Diritto all'aborto in Italia: vediamo di capirci qualcosa in più, tornando indietro nel tempo e nella memoria. Un Referendum storico e vinto, nel 1981, in modo schiacciante, più di quello sul divorzio Partiamo dal giudizio della costituzionalista, da sempre molto attenta ai diritti delle donne, e oggi candidata per il Pd nel collegio uninominale di Sassari (Nord Sardegna), la professoressa
Carla Bassu: “Il diritto all’autodeterminazione delle donne non deve essere messo in discussione. Il corpo delle donne non è un fronte sul quale combattere battaglie politiche. Le donne devono essere sostenute dall’ordinamento e messe in condizione di scegliere consapevolmente, considerando tutte le alternative, ma la scelta ultima è individuale. Su questo non si può cedere: i diritti non sono conquiste irreversibili, abbiamo il dovere e la responsabilità di
attivarci a preservarli intatti”. E’ uno strumento, l’aborto, dunque, a difesa della vita e della salute delle donne, già sotto attacco in molti Paesi. Nell’
Ungheria di Orbán e in
Polonia, per restare ai Paesi membri della Ue, e molti altri, ma anche negli
Usa. Dove, sia sotto la presidenza Trump che, persino ora, sotto la presidenza Biden, è di nuovo minacciato a causa di una sentenza ‘restrittiva’ della Corte Suprema (in mano, oggi, ai repubblicani) che permette, agli stati ‘confederali’ (come il Texas e altri), che vogliono limitarlo, di poterlo farlo. Strumento protetto, in Italia, dalla legge 194/1978 (primo firmatario il socialista Psi Vincenzo Balzamo), ma solo dopo tanto di referendum abrogativo.
Il leader radicale Marco Pannella durante un comizio a piazza Navona, a Roma, per il referendum sull aborto del 17 maggio 1981
Vinto dai Radicali e dalle sinistre nel 1981, i quali primi ne proposero anche un altro, che ne allargava le maglie, ma che invece fu perso, contro il
Movimento per la Vita, appoggiato sempre dalla Dc e dal Msi soltanto, che chiedeva l’abrogazione in toto della legge Balzamo. Solo che, a differenza di quello sul divorzio, il Pci di Enrico Berlinguer, che aveva operato (1979) la ‘svolta a sinistra’, rompendo i governi di ‘solidarietà nazionale’ con la Dc, era ‘convinto’, oltre alle sinistre extraparlamentari e i partiti laici. Il Referendum ottenne una
vittoria schiacciante (68% di no alla proposta abrogativa, 32% di sì), ma si era anche nel clima degli anni ’70. Mentre, invece, molto più dura fu, anni prima, introdurre, paradossalmente, il diritto al
divorzio. Infatti, il divorzio, introdotto e approvato dal Parlamento con la legge
Fortuna-Baslini (1970) venne poi ratificato da un altro epico referendum, vinto dai Radicali di
Marco Pannella nel 1974, ma questi lo vinsero praticamente da soli perché la sinistra comunista di allora (il Pci, sempre di Berlinguer, che non voleva ‘irritare’ le masse cattoliche e la Dc con cui voleva fare il ‘compromesso storico’) lo appoggiò blandamente, mentre solo i socialisti, gli altri partiti laici e la sinistra extraparlamentare (Dp, Pdup, Lc, etc.) lo appoggiarono con forza (risultato finale: 59,1% di no, all’abrogazione, e solo il 40,9% di sì, richiesta sempre di Dc-Msi).
La ‘destra’ conculcherà il ‘diritto’ all’aborto? La situazione nelle Marche e nell’Umbria
Chiudendo l’excursus storico-politico e tornando all’oggi, il
diritto all’aborto verrebbe ‘negato’ – secondo il Pd, le sinistre (Verdi-SI, liste minori) e pure secondo la Ferragni – già ora, in una delle regioni che il centrodestra (e, in particolare, Fratelli d’Italia) amministra. E, cioè, le Marche, il cui presidente, il giovane Francesco Acquaroli, è salito alla ribalta delle cronache, dopo aver ‘spodestato’ la sinistra da un lungo governo, in regione, per simpatie ‘ducesche’: è stato immortalato, durante una cena pre-elettorale, ad Acquasparta, a ridere e scherzare tra saluti ‘romani’ e inni al Duce che facevano, però, altri commensali, pur di FdI, seduti a tavola. Una regione, le Marche, dove – sempre secondo la Ferragni – il diritto all’aborto è conculcato. Come lo è, per dire, nella regione Umbria, che, però, sempre dopo un lungo governo del Pd, oggi è governata dalla leghista Donatella Tesei.
