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Home » HP Blocco Grande » Una risata per seppellire i pregiudizi, Bellini: “Con l’intrattenimento si creano spazi sicuri”

Una risata per seppellire i pregiudizi, Bellini: “Con l’intrattenimento si creano spazi sicuri”

A Firenze con Impro Queer il cabaret diventa una performance di improvvisazione unica. L'esempio di The Shade, con Drag Queen, Drag King, performer e attori Lgbt

Geraldina Fiechter
1 Agosto 2022
A Firenze il cabaret diventa una perforrmance di improvvisazione con un cast di attori etero e Lgbt

A Firenze il cabaret diventa una perforrmance di improvvisazione con un cast di attori etero e Lgbt

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Una risata seppellirà i pregiudizi? Proviamo. L’esperimento ha preso corpo a Firenze, che dopo la pandemia – e dopo Roma e Milano –è diventata una delle culle del cabaret queer. Con l’Impro Queer si va oltre. L’idea è dare vita a performance di improvvisazione teatrale dove un cast di attori etero si cimenta con attori Lgbt: insieme sul palco e insieme nel pubblico, liberi di mettere in scena i tic e i pregiudizi (o stereotipi) degli uni e degli altri, liberi di riderne purché il gioco resti alla pari. Alla guida due forti personalità: Lea Landucci, ingegnere, scrittrice, professionista e insegnante del teatro di improvvisazione, e Valerio Bellini.

Valerio Bellini, si definisce da solo?
“Sono un uomo, bianco, cisgender, gay, poliamoroso, nato da una famiglia benestante, con licenza superiore e con un marito (anche se l’unione civile non è un matrimonio) con cui da tempo è nata la voglia di impegnarci e fare attivismo”.

Attivismo: cioè?
“Mattia, mio marito, è un illustratore e tatuatore, e insieme abbiamo avviato piccoli progetti illustrati: i Queersauri(dinosauri colorati e con le piume) e The coloring drag, libri da colorare per educare i bambini alla diversità attraverso il gioco. Dopo il secondo lockdown e dopo vent’anni di professione nella danza, ho iniziato a fare attivismo con Arcigay. Ed è cominciato il lavoro duro”.
Valerio Bellini
Valerio Bellini
Duro perché?
“Perché quando cominci a stare davvero dentro la società scopri quante discriminazioni e aggressioni ci sono. E devi ingoiare tanti rospi, non ero abituato. La cosa più grande che ho realizzato, per ora, è The Shade, il cabaret queer, con la famosa Drag Queen Ava Hangar, venuta da Milano inizialmente come host e diventata poi un partner fisso”.
Cosa è The Shade?
“Un evento innovativo, importato da altre città italiane e straniere, che a Firenze nasce all’interno di Arcigay. È un evento con performers queer, quindi con Drag Queen, Drag King, stand up comedians, artisti, che parte con un talk culturale, continua con lo show e finisce con la discoteca”.
Lo scopo?
“Mettere insieme intrattenimento e contenuti culturali, creare uno spazio sicuro per tutte le persone che non hanno un luogo sicuro in cui divertirsi e per chi spazi invece ne avrebbe ma può imparare qualcosa di nuovo e buone pratiche di inclusione”.
Cosa si intende per divertimento? Cosa è permesso fare in un cabaret queer, anche prendervi in giro?
“Certo, tutti abbiamo bisogno di divertirci e di sganciare la testa, e sentendoci in un posto protetto possiamo essere liberi di scherzare su tutti gli stereotipi, anche quelli di cui il mondo Lgbt può essere portatore. Possiamo ridere degli atteggiamenti effeminati gay, per esempio, perché allo stesso tempo possiamo ridere dell’uomo macho o di un certo tipo di donna. Se il campo è neutro, siamo tutti alla pari. È un modo per educare divertendosi e includendo tutti, cosa che in una discoteca, per esempio, non sarebbe possibile”.
Quindi il contesto conta più del tipo di comicità o di battuta?

“Certo: se tutti veniamo colpiti dalla satira in modo trasversale, nessuno resta vittima. E la battuta comica diventa uno strumento efficacissimo per scardinare gli stereotipi in un clima di fratellanza e amicizia. Se invece la satira è fatta da una posizione di privilegio, allora fa una cosa scorretta”.

