"Mi chiamo Luca de Santis e ho la fortuna di far parte della comunità LGBTQ+ italiana da molti anni, o almeno abbastanza da aver vissuto importanti cambiamenti sociali, culturali e politici". Quarantaquattro anni, scrittore, fumettista. E fondatore di "Geekqueer", primo blog al mondo a fare un censimento dei personaggi Lgbtq nella storia dei videogiochi. "L'ho aperto farmi aiutare nel lavoro di scrittura del saggio ‘Videogame’. La ricerca parte dalla fine degli anni ’70 fino al 2005 e mi sono accorto che in Italia non c'era una vera community di videogiocatori", racconta De Santis. "Il nome Geekqueer arriva proprio dal fatto che ‘geek’ è chi è interessato alla tecnologia e al termine ‘queer’ sono molto affezionato. In realtà aveva un'accezione negativa in inglese, perché vuol dire ‘frocio’, però la comunità Lgbtq se n’è appropriata e utilizzandola ha tolto tutto quell’alone negativo. Nel tempo è diventato un termine ombrello con un’accezione molto sovversiva, perché indica tutto ciò che non rientra nel binarismo".
Ma Luca, che sui social ha adottato proprio il nome Geekqueer, oggi è anche l'autore e protagonista di "Generazioni", un podcast in sei puntate disponibile in esclusiva su Storytel dall’1 giugno. La sua esperienza è il fil rouge del racconto, dal coming out giovanissimo, da ragazzo del sud a Campobasso, la sua città natale, all'uomo di oggi, che guarda ai giovani con speranza ma senza perdere di vista coloro che gli hanno dato gli strumenti necessari per la sua autodeterminazione. Una sorta di memoir, tra storia, attivismo, politica, ripercorrendo un passato che, per quanto (non ancora abbastanza) superato, non va però dimenticato, e che si incontra ora con il presente nelle lettere L,G,B,T,Q, e nel simbolo +. "Ho deciso così di incontrare le persone che sono state importanti nella mia formazione, e dialogare con quelle più giovani" racconta a Luce! emozionato da questa esperienza. Un ultimo viaggio alla riscoperta di sé attraverso la storia di tanti e tante, ma anche uno strumento, una sorta di bussola per orientarsi, oggi e in futuro, all'interno della comunità stessa.Luca, l'idea del sovvertire lo status quo si addice sia all’ambito della comunità Lgbtq che a quella dei videogame?
“Sì perché all’epoca si faceva un po’ una rivoluzione e la si fa ancora oggi. Quando ho iniziato la raccolta dei dati sul blog, 17 anni fa, c’erano pochissimi videogiochi, c’era pochissima rappresentazione e soprattutto non c’era la disposizione di ora. Non che adesso ci siano tantissimi personaggi Lgbtq... Ce ne sono di più e sicuramente sono più esposti, adesso sono presenti non solo in produzioni indi o piccoline ma in produzioni grandissime. E sono personaggi principali. Abbiamo fatto un grande passo ma è solo l’inizio: i dati sono incoraggianti, perché siamo arrivati, nel 2021, al 10% di rappresentazione di personaggi Lgbtq nelle produzioni televisive e cinematografiche di prima serata. Sicuramente sta andando meglio, ma questo vuol dire che c’è sempre un 90% di produzione dove non c'è rappresentazione. Niente dittatura del politicamente corretto insomma”.
Si parla di qualcosa che è iniziata a cambiare appena un paio di decenni fa…
“Secondo me l’anno di svolta è stato il 2000 perché è stato organizzato il World Pride durante l’anno del Giubileo. Il Mario Mieli (il circolo di cultura omosessuale intitolato allo scrittore, ndr), con tutte le associazioni d’Italia, organizza il Pride più grande del mondo, dove partecipa un milione di persone. Il World Pride è diventato una bomba che è deflagrata su tutti i giornali, le televisioni, non solo perché ci stavamo inserendo nell’Anno Santo, ma ci siamo inseriti e imposti nel discorso politico con le nostre istanze. Da lì non ce ne siamo più andati. Erano anni in cui già si avanzavano proposte di unioni civili, però dal 2000 in poi è sempre stato un tema presente nei programmi politici alle elezioni, non solo dai candidati Lgbtq ma nei candidati di sinistra. Dopo è stato difficile far finta che quei temi non fossero urgenti”.
E da lì in poi anche il Pride è diventato qualcosa di diverso, in Italia?
“Dopo il Duemila c’è stata l’idea di farlo in tutte le città. Prima abbiamo sempre organizzato la parata in un posto: c'è stato il Pride a Roma, il primo nel 1994, poi a Bologna nel 1995, poi il Pride a Napoli e così via. Dopo è nata l’idea di dividere in tantissimi piccoli Pride in tutte le città, per parlarne sempre di più e per far capire che eravamo presenti in tutta Italia. Diventiamo presenti ovunque”.
Come vede la situazione dei diritti civili oggi nel nostro Paese?
“La questione sociale è tutta legata a stretto filo, basti pensare che siamo tornati a parlare di diritto all’aborto. Qualche anno fa, alla presentazione di un mio fumetto a Campobasso, parlando di diritti delle donne avevamo scoperto che il Molise era l’unica regione italiana con un solo medico non obiettore e quel medico stava andando in pensione a 70 anni perché non trovava sostituti”.
Arriviamo al suo podcast, partendo dal titolo: perché Generazioni?