I modi per ‘conculcare’ il diritto all’aborto
L’interruzione volontaria di gravidanza che è un diritto, non una possibilità, ed è sancito da una legge, la 194 del 1978, che esiste da 44 anni
Al netto del fatto che, nelle
Marche, anche il ‘diritto di morire’ viene, di continuo, limitato e che, quindi, le ‘linee’ di governo locale di FdI (come della Lega), sono assai compatte, sui temi dei diritti civili che ‘non’ vogliono riconoscere, sono molti i modi per attentare a un diritto. Non riconoscerlo, nei fatti, è il più feroce dei modi. Come per
l’eutanasia e il suicidio assistito, diritti che in Costituzione hanno forma, ma sulla carta, ma dunque, anche nella realtà, sono negati. E poi ci sono modi più sottili di ferire un diritto: scriverlo in una legge, prevederlo in astratto ma renderlo di difficile applicazione in concreto. È, appunto, il caso dell’interruzione volontaria di gravidanza che è un diritto, non una possibilità, ed è sancito da una legge,
la 194 del 1978, che esiste da 44 anni ma continuamente è oggetto di diretta o indiretta
messa in discussione. E’ così, appunto,
nelle Marche a guida Acquaroli, dove l’assessore alla Sanità, il leghista Filippo Saltamartini, ha ‘scelto’ di non applicare le linee guida sancite dal ministero della Salute sull’aborto farmacologico, con il risultato che le settimane entro cui è permesso assumere la
pillola Ru486 sono passate da 9 a 7. Il che significa
rendere, di fatto, quasi impossibile il ricorso al metodo farmacologico abortivo e, dunque, dover abortire sempre e solo con metodo chirurgico. Sul ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico l’Italia racconta un quadro assai allarmante: Marche,
Umbria,
Molise (altra, piccola, regione, ma sempre governata dal centrodestra, governatore l’azzurro Donato Toma) hanno una percentuale che oscilla dall’1% a poco meno del 10% di aborti farmacologici, mentre la media nazionale si attesta sul 25% e in alcune regioni è del 45%. Ciò che si nasconde dietro alle
politiche di fatto ‘anti-abortive’ di regioni che amministrano la sanità come fosse una questione di preservazione della ‘razza’ italiana, c’è la scelta di rendere il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza sempre più complesso da esercitare e, dunque, di fatto, di metterlo sempre più in discussione. Perché se è vero che
Meloni e Salvini, oggi in campagna elettorale, non si azzardano a dire pubblicamente di voler mettere in discussione la legge 194 (ma alcuni dei loro candidati lo dicono), è altrettanto vero che i loro presidenti di Regione, specie quelli in quota
Fratelli d’Italia, il diritto all’aborto l’hanno già compresso fino al punto di costringere molte donne a ricorrere ai tribunali per chiedere se sia legittimo che una Regione non garantisca un metodo per abortire (quello farmacologico), meno invasivo di quello chirurgico, secondo una scelta contraria alle linee guida nazionali e al diritto delle donne di abortire liberamente e con il minor dolore possibile (almeno quello fisico, ecco…).
I pro e contro della denuncia della Ferragni
La simulazione del parto fatta da Fedez: nel filmato che viene diffuso su Canale 5 uno stralcio della serie tv della coppia “The Ferragnez”,sulla vita del rapper e Chiara Ferragni
Perciò, è bene che se ne parli, e si denunci. Il guaio è quando ne parla
Chiara Ferragni, che non è una giovane blogger o un giornale o una tv, ma una influencer da milioni di follower, oltre che una star strapagata per (farsi) pubblicità. Infatti, il problema – a sentire le varie star musicali (
Elodie, Giorgia e molti altri) e pure del web e del magico mondo dei social (Ferragni) – non sta tanto nel fatto – del tutto legittimo, da parte loro – di affermare che i diritti civili, nella prossima legislatura, nasceranno ‘già morti’, cioè non si faranno mai, o che conquiste ‘storiche’ delle donne e femministe italiane, come l’aborto, oggi sarebbero a rischio. Il ‘problema’ sta tutto nell’autorevolezza di ‘scendere in Politica’ da parte di star che, di solito, si occupano di altro. E, dati e numeri alla mano, si può dire che Ferragni abbia fatto ‘un danno’, ai diritti delle donne, e alla loro difesa, che va fatta, e non un buon favore.
Quanto ‘sposta’, davvero, un/una influencer?
Ma quanto sposta, davvero,
un/una influencer? Ha un reale impatto sulla campagna elettorale? A sentire
Antonio Noto, sondaggista, non molto invero. “Nelle scelte politiche - sostiene Noto - rispetto alla formazione del consenso gli italiani reagiscono maggiormente in relazione ai loro bisogni e alle loro attese piuttosto che in relazione al racconto degli influencer, che spesso stimolano stili di vita, consumi, ma non di tipo elettorale”. La popolazione italiana sulla politica è “più guardinga”, continua Noto. “L’immaginario collettivo li percepisce come non specializzati ed estranei. Di conseguenza il loro racconto ha meno impatto”. In termini statistici, l’influencer non ha nessun effetto, “entriamo nel campo dell’indifferenza. Anche perché per natura non influiscono a 360 gradi, ma sono targettizzati.
Il target degli influencer è molto giovane e i più giovani spesso non vanno a votare.
Il 50% dell’elettorato ha più di 45 anni. La fascia di età tra i 18 e i 24 anni raggiunge il 7%. Se vota la metà, influisce nell’ordine del 3%, considerando anche che il voto si distribuirà tra le varie liste”.
Beppe Grillo, pur non essendo un influencer ma un comico, è stato il primo influencer della politica
Almeno
nella politica, gli influencer sono altri. “Paradossalmente
Beppe Grillo, pur non essendo un influencer ma un comico, è stato il primo influencer della politica. Con un percorso che implicava un impegno riconosciuto e condiviso. In mancanza di un progetto, il discorso pubblico si spegne in due giorni, gli interventi sui singoli fatti non diventano elemento di dibattito”, conclude Noto. Lasciando il sospetto che
a essere elettrizzati dal partito delle/gli influencer siano più i media che l’opinione pubblica e che, dunque, alla fine,
alle donne italiane e ai loro diritti, come l’aborto, Ferragni abbia fatto più danno che aiuto.