The Shade
The Shade
Quindi la satira sull’omosessuale o sul transessuale brasiliano di Checco Zalone in tv, per esempio, non è accettabile a prescindere dal contenuto?
“Sì perché quello non è un contesto di parità. Lui è un uomo etero che prende in giro lo stereotipo dell’uomo gay e della donna trans senza che nessuno possa reagire o replicare. Per noi è un’aggressione, tanto è vero che nei giorni successivi si sono verificati casi di emulazione fra i ragazzi al limite del bullismo. Questo tipo di comportamento non aiuta a scardinare gli stereotipi ma anzi li legittima”.
E nei vostri eventi il pubblico come si comporta?
“Il pubblico è misto, arriva tanta gente diversa e scatta la curiosità verso l’altro. E la curiosità è un modo sano di approcciarsi all’altro, si tende a scoprirsi senza pregiudizi, o peggio giudizi. E alla fine si balla e si ride insieme in un clima molto rilassato”.
Si può dire che diventano eventi anche terapeutici?
“In un certo senso sì. Potendo esprimere liberamente sia i propri pregiudiziali che quelli che incontriamo nel mondo reale, ci rendiamo conto che tutti, talvolta, siamo vittime di qualche stereotipo che ci imbriglia e ci condiziona. La comicità è molto utile per parlare di certe cose. Ci sono tanti stand up comedians stranieri, che oggi sono visibili e sottotitolati nelle varie piattaforme tv, che fanno ridere e nello stesso tempo fanno riflettere su tanti tabù. Ridendo degli stereotipi ci si rende conto di quanto siano limitanti. Esempio: gli uomini gay sono tutti promiscui. Questo è ridicolo, non si può generalizzare. Sarà la stessa percentuale che c’è fra gli etero, o no?”.
Come spiegherebbe l’arte drag?

“È l’arte di crearsi un personaggio da portare in scena utilizzando il proprio talento e declinandolo con varie forme artistiche. C’è chi canta, chi balla, chi fa stand up, chi fa teatro. Per me ha anche un valore politico, che serve a scardinare certi schemi binari: l’uomo patriarcale che deve fare l’uomo, che non deve piangere, la donna che si prende cura degli altri e invece piange. A me per esempio questa cosa che gli uomini non possono piangere mi sembra una limitazione terribile della possibilità di esprimersi, di vivere momenti tristi o felici commuovendosi. Il ribaltamento di questi ruoli è già un fatto politico in sé”.

