
DonneGuerra
Ci vuole coraggio a buttare una bomba. O a sparare al nemico. Ci vuole adrenalina, soprattutto. E testosterone. Ma come chiamarlo, se non coraggio, quello di una puerpera che sfida i mortai per portare in salvo la vita che ha in grembo? Che aggettivo possiamo usare accanto a quelle donne che sotto il tuono della guerra oppongono forza, amore, rocambolesche strategie di sopravvivenza per se stesse e per chiunque abbiano intorno? Se le parole hanno un senso, la definizione di coraggio andrebbe rivisitata. Anche l’amore, in certe condizioni, diventa una virtù guerriera.
L’Onu le ha definite peace builder. Sono le donne, tutte le donne coinvolte direttamente o meno nelle aree di guerra e che in una storica Risoluzione votata all’unanimità dalle Nazioni Unite (nel 2000) sono due volte protagoniste: come vittime e come potenziali portatrici di pace. A 22 anni da quella svolta, i conflitti continuano ad esplodere e le donne non solo continuano a pagare il prezzo più alto, ma restano ai margini di qualunque trattativa o tavolo di mediazione. Se gli stupri a tappeto usati come arma definitiva contro il nemico possono sembrare fantascienza (ma la ex Jugoslavia non è così lontana nel tempo e nella geografia), basta pensare alle storie simbolo di questa ultima guerra a due passi da noi, in Ucraina.
La blogger bionda e statuaria immortalata mentre fugge con il pancione e il pigiama insanguinato dall’ospedale di Mariupol; la giovane donna incinta sulla barella che muore poco dopo aver dato alla luce il suo bambino; la mamma russa che riceve l’ultimo messaggio dal figlio sul fronte e quella che riesce invece a parlarci per telefono e a consolarlo; Tania, che aspetta rassegnata le bombe in casa perché non può portare il figlio disabile nei rifugi; la giornalista russa che sfida il drago e si oppone alla guerra in diretta.
E poi tutti quei volti di donne fino a ieri curate come bambole che hanno percorso chilometri e chilometri a piedi per portare i loro bambini al sicuro: alcune, forse molte, una volta messi in salvo i figli, sono tornate a sostenere i loro compagni. È difficile pensare che queste madri, queste donne pronte a tutto per proteggere le vite che hanno generato o le loro comunità, una volta sedute allo stesso tavolo, non trovino il modo per uscire dalla guerra. È anche molto probabile che non ci sarebbero mai entrate, ma questo è un altro capitolo. "La guerra separa ciò che l'amore fa nascere", gridava un recente video girato per Emergency con The Family Film. “Nel mondo 82,4 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case, le loro famiglie e le loro vite a causa di guerra e persecuzioni, violenza e violazioni di diritti umani. Rendiamo il 2022 un anno di pace, non di guerra", era il messaggio finale. L’anno, invece, si è aperto con un conflitto nuovo, fra i più pericolosi. E per un altro esercito di donne è cominciata la retromarcia.
Perché è questo quello che succede alle donne quando scoppia una guerra: tornano indietro. Dove a fatica avevano conquistato il diritto allo studio, a una carriera e a una vita normale, corrono il rischio di ritrovarsi sotto un burqa e chiuse in casa. Avete mai visto fotografie di Kabul degli anni Sessanta e Settanta? Minigonne, camicette, volti sorridenti e alla luce del sole. Ora le donne non possono neanche studiare, figuriamoci vestirsi come vogliono. In mezzo, decenni di guerra. L’Afghanistan è il Paese in cui la retrocessione del mondo femminile è stata più clamorosa, ma le storie nei Paesi attualmente in guerra (Siria, Irak, Sudan, Yemen, Somalia, Libia, Congo, Africa centrale…) sono tutte dello stesso segno: donne che studiavano all’università e che hanno lasciato tutto alle spalle, per sempre, o che vengono costrette a sposarsi precocemente per ovviare alla povertà post conflitto (vedi i racconti delle rifugiate siriane in Giordania), gravidanze che diventano un pericolo per il figlio e per se stesse, carriere interrotte, lutti e famiglie spezzate. Non a caso nella classifica mondiale sulle diseguaglianze di genere, i Paesi negli ultimi posti sono tutti dilaniati dai conflitti.
Ma è lo stupro come arma di guerra, la conseguenza più indigeribile. È una storia antica, purtroppo, confinata nel capitolo degli effetti collaterali fino alla tragedia della ex Jugoslavia, quando la Corte penale internazionale ha annoverato lo stupro fra i crimini di guerra. Non è un incidente, è una strategia usata per annientare il nemico: violentare una donna distrugge l’intera comunità, condannandola alla vergogna perenne. L’ultimo stupro di massa di cui si è scritto è quello del Congo, e dobbiamo all’omicidio del nostro ambasciatore e della sua scorta se quella guerra non è più così sconosciuta. In Nigeria la guerriglia rapisce le studentesse. Le donne algerine portano ancora le ferite degli anni neri del terrorismo. Nei Paesi dove è andato in scena lo stupro di massa, protratto nel tempo e nella ferocia, le organizzazioni umanitarie hanno dovuto fronteggiare racconti strazianti e ferite insanabili, come la sterilità o la mortalità delle donne incinte. E si tratta di Paesi in cui la maternità già mette in pericolo (solo un dato: se in Europa muoiono di gravidanza o parto 12 donne su 100mila bambini nati vivi, in Sierra Leone, per fare l’esempio di un luogo che esce da conflitti devastanti, ne muoiono 1.300). Non è un caso, dunque, se ai primi segnali di invasione da parte dei russi le donne ucraine abbiano lanciato sos sui social: sapevano cosa stavano rischiando. È una paura antica, trasmessa di generazione in generazione. Nessuno ha mai sentito il racconto di violenze da una nonna o una bisnonna che ha vissuto la grande guerra?

Una donna ucraina indossa la mascherina coi colori della bandiera. Si stanno dimostrando vere eroine nel difendere il loro Paese (Instagram)
Peace Building

La donna nella foto, sopravvissuta al bombardamento dell'ospedale di Mariupol, è morta dopo aver dato alla luce il suo bambino, anch'esso deceduto

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