieni?' ed è un po' il manifesto del progetto, con un testo ispirato da Frantz Fanon, un antropologo e psichiatra anticolonialista molto attento nelle sue opere al rispetto della dignità della persona. Aggiungerei 'Ancora una volta' e 'Respira' perché raccontano bene l’idea del disco. Proprio i tre pezzi che all’inizio del progetto avevo messo nel cassetto pensando a questo secondo disco".
Tornerebbe a Sanremo? "Con il pezzo giusto, sì. Perché il Festival è tornato ad essere una bella vetrina in cui presentare la propria musica. Un po' come i Grammy in America. Ed è figo andare ai Grammy. È vero, all’Ariston ci sono una gara e una classifica, ma la storia ricorda che l’ultimo può avere successo in radio come il primo e quindi non è un problema. Per quanto mi riguarda, al momento non c’è niente però". "Caro amore lontanissimo" è un inedito di Sergio Endrigo inserito pure della colonna sonora di "Colibrì", il film di Francesca Archibugi che verrà presentato giovedì prossimo alla Festa del Cinema di Roma. "Me l’ha proposto Claudia Endrigo cinque anni fa. Il padre l’aveva abbozzato nel ’73 con Riccardo Sinigallia l’abbiamo ripreso e completato. Ritengo una magia il fatto di averlo in questo disco e nel film perché, avendo un arrangiamento orchestrale e una scrittura diversa da quella di oggi, finora non ero riuscito a trovargli un senso. Diciamo che sta in quel mio 35% italiano".