Il dietro le quinte nella preparazione di una Drag Queen
Chiunque può fare arte drag, a prescindere dal proprio orientamento sessuale?
“Certo (anche se è raro). È una forma di espressione artistica. Se vogliamo entrare nelle definizioni, la Drag Queen è un uomo che si traveste da donna, mentre la donna che si traveste da uomo è un Drag King (era molto di moda nel primi anni del Novecento). Ci sono anche le Bio Queen: donne il cui personaggio è femminile”.
Achille Lauro è definibile come una Drag Queen?
“No, lui è un cantante che fa delle performance prendendo a prestito espressioni queer”.
E Drusilla Foer?
“Non è una Drag, lui/lei si definisce come en travestì, cioè travestito nel sesso opposto. Di Drusilla non conosciamo la persona, o meglio non si svela, Drusilla è l’unica identità con cui si mostra, non vedrai mai Gianluca Gori in scena, c’è una separazione molto netta. Mentre di Ava Hangar, per esempio, conosciamo Ava ma anche la parte maschile, che una volta finita la performance torna a essere Riccardo anche in pubblico”.
Lei si è definito poliamoroso. Ce lo spiega?
“Vuol dire avere più relazioni nello stesso momento. Io ho un marito e un fidanzato“.
È contrario alla monogamia?
“No, ognuno è libero di essere come è, il problema nasce quando nascono le discriminazioni”.
La categorie con cui definire le identità sessuali sono ormai moltissime. Poliamoroso, demisessuale, non binario, sapiosessuale, pansessuale e via così. C’è bisogno di queste etichette?
“Non le chiamerei etichette, che ricordano i prezzi al supermercato, e neanche categorie. Ma le definizioni sì, servono. E sa perché? Perché senza le parole che ci definiscono, non troviamo il nostro posto nel mondo. Se so come definirmi, mi riconosco, ho un posto, riesco a raccontarmi. E questo è fondamentale. Anche se poi non basta dire uomo, cis, gay, bianco, per dire tutto quello sono io, per esempio. Ovvio. Ma è un inizio. Non si può pensare che una sola definizione ci definisca nella nostra totalità. L’importante è non dare etichette, o categorie, perché ogni persona è diversa dall’altra”.
Pensa di avere figli in futuro?
“Non essendoci la possibilità in Italia, non mi pongo il problema. Semmai mi batto per una legge che dia la possibilità di adottare o di accedere alla procreazione assistita per le coppie con unioni civili. Personalmente vorrei adottare, non farei mai un figlio mio, siamo già troppi in questo pianeta. Sarei felice di dare una casa e una famiglia a un bambino che non ce l’ha”.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Una risata seppellirà i pregiudizi? Proviamo. L’esperimento ha preso corpo a Firenze, che dopo la pandemia – e dopo Roma e Milano –è diventata una delle culle del cabaret queer. Con l’Impro Queer si va oltre. L’idea è dare vita a performance di improvvisazione teatrale dove un cast di attori etero si cimenta con attori Lgbt: insieme sul palco e insieme nel pubblico, liberi di mettere in scena i tic e i pregiudizi (o stereotipi) degli uni e degli altri, liberi di riderne purché il gioco resti alla pari. Alla guida due forti personalità: Lea Landucci, ingegnere, scrittrice, professionista e insegnante del teatro di improvvisazione, e Valerio Bellini.
Valerio Bellini, si definisce da solo? "Sono un uomo, bianco, cisgender, gay, poliamoroso, nato da una famiglia benestante, con licenza superiore e con un marito (anche se l’unione civile non è un matrimonio) con cui da tempo è nata la voglia di impegnarci e fare attivismo".
Attivismo: cioè?
"Mattia, mio marito, è un illustratore e tatuatore, e insieme abbiamo avviato piccoli progetti illustrati: i Queersauri(dinosauri colorati e con le piume) e The coloring drag, libri da colorare per educare i bambini alla diversità attraverso il gioco. Dopo il secondo lockdown e dopo vent’anni di professione nella danza, ho iniziato a fare attivismo con Arcigay. Ed è cominciato il lavoro duro".
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Cosa è The Shade?
"Un evento innovativo, importato da altre città italiane e straniere, che a Firenze nasce all’interno di Arcigay. È un evento con performers queer, quindi con Drag Queen, Drag King, stand up comedians, artisti, che parte con un talk culturale, continua con lo show e finisce con la discoteca".
Lo scopo?
"Mettere insieme intrattenimento e contenuti culturali, creare uno spazio sicuro per tutte le persone che non hanno un luogo sicuro in cui divertirsi e per chi spazi invece ne avrebbe ma può imparare qualcosa di nuovo e buone pratiche di inclusione".
Cosa si intende per divertimento? Cosa è permesso fare in un cabaret queer, anche prendervi in giro?
"Certo, tutti abbiamo bisogno di divertirci e di sganciare la testa, e sentendoci in un posto protetto possiamo essere liberi di scherzare su tutti gli stereotipi, anche quelli di cui il mondo Lgbt può essere portatore. Possiamo ridere degli atteggiamenti effeminati gay, per esempio, perché allo stesso tempo possiamo ridere dell’uomo macho o di un certo tipo di donna. Se il campo è neutro, siamo tutti alla pari. È un modo per educare divertendosi e includendo tutti, cosa che in una discoteca, per esempio, non sarebbe possibile".