“Volevamo mettere un focus che fosse più chiaro possibile su qual era il tema del podcast. Quello che mi ha spinto a iniziare a scrivere è il far dialogare le generazioni precedenti e quelle successive alla mia. Essendo stato molto precoce nel mio coming out, a 15 anni, questa voglia di militanza e di attivismo l’ho sviluppata presto e quando sono arrivato a Bologna (al Cassero a 17 anni, ndr) ho conosciuto subito la generazione precedente alla mia che è stata quella che mi ha formato. Negli anni a venire ho avuto la fortuna di vivere tutte le realtà più grandi in Italia. Poi ho iniziato a scrivere i miei libri e ho continuato a fare conferenze in tutti i circoli arcigay italiani, anche quelli piccolini e sperduti. E infine, lavorando in pubblicità, mi sono specializzato nella comunicazione sul target giovane. Quindi questa percezione delle generazioni che mi hanno preceduto e quelle successive l’ho sempre mantenuta: da una parte erano i miei amici e le persone che mi hanno insegnato, dall’altra ho sempre sentito una grande responsabilità sui ragazzi più giovani”.
Perché questa esigenza proprio ora?
“Ho notato che in questi ultimi tempi si sta perdendo un po’ il filo del discorso: il dialogo iniziato dalle vecchie generazioni e portato avanti dalla mia si stava assottigliando e perdendo con le ultime. Quando abbiamo iniziato con Antonia (Caruso, attivist* trans/femminista, ndr) a pensare a questo podcast ci siamo imposti una regola: non portare avanti nessuna regola. Volevamo capire cosa stesse succedendo e chiederlo alle vecchie e alle nuove generazioni. Capire se effettivamente questa percezione che avevamo di ‘non comunicazione’ era reale o no. Ma non abbiamo avanzato tesi. Ci sono state conferme e ci sono state sorprese, ma abbiamo capito che il titolo doveva essere quello, chiaro e semplice”.
Come si struttura il podcast?
“I sei episodi seguono l’acronimo Lgbtq+. Ma non in questo ordine perché in realtà abbiamo seguito la mia storia personale che è un po’ il filo rosso e il pretesto per andare a chiacchierare con i nostri ospiti, chiedendo loro: ‘Parlami di come è iniziato il tuo attivismo e la tua militanza e secondo te dove va a finire?’. Sono stati dei monologhi in pratica, non interviste, ci siamo posti in ascolto”.
Chi sono gli ospiti di Generazioni?
“Sono persone a me molto care, perché mi hanno formato in questo percorso di autodeterminazione. Si inizia con Beppe Ramina, che è uno storico del movimento Lgbt bolognese ed è la lettera G. Nel secondo episodio c’è Bruno Pompa, la lettera Q, che per tantissimi anni è stato il direttore creativo del Cassero. Poi Egizia Mondini che è stata la direttrice di OUT (la rivista patinata gratuita prodotta a Roma, ndr) ed è la lettera L. Si continua dopo con la lettera T e c’è Porpora Marcasciano, ex presidentessa del MIT, e lì raccontiamo tutto il WorldPride del 2000. Poi La lettera B è rappresentata da Debora Di Cave, prima presidente del Mario Mieli, che ha una lunga tradizione di presidenti donne rispetto al Cassero che è molto maschile. Nell’ultima puntata, dedicata al segno +, ci sono tre ragazzi: diciamo che tiro le fila del discorso nel chiacchierare con Majid, Stephan e Camilla. Majid è un ragazzo transgender intersessuale, Stephan è intersessuale e Camilla è una ragazza lesbica nonché la prima presidente del Cassero donna”.
Ci spiega il segno più?
“Majid inizia con una frase bellissima: ‘Tranne le prime due lettere dell’acronimo, io tutte le altre le ho’. Perché è un ragazzo transgender, che si scopre intersessuale, bisessuale e asessuale e quindi dice: ‘Io faccio coming out in continuazione’. Secondo me questo è il racconto più bello di come le nuove generazioni approcciano alla propria autodeterminazione. È una ricerca continua. Non si fermano, mai. Sanno che è tutto in evoluzione, che ogni lettera dell'acronimo non è un’etichetta ma è solo una definizione che può servire a orientarsi, può essere uno strumento per capire cosa sta succedendo nella propria identità. Non è qualcosa che attaccano gli altri ma che scegli tu, se non ti sta più bene ce ne sono altre e se non ci sono si creano. Ecco spiegato il segno +. È il segno che dà più speranza, è davvero una proiezione a quel futuro in cui forse questo percorso non sarà più difficoltoso e doloroso, ma sarà sempre più semplice”.
Tre parole che cancellare dal lessico comune?
“Allora non mi piace ‘buonista’, ma nel senso che trovo sia una parola positiva e non negativa, ma siamo arrivati addirittura a pensare che essere buoni sia un difetto. È una parola che non mi piace per come viene interpretata. Non mi piace ‘dittatura del politicamente corretto’ perché è un falso retorico visto che i dati dicono tutt’altro. La terza è ‘esclusione’”.
Tre che invece le piacciono?
“Sicuramente ‘generazioni’ è una di queste – ride –, poi mi mi piace la parola ‘viaggio’ perché è quello che facciamo tutti quanti, e mi piace la parola ‘ascolto’”.
E se le dico luce a cosa pensa?
“Mi viene in mente la luce in fondo al tunnel, perché sono un ottimista. Sono convinto che alla fine di questo tunnel c’è una luce molto forte e molto calda”.