Quindi il contesto conta più del tipo di comicità o di battuta?
"Certo: se tutti veniamo colpiti dalla satira in modo trasversale, nessuno resta vittima. E la battuta comica diventa uno strumento efficacissimo per scardinare gli stereotipi in un clima di fratellanza e amicizia. Se invece la satira è fatta da una posizione di privilegio, allora fa una cosa scorretta".
The Shade
The Shade
Quindi la satira sull’omosessuale o sul transessuale brasiliano di Checco Zalone in tv, per esempio, non è accettabile a prescindere dal contenuto?
"Sì perché quello non è un contesto di parità. Lui è un uomo etero che prende in giro lo stereotipo dell’uomo gay e della donna trans senza che nessuno possa reagire o replicare. Per noi è un’aggressione, tanto è vero che nei giorni successivi si sono verificati casi di emulazione fra i ragazzi al limite del bullismo. Questo tipo di comportamento non aiuta a scardinare gli stereotipi ma anzi li legittima".
E nei vostri eventi il pubblico come si comporta?
"Il pubblico è misto, arriva tanta gente diversa e scatta la curiosità verso l’altro. E la curiosità è un modo sano di approcciarsi all’altro, si tende a scoprirsi senza pregiudizi, o peggio giudizi. E alla fine si balla e si ride insieme in un clima molto rilassato".
Si può dire che diventano eventi anche terapeutici?
"In un certo senso sì. Potendo esprimere liberamente sia i propri pregiudiziali che quelli che incontriamo nel mondo reale, ci rendiamo conto che tutti, talvolta, siamo vittime di qualche stereotipo che ci imbriglia e ci condiziona. La comicità è molto utile per parlare di certe cose. Ci sono tanti stand up comedians stranieri, che oggi sono visibili e sottotitolati nelle varie piattaforme tv, che fanno ridere e nello stesso tempo fanno riflettere su tanti tabù. Ridendo degli stereotipi ci si rende conto di quanto siano limitanti. Esempio: gli uomini gay sono tutti promiscui. Questo è ridicolo, non si può generalizzare. Sarà la stessa percentuale che c’è fra gli etero, o no?".
Come spiegherebbe l’arte drag?
"È l’arte di crearsi un personaggio da portare in scena utilizzando il proprio talento e declinandolo con varie forme artistiche. C’è chi canta, chi balla, chi fa stand up, chi fa teatro. Per me ha anche un valore politico, che serve a scardinare certi schemi binari: l’uomo patriarcale che deve fare l’uomo, che non deve piangere, la donna che si prende cura degli altri e invece piange. A me per esempio questa cosa che gli uomini non possono piangere mi sembra una limitazione terribile della possibilità di esprimersi, di vivere momenti tristi o felici commuovendosi. Il ribaltamento di questi ruoli è già un fatto politico in sé".
Il dietro le quinte nella preparazione di una Drag Queen
Chiunque può fare arte drag, a prescindere dal proprio orientamento sessuale?
"Certo (anche se è raro). È una forma di espressione artistica. Se vogliamo entrare nelle definizioni, la Drag Queen è un uomo che si traveste da donna, mentre la donna che si traveste da uomo è un Drag King (era molto di moda nel primi anni del Novecento). Ci sono anche le Bio Queen: donne il cui personaggio è femminile".
Achille Lauro è definibile come una Drag Queen?
"No, lui è un cantante che fa delle performance prendendo a prestito espressioni queer".
E Drusilla Foer?
"Non è una Drag, lui/lei si definisce come en travestì, cioè travestito nel sesso opposto. Di Drusilla non conosciamo la persona, o meglio non si svela, Drusilla è l’unica identità con cui si mostra, non vedrai mai Gianluca Gori in scena, c’è una separazione molto netta. Mentre di Ava Hangar, per esempio, conosciamo Ava ma anche la parte maschile, che una volta finita la performance torna a essere Riccardo anche in pubblico".
Lei si è definito poliamoroso. Ce lo spiega?
"Vuol dire avere più relazioni nello stesso momento. Io ho un marito e un fidanzato".
È contrario alla monogamia?
"No, ognuno è libero di essere come è, il problema nasce quando nascono le discriminazioni".
La categorie con cui definire le identità sessuali sono ormai moltissime. Poliamoroso, demisessuale, non binario, sapiosessuale, pansessuale e via così. C’è bisogno di queste etichette?
"Non le chiamerei etichette, che ricordano i prezzi al supermercato, e neanche categorie. Ma le definizioni sì, servono. E sa perché? Perché senza le parole che ci definiscono, non troviamo il nostro posto nel mondo. Se so come definirmi, mi riconosco, ho un posto, riesco a raccontarmi. E questo è fondamentale. Anche se poi non basta dire uomo, cis, gay, bianco, per dire tutto quello sono io, per esempio. Ovvio. Ma è un inizio. Non si può pensare che una sola definizione ci definisca nella nostra totalità. L’importante è non dare etichette, o categorie, perché ogni persona è diversa dall’altra".
Pensa di avere figli in futuro?
"Non essendoci la possibilità in Italia, non mi pongo il problema. Semmai mi batto per una legge che dia la possibilità di adottare o di accedere alla procreazione assistita per le coppie con unioni civili. Personalmente vorrei adottare, non farei mai un figlio mio, siamo già troppi in questo pianeta. Sarei felice di dare una casa e una famiglia a un bambino che non ce l’ha".
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